BONOMI, Ivanoe
Nato a Mantova il 18 ott. 1873 da Pietro e da Aglei Parodi, compì gli studi medi nella città natale e si laureò nel 1896 all'università di Bologna in scienze naturali. Nel biennio successivo insegnò scienze naturali presso la locale scuola magistrale, laureandosi in giurisprudenza nella stessa università. I legami con Mantova e con la sua provincia contadina, scossa di recente dal movimento di "la boje!", furono l'elemento decisivo della formazione del B., nella cornice della diffusione del marxismo tra i giovani intellettuali. Nella biografia del Bissolati, il B. rievocherà con efficacia l'ambiente che fu anche della sua adolescenza, e quel febbrile "operare nelle campagne" che creò "nel giro di pochi anni" le premesse del moderno movimento contadino nella valle del Po (I. B., Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Roma 1945, pp. 16-21). Fu nel corso di questa intensa azione di propaganda e delle polemiche che accompagnarono la svolta della Federazione mantovana delle cooperative verso il nuovo partito socialista che il B. ebbe modo di conoscere i maggiori dirigenti socialisti, dal Turati al Prampolini, dal Bissolati alla Kuliscioff (sull'incontro con quest'ultima si vedano la lettera della Kuliscioff al B. datata 14 febbr. 1907 in Lettere di Anna Kuliscioff..., pp. 116-17, e la dedica che il B. le fece di Le vie nuove del socialismo nel 1907).
Il 19 ag. 1894 il B. partecipò a Cremona al congresso socialista regionale lombardo, convocato in forma semiclandestina contro i provvedimenti repressivi crispini. Processato nel novembre successivo con gli altri dirigenti socialisti mantovani, fu condannato a 75 giorni di confino (Salvadori, p. 110). Nel 1895 iniziò la sua collaborazione alla Critica sociale, che ebbe un primo momento di rilievo con la partecipazione al dibattito in corso sui problemi dell'attività dei socialisti nelle campagne (La nostra propaganda nelle campagne, 16 febbr. 1896; l'articolo venne ripubblicato in Polemiche operaie fra socialisti, I, La conquista delle campagne, Milano 1896).
Nella discussione il B. prendeva una posizione eclettica, sostenendo la possibilità di alleanze con la piccola borghesia nel quadro di una lotta guidata dalle organizzazioni di resistenza. Di poco successivo è il suo primo articolo di elaborazione politica (Il domani e la democrazia, in Critica sociale, 1º apr. 1896), nel quale si rilevava la "fiacchezza della democrazia in Italia", e la sua tendenza a una involuzione reazionaria. Il Turati fece seguire a quello del B. un articolo (Stimolare e vigilare, ibid.) inteso a differenziare la propria posizione dal "semplicismo" del giovane collaboratore; il quale finì col riconoscere che non la borghesia, ma solo interessi feudali e di casta presiedevano all'offensiva reazionaria, contro la quale il partito socialista si trovava a resistere unitamente a forze democratiche (La reazione in Italia, ibid., 1º nov. 1896). Al congresso nazionale socialista di Firenze (11-13 luglio 1896)il B. presentò un ordine del giorno per la limitazione dell'intransigenza al solo primo scrutinio delle elezioni politiche (posizione già da lui sostenuta al congresso regionale emiliano del 28 giugno), che ebbe l'appoggio dei turatiani. Notevole peso dovette avere, nel portare il B. alla "transigenza", l'esperienza, che egli visse direttamente, dei moti di Parma del 1996, interpretati come dimostrazione di immaturità e di diffusa psicologia anarcoide (v. L'ambiente, in Avanti!, 22 giugno 1908).
Dell'inizio del 1898 è la prima negativa presa di posizione del B. nei confronti della "crisi del marxismo" (v. Due libri sul socialismo di Saverio Merlino, in Critica sociale, 16 marzo e 1º apr. 1898; si veda anche la successiva polemica B. Merlino in Presente e Avvenire [Roma], maggio-luglio 1898). All'indomani dei moti del maggio 1898 e della repressione egli si mette a disposizione di Enrico Ferri, al quale il gruppo parlamentare socialista aveva affidato ad interim la direzione dell'Avanti!. Il Ferri lo invitò allora a trasferirsi a Roma, e gli affidò il compito di capo redattore. In effetti il B. resse il giornale per alcuni mesi, sostituendo il Ferri durante le assenze da Roma (sull'esperienza, vedi del B., Ricordi di un redattore dell'"Avanti!", in Uomini e giornali. I grandi giornalisti di ieri negli scritti dei giornalisti di oggi, a cura di S. Negro e A. Lazzarini, Firenze 1947, pp. 32-36; si veda inoltre, del Ferri, l'articolo Il decimo natalizio dell'"Avanti!". Ricordi, aneddoti, speranze, in Avanti!, 25 dic. 1906).
