JACOMO da Pesaro
Non si conoscono la data e il luogo di nascita di questo ceramista attivo a Venezia nella prima metà del XVI secolo.
Poche sono le notizie certe che riguardano J., e ugualmente scarse le fonti indirette, cosicché nel passato la sua figura di artefice, legata ad alcuni manufatti pregiati, ha costituito un nodo problematico. In anni recenti, grazie al fortunato ritrovamento di alcune carte d'archivio, A. Alverà Bortolotto ha potuto ricostruire, ancorché in maniera parziale, la biografia di questo artista, comprendendo meglio il ruolo della sua bottega e ridefinendo il corpus delle opere che gli vengono attribuite.
La prima attestazione di J. risale al 1507, quando egli acquistò da un certo Marco Falier una casa con soffitta e pianterreno, in cattive condizioni, in campo S. Barnaba a Venezia, la zona a ridosso delle Zattere e presso il campo degli Squellini, che sempre più veniva configurandosi come l'area di produzione della ceramica. In quest'occasione J. si dichiarò maestro boccalaro e figlio di un quondam Antonio, originario di Sant'Angelo di Pesaro: la sua attività come maestro doveva essere già ben avviata ed egli doveva essere verosimilmente residente a Venezia da lungo tempo, poiché nella città vigevano severe leggi protezionistiche nei riguardi delle corporazioni d'arte locali.
Artigiano in grado di operare in prima persona, J. appare dai documenti animato dalla volontà di dar luogo a un'officina di rilievo, che si imponesse sul mercato: negli anni egli accrebbe i propri possedimenti e intrecciò una rete di legami familiari con abili maiolicari, destinati a proseguire l'attività manifatturiera. La bottega impiegò anche numerosi collaboratori e lavoranti; ma l'indirizzo di stile della produzione è da ritenere del maestro Jacomo.
A conferma del successo e dell'espansione della sua bottega - ormai impresa industriale - nel 1523 e nel 1538 J. acquisì plurime proprietà immobiliari nella zona di S. Barnaba, confinanti con la casa e la fornace già possedute, allargando gli spazi destinati alla produzione. Alcuni documenti inerenti agli eredi di J. testimoniano di un raggiunto benessere economico, con proventi differenziati; egli possedette sia edifici sia terreni, affittati prevalentemente a collaboratori e artigiani, che gli assicuravano profitti aggiuntivi.
Le opere attribuibili con sicurezza al maestro J. sono poche, ma tutte di elevata qualità formale e tecnica; pertanto la critica ritiene che la sua bottega abbia rivestito un ruolo preminente - in concorrenza con quella di maestro Lodovico situata in campo S. Polo - nello sviluppo della produzione veneziana di maiolica, formando numerosi pittori e decoratori poi confluiti presso altre, forse autonome, manifatture. Una capillare disamina delle singole paternità, a partire dall'individuazione dei dati di stile peculiari dei vari decoratori attivi nelle due officine più celebri, attende tuttavia d'essere portata a compimento.
Risale al 1534 il piatto con trofei, strumenti musicali, teste virili ed equine (Milano, collezione privata: Alverà Bortolotto, 1988, p. 46) dipinti a monocromo grigio-bruno su fondo blu: i soggetti sono raffigurati sull'ampio cavetto e sulla tesa secondo un susseguirsi di piani, ma senza gerarchie, come fluttuassero in uno spazio dilatato.
Sul retro, al centro, compare la data e la sigla della bottega, mentre tutt'intorno corre un fregio floreale blu "alla porcellana", cioè d'ispirazione orientale, su un fondo a smalto berettino (azzurrino), tipico della produzione veneziana dell'epoca. Stilisticamente, il decoratore rivela una conoscenza della pittura di Raffaello - fonte prediletta della maiolica istoriata dell'Italia centrale - e manifesta interesse per le istanze manieriste.
Nel 1542 la bottega di J. firmava il piatto a disegni bianchi su bianco, tecnica ornamentale assai raffinata a imitazione del merletto, che presenta una fitta trama di decorazioni classicheggianti, come mascheroni e grottesche, intervallate da quattro medaglioni raffiguranti uomini e donne celebri dell'antichità (Londra, Wallace Collection). L'opera si rivela assolutamente aggiornata fino ai più moderni repertori decorativi, e la tecnica esecutiva impeccabile eleva il manufatto a dignità d'arte. Quello stesso anno venne prodotto un piatto raffigurante Venere e Vulcano, perduto nella seconda guerra mondiale (Alverà Bortolotto, 1988, pp. 44 s., 50).
Presso il Victoria and Albert Museum di Londra si custodisce una delicata fruttiera bianca operata a traforo e dipinta al centro a monocromo azzurro: vi si raffigurano il volto di un giovane e alle sue spalle quello di un vecchio, metafore delle età della vita e dello scorrere del tempo. A tergo l'oggetto reca un'iscrizione in corsivo che indica l'anno di fabbricazione, il 1543, e lo assegna alla mano di maestro J.; è incerto se questi sia anche l'autore della decorazione pittorica, condotta con tratto veloce ed elegante (ibid., p. 47).
J. morì verosimilmente a Venezia nel giugno 1546 (Alverà Bortolotto, 1988, p. 36).
Il testamento, datato 3 genn. 1544, informa sulla sua discendenza. J. ebbe un figlio, Gasparo, ceramista a sua volta e nominato erede universale, il quale peraltro sopravvisse al padre soltanto pochi mesi, e tre figlie, tutte sposate a maiolicari. Caterina fu moglie di Domenico da Venezia, ceramista in seguito molto noto che verosimilmente si formò con il suocero; Isabetta sposò Pasqualino de Zorzi, che proseguì l'attività del suocero; Lucia, invece, si unì nel 1544 a Francesco di Casteldurante, il quale esercitò in una propria bottega in zona S. Tomà.
Tra le persone menzionate nel testamento figurano una sorella, Antonia, abitante a Venezia e un fratello già defunto, Francesco, i cui eredi ugualmente risiedono in laguna: ciò avvalora l'ipotesi che possa essere stato già il padre di J., Antonio, a trasferirsi da Pesaro in laguna. Poiché nelle zone intorno a Pesaro si estraeva argilla di ottima qualità che veniva esportata verso Nord, ed esisteva una grande tradizione della ceramica, non è da escludere che J. abbia ricevuto un'educazione paterna all'arte figulina e che all'origine vi sia stata una bottega familiare.
Allo stato attuale degli studi, J. presenta aspetti suscettibili di indagine, in specie per quanto concerne il corpus di opere; ugualmente si ignorano i suoi rapporti con la committenza, mentre la qualità dei suoi manufatti autografi non può che orientare verso un pubblico di alto rango e istituzionale.
Fonti e Bibl.: A. Alverà Bortolotto, Casa, fornace e officina del maestro J. da Pesaro a S. Barnaba, a Venezia agli inizi del Cinquecento, in Arte veneta, XXXVII (1983), pp. 219-221; Id., Maiolica a Venezia nel Rinascimento, Bergamo 1988 (con bibliografia precedente); L. Arbace, Domenico da Venezia, in Diz. biogr. degli Italiani, XL, Roma 1991, p. 679; C. Ravanelli Guidotti, Omaggio a Venezia. Maioliche veneziane tra manierismo e barocco (catal.), II, Faenza 1998, p. 40; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XVIII, p. 282.