Il B. tenne in seguito ad attribuirsi l'editoriale "Non esito...", pubblicato il 28 settembre 1898, affermante la necessità per il proletariato d'accantonare la "idealità collettivista" e di "collaborare alla preparazione del terreno su cui la società socialista dovrà trovare la sue basi: alla formazione, cioè, della nuova Italia borghesemente moderna" (l'attribuzione dell'articolo è nel volume Leonida Bissolati, cit., p. 53).Dell'avvicinamento del B. al revisionismo dopo la prima polemica col Merlino è testimonianza la sua collaborazione al primo numero della Rivista critica del socialismo (1º genn. 1899)con l'articolo Politica internazionale. Il ritorno alla direzione dell'Avanti! del Bissolati, ostile alla iniziativa dei Merlino, interruppe tale collaborazione; allo stesso Bissolati e al B., rimasto a far parte della redazione del quotidiano socialista, si avvicinava intanto Antonio Labriola, fiero oppositore del revisionismo. Col "maestro della dottrina marxista" il B. ebbe contatti e conversazioni a Roma (Ricordi di un redattore dell'"Avanti!", cit.) e rapporti epistolari quando se ne assentò, nell'estate 1899(A. Schiavi, F. Turati, Roma 1955, pp. 156-57).Gli scritti del B. su argomenti interessanti la "crisi del marxismo" riflettono in questo periodo un certo irrigidimento antirevisionista (si vedano in particolare gli articoli Un libro di Antonio Graziadei. Marx superato?, in Avanti!, 4 genn. 1899 e La risposta di un critico criticato,ibid., 21 genn. 1899). Nettamente filo-labrioliana è la recensione all'edizione italiana del Discorrendo di socialismoe di filosofia, dove il B. istituiva una equazione tra la critica revisionistica e la lotta contro il socialismo toutcourt (cfr. Un libro del prof. Antonio Labriola,ibid., 4 apr. 1899). Ma ben presto egli affermava che "il marxismo non è affatto da confondersi col partito socialista", al quale interessavano soltanto "la concezione storica di Marx" e la direzione del movimento operaio (cfr. Crisi e crisisti,ibid., 6 aprile; l'articolo fu accolto con favore dal Merlino, che ebbe allora a definire il B. [La miaeresia, in Riv. critica del socialismo, I (1899)] "uno de' meno appassionati marxisti").
Parallelamente alla discussione teorica andava sviluppandosi nel partito socialista l'esame dei problemi di tattica e di strategia: proprio un articolo del B. (Destra e sinistra nel partito socialista, in Avanti!, 27 genn. 1899), favorevole alle posizioni del Kautsky, accese un dibattito nel quale intervennero, tra gli altri, il Ferri, Ettore Ciccotti, G. Salvemini. In polemica con quest'ultimo il B. sostenne anche il tema dell'intangibilità dello Statuto la cui difesa doveva diventare il "grido di guerra" dei socialisti (cfr. In difesa dello Statuto,ibid., 18 febbr. 1899); la replica del Salvemini sulla natura di classe della Carta albertina, Tre Stelle? Perché difendiamo lo Statuto,ibid., 21 febbraio; sul tema scrisse ancora il B., Per fattopersonale, ibid., 22 febbraio).
Il B. partecipò con continuità alla nuova fase polemica sui temi agitati dal Turati dopo la sua uscita dal carcere; e appunto tra l'estate del 1899 e i primi mesi del 1900 si allineò completamente alle tesi del Turati, che intanto lo aveva chiamato a Milano, nella redazione della Critica sociale.
L'episodio decisivo della polemica era stata una discussione diretta B.-Turati, che si sviluppò sulla Critica sociale del 16 luglio, (I. B., La Sinistra; Noi [F. Turati], L'Italia assente. Breve risposta a I. Bonomi) e del 1º ag. 1899 (1. B. e Noi, La Sinistra alla prova. Replica e controreplica). Isuccessivi interventi del B. (Ipartiti popolari e il dovere dei socialisti, ibid., 1º sett. 1899; La democrazia, ibid., 16 nov. 1899) adeguarono alla svolta politica nazionale che andava preparandosi anche la tattica e la funzione motrice del PSI; la "nuova tattica" delle alleanze, del lavoro parlamentare, degli obiettivi democratici si imponeva ormai ad ogni premessa teorica e ad ogni richiamo dottrinale al marxismo (che pure il B., in Critica sociale del 1º febbraio del 1900, ancora difendeva contro la riduzione crociana a canone di interpretazione storica).
Anche il B. finì quindi col riporre la propria fiducia in Giolitti (A battaglia impegnato, ibid., 1º marzo 1900) e nella capacità dei partiti popolari di misurarsi sui problemi concreti di governo, Dopo le elezioni,ibid., 16 giugno 1900). Nella scelta riformistica del B., anzi, divennero presto evidenti quel minimalismo e quella tendenza all'empirico che dovevano restare caratteristici della sua figura politica. Così, salito al trono Vittorio Emanuele III, egli lo invitò a "misurare i partiti alla stregua di una idealità propria e non al lume dei concetti istillatigli nella sua educazione di Corte" e ad affrontare con "audacia" i compiti democratici posti dalla situazione italiana (cfr. In chi dobbiamo fidare, ibid., 1º nov. 1900). L'articolo suscitò aspri attacchi dei repubblicani, e sconcertò anche all'interno del PSI: ma il B. ribadì che i socialisti dovevano battersi, nella nuova fase politica, "non soltanto per l'interesse della classe proletaria, ma anche per assicurare uno sviluppo ordinato e pacifico al progresso incessante della società moderna" secondo "un interesse generale, che dovrebbe essere tanto più caro alle classi capitalistiche quanto più esse hanno da temere da qualche scossa improvvisa" (Dove andiamo?, in Avanti!, 25 dic. 1900).
L'occasione propizia allo svolgimento di un ruolo positivo dell'Estrema Sinistra e del PSI si era creata, secondo il B., con la formazione del governo Zanardelli, al quale occorreva guardare senza alcun apriorismo antiministeriale (cfr. La Sinistra al potere, in Critica sociale, 1º marzo 1901). Del resto, il ministerialismo non era che "la illazione da premesse di fatto pacificamente ammesse" e venute a maturazione dopo la vittoria contro i tentativi liberticidi (La fisiologia del dissidio, in Critica sociale, 16 ag. 1901), e si svolgeva nella tattica della "penetrazione socialista" propugnata da Jean Jaurés e dell'uso a fini riformatori delle quote di potere politico e parlamentare acquisite in una situazione irreversibilmente democratica e progressiva (La tattica parlamentare, ibid., 1º apr. 1902). Tali concetti furono anche al centro della relazione su L'azione politica del Partito socialista e i suoi rapporti con l'azione parlamentare (Imola 1902), che il B. presentò e fece approvare nel settembre 1902 al congresso di Imola del partito socialista.
All'interno di questa visione vanno situati i suoi interessi e le proposte concrete intorno a problemi particolari, quali, soprattutto, quelli agrari e del movimento contadino, quelli delle amministrazioni locali e quelli tributari e finanziari. Su questi temi il B. pubblicò numerosi articoli, poi raccolti in due volumi (I. B.-C. Vezzani, Il movimento proletario nel Mantovano, Milano 1901; I. B., Questioni urgenti, Genova 1903) e uno studio organico su La finanza locale e i suoi problemi (Milano-Palermo-Napoli 1903). Dopo il congresso di Bologna dei lavoratori della terra (nov. 1901) egli difese il carattere politico delle organizzazioni di classe nelle campagne e la parola d'ordine "socializzazione della terra e indicò lo stato di "piena disfatta morale del trade-unionismo, conseguente alla sua limitazione ad un'angusta "politica del lavoro" (cfr. Le affermazioni socialiste del Congresso di Bologna, in Critica sociale, 16 dic. 1901; poi raccolto, con altri articoli, da F. Turati, C. Treves e G. Cassola, nell'opuscolo Le leghe di resistenza e il Partito socialista, Milano 1902). In effetti il B. era stato uno dei principali ispiratori del congresso, al quale aveva anche presentato unarelazione sulla estensione della legge sui probiviri (Resoc. sten. del primo congr. naz. dei lavoratori della terra, Bologna 1902); ma le tesi da lui sostenute erano propaggini del suo sinistrismo giovanile, ed erano contraddette dalle tendenze di sviluppo del suo pensiero: ben presto infatti egli le abbandonò, indirizzandosi a soluzioni cooperative e apolitiche. Allo studio dei problemi finanziari e tributari il B. arrivò partendo dai suoi interessi politico-amministrativi.
Già presente al primo congresso dei consiglieri comunali socialisti del Mantovano (1º ott. 1899; si vedano in proposito l'Avanti! del 4 ottobre e Critica sociale del 16 ottobre), egli fu relatore al congresso del PSI di Roma nel settembre 1900 (Sull'azione del partito nelle amministrazioni locali, Milano 1900). Sul principio della autonomia tributaria dei comuni il B. incentrava un progetto generale di riforme da attuarsi "abolendo il dazio consumo e creando una imposta personale e progressiva a favore dello Stato" (La finanza locale e i suoi problemi, cit., p. 247). Un tema, questo, che egli agitò in articoli e discorsi degli anni successivi e che fu materia di un o.d.g. da lui presentato al congresso dei comuni italiani, riunito a Roma nel novembre dell'anno 1903.Alla crisi del riformismo, delineatasi dopo il congresso di Imola, il B. (che dal maggio 1901 era tornato a fianco del Bissolati nella redazione dell'Avanti!) reagì con energia. Egli così analizzava i motivi politici generali della nuova situazione: fallimento della democrazia, limiti parlamentaristici dell'Estrema, scarsa conoscenza delle questioni nazionali a livello delle strutture (cfr. Il programma di una democrazia di Governo, in Critica sociale, 16 dic. 1903; La fine d'un periodo,ibid., 1º genn. 1904). Nell'autunno 1903, dopo aver lasciato l'Avanti!, ormai conquistato dalla corrente avversaria, il B. attaccò la sinistra del partito, criticando la campagna promossa dal Ferri contro la progettata visita dello zar in Italia, e lamentando che il PSI si isolasse dalle forze democratiche (La Critica Sociale e I. B., La politicad el fischio,ibid., 16 sett-1º ott. 1903).
Partendo dalla situazione del movimento nel Mantovano e dalla politica del Ferri egli analizzò anche i compiti dei socialisti in base ad una concezione realistica e "integrale" di tutto il processo storico nazionale e indicò la necessità oggettiva di "sfollare i più rigurgitanti mercati del lavoro" attraverso l'emigrazione e di incoraggiare "lo sviluppo ancor lento dell'accumulazione capitalistica" (cfr. La crisi del movimento socialista,ibid., 16 ottobre e 1º nov. 1903; poi in opuscolo, con lo stesso titolo, Milano 1904; si veda inoltre, La politica di emigrazione. Colonizzazione interna e colonizzazione estera, in Critica sociale, 16 marzo 1904).
Dopo aver accarezzato l'idea di dar vita ad un settimanale di corrente e rifiutato un incarico direttivo presso la Società umanitaria, il B. accettò di tornare a Milano come vicedirettore di Il Tempo di Treves. Il nuovo soggiorno milanese, che si protrasse per quasi tutto il 1904, costituì un'importante esperienza politica nel corso della quale egli venne perfezionando la sua adesione al revisionismo e al nuovo "clima sociale" che l'aveva generato (cfr. I. B., L'eterna contesa. Il socialismo proletario e i suoi metodi, in Critica sociale, 16 maggio 1904; La burletta del sindacalismo rivoluzionario. Quel che c'è dentro nella famosa "azione diretta", ibid., 1º febbr. 1905).
Sul piano dei collegamenti internazionali, il volto moderno del socialismo gli appariva ormai rappresentato da Bernstein, dall'esperienza millerandiana, da Jaurès e dallo stesso riformismo italiano (cfr. La cacciata di Millerand, ibid., 16 genn. 1904; Il Convegno di Trieste, ibid., 16 apr. 1905). Nel febbraio 1904 egli partecipò agli aspri scontri del congresso socialista regionale di Brescia. Nell'imminenza del congresso nazionale di Bologna (aprile 1904; al congresso presentò una relazione su La riforma tributaria, edita in opuscolo a Imola) egli mise in chiaro il dissidio insanabile tra le correnti, che verteva "sul valore della riforma, sulla sua capacità a trasformare i rapporti della società capitalistica" (Riformismo socialista e riformismo rivoluzionario, in Critica sociale, 1º apr. 1904; si veda anche il suo commento al congresso: Il Congresso socialista di Bologna, in Nuova Antologia, 1º maggio 1904).
Durante lo sciopero generale del settembre 1904, dopo aver preso posizione su Il Tempo contro l'agitazione, collaborò tuttavia con i sindacalisti rivoluzionari al Bollettino della Camera del lavoro di Milano che uscì in quei giorni (si vedano l'intervento di Arturo Labriola in Res. sten. del IX Congresso nazionale del Partito socialista italiano,Roma,7-8-9-10 ott. 1906, Roma 1907, p. 114; e Procacci, p. 419 e passim). Ma il tentativo del B. e di altri di caratterizzare in senso riformista lo sciopero fallì. I dissensi tra i sindacalisti rivoluzionari e il Ferri aprirono però nuove possibilità di recupero nel partito e nel movimento operaio. In una lettera aperta al Ferri il B. rilevò la comune opposizione al sindacalismo rivoluzionario e propose che si facesse "sinceramente ritorno alle tradizioni immutate del nostro partito" (L'azionesocialista, in Avanti!, 24 dicembre 1904).
Nel frattempo egli non abbandonava lo studio dei problemi amministrativi locali, e l'attività di partito nel Mantovano, dove nel 1903 i riformisti erano stati messi in minoranza. Nel maggio 1904 la vittoria socialista nelle elezioni provinciali portò il B. nella nuova maggioranza consiliare; candidato di corrente nel collegio di Bozzolo per le elezioni politiche del 1904, egli fu però indotto a ritirarsi dall'orientamento ostile della maggioranza.
Nel maggio 1905, tornato a Roma, realizzò il suo vecchio progetto di fondare e dirigere un organo riformista in collaborazione con Leonida Bissolati, L'Azione socialista.
Nell'editoriale del primo numero il periodico si presentava come continuatore dell'opera interrotta con la sconfitta riformista del 1902 (Riprendendo il lavoro..., in L'Azione socialista, 7 maggio 1905). Lo sblocco della lotta tra le correnti era visto dal B. in chiave di contrapposizione ai rivoluzionari del "socialismo senza aggettivi": benché non mancassero attacchi anche al Ferri, era sempre trasparente il proposito di trarlo ad una alleanza antisindacalista. Localmente la polemica sfociò in una controversa espulsione del B., del Cassola e di V. Piva dall'Unione socialista (ibid., 22 luglio); ma la crisi del sindacalismo rivoluzionario e la frattura tra i suoi esponenti ed il Ferri erano ormai fatti acquisiti. Alla nascita della corrente integralista il B. rivendicò a se stesso la primogenitura della concezione "integrale" e propose un'azione comune per la "restaurazione del partito" (I. B., Alleanza,non blocco eterogeneo. Lettera aperta a Oddino Morgari,ibid., 25 nov. 1905). Nel Commiato (30 dic. 1905) egli scrisse che L'Azione socialista aveva, nella sua breve vita, "esaurito il compito, che si era prefissa, di chiamare a raccolta tutte le forze schiettamente socialiste per opporle alle degenerazioni anarcoidi".
Al congresso di Roma del 1906 il B., superando le remore del Turati, trasse tutta l'ala destra del partito ad una confluenza con gli integralisti. In tal modo non solo si poté giungere alla sconfitta definitiva dei sindacalisti rivoluzionari, ma si ottenne l'isolamento del Ferri nel quadro di una alleanza di centro-destra (Cortesi, pp. 229-231; Resoconto stenografico del IX Congresso nazionale..., cit.; si veda inoltre del B., Perché stiamo in attesa. Lettera aperta a Oddino Morgari, in Avanti!, 30 sett. 1906).
All'indomani del congresso il Ferri, che era rimasto alla direzione dell'Avanti!, chiamò il B. ad unacollaborazione fissa al quotidiano sulle questioni tributarie ed economiche (Nellafamiglia dell'"Avanti!, ibid., 17 ottobre). La collaborazione uscì presto dai limiti di competenza annunciati, e investì problemi di linea generale del partito e di politica interna ed estera. L'elaborazione del B. in quel periodo è da considerarsi come il supporto analitico del volume Le vie nuove del socialismo, al quale egli stava attendendo e che fu pubblicato l'anno successivo (Milano-Palermo-Napoli 1907).
Il libro, oltre che per la conoscenza del revisionismo del B. nel suo stadio maturo, è interessante come unico tentativo di teorizzazione fatto dai socialriformisti italiani. Il B. parte dalla critica dell'"urto dei contrari" e della "concezione catastrofica" che caratterizzano, a suo modo di vedere, il marxismo. Solo dopo la morte di Engels si rivelò la "possibilità riformatrice" del movimento, contrastata dalla "tradizione superstiziosa del passato"; ma lo "sconsolato aforisma, secondo cui ogni governo è sempre e soltanto il governo di una classe, è ormai una foglia secca sull'albero rinnovellato dalle odierne società politiche" contraddistinte dal pluralismo e dalla "promiscuità mutevole" delle quote di potere. Anche in Italia, nel 1901, "il Governo cessò di appartenere esclusivamente ad una sola classe"; in queste condizioni, "la classe operaia non ha che da affidarsi, senza esitazioni paurose", alla "legge di progresso delle società democratiche", che la porterà necessariamente ad essere il "centro di una combinazione governativa, dove essa sarà l'astro, e i ceti, oscillanti fra la piccola borghesia e il proletariato, i pianeti seguaci". La "funzione rivoluzionaria del riformismo" si esplicava soprattutto nelle "conquiste legislative del movimento operaio", nello sviluppo dei germi corporativistici e nella graduale trasformazione dello Stato in "organo regolatore della produzione socializzata". Il "secondo periodo" del socialismo, "caratterizzato dalla prevalenza del socialismo tedesco e quindi dei concetti di Marx", e particolarmente dal privilegiamento del partito sulle organizzazioni di classe, anzi "dittatura del marxismo incarnato in un partito", volgeva ormai al tramonto. La nuova tendenza, che risaliva al Bernstein, avrebbe appunto portato il movimento socialista lungo le vie della conquista democratica del potere. "Vie nuove del socialismo" nelle quali un contemporaneo non socialista riconosceva le "vie vecchie della democrazia" (Ruini, pp. 65-74), e che secondo un critico marxista dimostravano "completa noncuranza per la teoria" e "incapacità organica di interpretare giustamente il marxismo" (si veda lo scritto di G. Plekhanov, Intorno al sindacalismo e ai sindacalisti, Roma 1908, pp. 189-206).
Il 30 giugno 1907 il B. fu eletto consigliere comunale a Roma per la lista dell'Unione liberale popolare (o Blocco popolare), uscita vittoriosa dalle ume. Negli stessi giorni egli fu relatore al convegno di Roma dei consiglieri comunali e provinciali socialisti, ed entrò nel Comitato preparatorio della federazione delle rappresentanze locali del PSI. Chiamato a far parte della nuova giunta capitolina (27 novembre), il B. resse per circa un anno l'assessorato alle finanze. Le sue dimissioni, ufficialmente motivate con il nuovo incarico di redattore capo dell'Avanti!, furono in realtà determinate da una grave crisi dell'amministrazione Nathan e da dissensi con i compagni di giunta, sostenuti dalle organizzazioni socialiste romane. Il B. era, in sostanza, avverso ai progetti di municipalizzazione e favorevole ad elevare i proventi dei servizi pubblici (cfr. Le finanze del Comune di Roma. Appunti, in Nuova Antologia, 16 nov. 1908; I problemicittadini. Conversando con I. B., in Avanti!, 27 genn. 1909; si veda inoltre il resoconto dell'intervento del B. nella seduta consiliare del 29 gennaio, ibid., 30 genn. 1909).
L'episodio del Blocco romano, del quale il B. era stato promotore (cfr. Forze nuove, in Critica sociale, 1-16 luglio 1907), va inquadrato nella continua ricerca di un sistema di alleanze democratiche capace di inserirsi dinamicamente nella dialettica politica generale. Dopo la svolta dell'alba del secolo e le speranze riposte in un'azione organica dell'Estrema Sinistra, il B. aveva guardato al ministero Fortis con l'illusione che esso ricreasse condizioni favorevoli ad una ripresa democratica (I. B. e la Critica sociale, Asuccessione aperta, in Critica sociale, 16 marzo 1905). Ma subito appresso (cfr. Il Tempo, 25 giugno 1905; e del B., Situazione nuova. Il significato e gli effetti del Ministero Sonnino, in Critica sociale, 16 febbr. 1906) egli si schierò senza riserve per un appoggio organico al Sonnino, che a suo giudizio si era messo "in contrasto con l'anima della sua classe e del suo partito". Il fallimento dell'esperimento sonniniano aveva quindi riaperto il processo di conquista del potere, e rivalutato le alleanze locali e la politica municipale dei socialisti, che occorreva programmare e coordinare. Su questo tema il B. presentò al X congresso socialista (Firenze 1908) una relazione, che proponeva la convocazione di un congresso dei consiglieri comunali socialisti (Azione dei socialisti nei Comuni, Roma 1908).
La partecipazione del B. alla vita parlamentare cominciò nel 1909. Già battuto a Montagnana nel novembre 1905 e nelle elezioni generali del marzo 1909, e sconfitto in quest'ultima occasione anche a Lendinara (Rovigo), egli riuscì eletto nel collegio di Ostiglia il 1º agosto successivo. La sua attività parlamentare fu, negli anni precedenti il primo conflitto mondiale, dedicata soprattutto a problemi amministrativi e finanziari (cfr. Discorsi politici di I. B., Roma 1954). Ma il pensiero del B. sulle grandi questioni nazionali si esprimeva con maggiore continuità attraverso gli scritti.
Sul tema della riforma tributaria egli, senza rinunciare al progetto di una imposta unica progressiva, si espresse a favore di interventi gradualizzati di modernizzazione del sistema (cfr. Per la riforma del tributo, in Critica sociale, 1º e 16 ott., 1º nov. 1909) e si schierò quindi contro i progetti tributari di Giolitti (Avanti!, 2 e 3 dic. 1909). Maggiore apertura egli aveva riscontrato intanto nel Luzzatti (cfr. Peitributi e per la scuola. Risposte alle interrogazioni di Luigi Luzzatti, ibid., 1º ott. 1909), nella cui ascesa al governo il B. vide l'inizio di una svolta politica decisiva.
L'annunzio di una riforma del suffragio venne interpretato dal B. (che fu membro della commissione parlamentare per le riforme della procedura elettorale) come passo risolutivo in senso democratico. Nel 1905-1906 egli si era espresso per la inattuabilità e impossibilità del suffragio universale, e aveva proposto una campagna per la semplice reintegrazione delle liste (La politica italiana e il suffragio universale e Intorno al suffragio universale. Alla ricerca delle forze per conquistarlo, in Critica sociale, 16 nov-1º dic. 1905 e 16 genn. 1906; e si vedano le repliche del Salvemini, ibid., 16 dic. 1905 e 1º genn. 1906). Questa impostazione restrittiva del B., suggerita dal timore che le dispute astratte sui "grandi disegni fascinatori" facessero passare in secondo piano il problema tributario, non fu sempre presente e rettilinea; ma riemerse decisamente nel 1909-10, caratterizzando per un lungo periodo la linea dell'Avanti!.
Il Salvemini nell'articolo del febbraio 1911 sul "progetto Bonomi", che tra poco citeremo, attribuì al riformista mantovano l'editoriale dell'Avanti! del 3 maggio 1909, Suffragio, elettori ed elettorato. Il linguaggio delle cifre, secondo il quale la legge elettorale vigente, una volta che si fosse ottenuta la reintegrazione degli alfabeti, portava "in sé virtualmente il suffragio universale".
Dopo l'annunzio del Luzzatti il B. rilanciò immediatamente il proprio progetto in termini trionfalistici (L'allargamentodel suffragio. Gli effetti della proposta Luzzatti, in Avanti!, 30 apr. 1910; per l'attribuzione dell'editoriale si rinvia ancora al Salvemini). Egli ridimensionò successivamente la portata della iniziativa luzzattiana, specie per il Mezzogiorno; ma ribadì l'impossibilità della linea universalistica e la necessità di "non correr dietro ai sogni fallaci" (Lariforma della procedura elettorale. Intervista con I. B., in Avanti!, 15 luglio 1910, e La Camera e l'allargamento del voto. Conversando con un parlamentare, ibid., 19 luglio; l'attribuzione di quest'ultimo articolo è sempre nella replica salveminiana); la pubblicazione del timido progetto governativo, nel dicembre 1910, lo colse tuttavia in contropiede.
Ai nuovi attacchi del Salvemini egli rispose che sarebbe stato meglio accettare il progetto del Luzzatti che ricevere il suffragio universale come "dono grazioso" alle masse degli analfabeti non organizzati e schierandosi comunque In difesa d'un principio: l'allargamento del suffragio (ibid., 24 genn. 1911). Ma l'Avanti! stesso(diretto ora dal Treves; dopo le dimissioni del Bissolati, anche il B. aveva lasciato il giornale: si veda l'editoriale Il giornale e il partito,ibid., 15 nov. 1910) e tutta l'ala turatiana si dissociavano da lui. Il Salvemini attaccava anche su Critica sociale (Che fare?, 1ºgenn. 1911; In tema di riforma elettorale, 16 genn., 1º febbr., 16 febbr. 1911), fino a concentrare la polemica personalmente sul Bonomi. Costui replicava collegando l'ottimismo sulla legge Luzzatti all'ottimismo sulla legge Daneo-Credaro (Dalla legge Credaro all'allargamento del voto, in Avanti!, 22 febbraio). L'episodio finale di questo vero duello politico si svolse ancora sulle colonne di Critica sociale, dove il Turati rilevava che il B. era ormai la "testa di turco" degli articoli salveminiani (vedi anche G. Salvemini, Il socialista che si contenta intorno alla riforma elettorale, in Critica sociale, 1º marzo 1911). L'impossibilità del suffragio universale era ancora sostenuta dal B. alla vigilia dell'intervento risolutivo del Giolitti; e il suo richiamo all'empirico era anzi più netto, dichiarando egli che il problema andava affrontato "ripudiando il ciarpame del "primi principi"" (Polemiche suffragiste, ibid., 16 marzo 1911).
Sul Mezzogiorno, dopo varie e oscillanti opinioni, prevalse in lui una considerazione ottimistica, appoggiata ai risvolti positivi dell'emigrazione (che egli vedeva tradotti in "una pioggia d'oro con effetti meravigliosi"), alla formazione di una "nuova democrazia rurale di proprietari coltivatori" e al conseguente "lenimento della lotta di classe" (Larivoluzione del Mezzogiorno, ibid., 16 sett.-1ºott. e 16 ott. 1910; Il grande problema, in Avanti!, 10 marzo 1911; e Per la rinnovazione del Mezzogiorno. Alla ricerca di una classeche manca, ibid., 18 maggio 1911).
In politica estera, l'avvicinamento del B. alla problematica nazionale e patriottica aveva avuto il suo nodo centrale nella crisi bosniaca e si era coerentemente sviluppato negli anni precedenti la guerra di Libia (vedi Leonida Bissolati, cit., pp. 105 ss.); ma più remote erano, comunque, la considerazione delle spese militari come necessarie, l'accettazione della espansione coloniale, la revisione degli "apriorismi" internazionalistici (si vedano gli articoli, firmati, Il conflitto italo-abissino e La "ronde" intorno all'Abissinia in Avanti!, 13 genn. e 15 febbr. 1908).
La discussione sul "partito del lavoro" vide il B. in prima fila su posizioni democratico-laburiste (per una certificazione di queste posizioni si veda, del B., La crisi dei partiti storici in Italia. Il partito socialista, in Il Viandante [Milano], 17 ott. 1909). Gli interventi di A. Cabrini, del Rigola e specialmente del Bissolati, al Congresso socialista di Milano (ottobre 1910; al congresso il B. presentò una relazione su La riforma tributaria, Roma 1910) riscossero quindi la sua adesione; in una intervista all'Avanti! (29 ott. 1910) egli pronosticò un prossimo sopravvento delle organizzazioni sindacali sul partito.
L'impostazione giolittiana del problema elettorale scavalcò tutto il PSI ma recò il colpo più grosso ai filo-luzzattiani. La presa di contatto del Giolitti stesso col Bissolati e la clamorosa visita di questo al Quirinale, con le offerte di partecipazione ministeriale ai "destri" del PSI (per il B. si parlò di un posto di sottosegretario al Tesoro: Avanti!, 26 marzo 1911) e gli accordi programmatici intervenuti dettero loro tuttavia una possibilità di recupero. Intervenendo alla riunione del gruppo parlamentare sul "caso Bissolati", il B. sostenne appunto la opportunità del passo di costui dal punto di vista dei "bisogni del proletariato in quest'ora in cui si chiede il suffragio universale" (ibid., 6 aprile). Le polemiche ebbero nel Mantovano fasi di grande asprezza, con una riconfermata fiducia al B. da parte dei socialisti di Ostiglia, una rivincita della Confederazione socialista provinciale e alterni contrasti tra ferriani e bonomiani (Avanti!, 4, 16 e 17 maggio). Il 24 giugno, intervenendo alla Camera, il B. sostenne il progetto Giolitti di monopolio statale delle assicurazioni sulla vita; il 4luglio sull'Avanti! (Separazioni logiche) egli caratterizzò la situazione italiana come una lotta fra le tendenze conservatrici e il "grande blocco dei democratici, dei radicali e dei socialisti", avviato verso una sicura vittoria.
La guerra libica approfondì e rese pubblico il dissenso tra "destri" e turatiani. Il B. aveva già preso una posizione sostanzialmente favorevole all'impresa libica discutendone solo "la convenienza, il momento, le difficoltà" (Per reagire all'infatuazione per Tripoli. Il punto di vista d'un socialista non anticoloniale, ibid., 18 sett. 1911); intervenendo poi alla riunione comune della direzione del PSI, della C.G.d.L. e del G.P.S., si era pronunciato contro lo sciopero generale che avrebbe compromesso le "posizioni politiche di prim'ordine" conquistate dal proletariato (Avanti!, 27 sett. 1911). Dopo lo sbarco in Libia e nell'imminenza del congresso del PSI il B. pubblicò sul Giornale del mattino di Bologna (11 ottobre), del quale era divenuto corrispondente politico da Roma, un pugnace articolo sul Il dissidio socialista; le repliche dei riformisti di sinistra (C. Treves, Le ragioni del gruppo Bissolati, in Avanti!, 13 ottobre; La Critica, Il dissidio sul terreno concreto, in Critica sociale, 16 ottobre), che si incrociarono con una intervista rilasciata dal B. a Il Secolo di Milano (15 ottobre), anticiparono i temi del congresso.
Qui il B. sostenne la coerenza del suo gruppo di fronte alla svolta dei turatiani e la necessità di non abbandonare la tattica filogiolittiana, che aveva consentito al PSI di condizionare gli indirizzi dello sviluppo politico e sociale del paese. Quanto alla guerra di Libia, egli augurava la vittoria alle armi italiane, appellandosi alla "solidarietà di stirpe" e alla disciplina nazionale. Replicando al B., il Turati lo definì "un sincero socialista nel cuore, ma piuttosto un eccellente democratico-sociale nel cervello" (Res. sten. del XII Congresso nazionale del Partito socialista italiano Modena 15-16-17-18 ottobre1911, Milano 1912).
La divergenza andò trasformandosi in vera e propria scissione nei mesi precedenti il congresso di Reggio Emilia. Il 28febbr. 1912, in una riunione comune della direzione e dei parlamentari, il Bissolati giunse ad offrire le dimissioni sue e del B. (Colapietra, 1958, pp. 182 ss.; sulle contemporanee polemiche del B. con G. Zibordi si veda Mammarella, pp. 333-334). Nel PSI la battaglia era ancora aperta e indecisa allorché il B., il Bissolati e il Cabrini si recarono al Quirinale a felicitarsi con Vittorio Emanuele III per lo scampato attentato del 14 marzo. A Reggio Emilia il B. rievocò la visita al re, descrivendola come "atto di gentilezza umana" verso un monarca che non aveva "attraversato mai il cammino della democrazia italiana", e aveva programmato il suffragio universale con un rappresentante del PSI che aveva agito in piena coerenza con gli insegnamenti del riformismo (Res. sten. del XIII Congr. naz. del Partito soc. it., Reggio Emilia 7-16 luglio 1912, Città di Castello 1913).
L'isolamento del gruppo bissolatiano era ormai irrimediabile: a Reggio Emilia il 9luglio, con fortissima maggioranza, il congresso votava l'o.d.g. di espulsione presentato da Mussolini. L'indomani gli "ultrariformisti" si riunirono all'albergo "Scudo di Francia" decidendo di costituire il Partito socialista riformista italiano, cui aderirono tredici deputati eletti nelle liste del PSI; il B. fu chiamato a far parte della direzione; organo del nuovo partito sarebbe stato il settimanale L'Azione socialista, che nel titolo riprendeva il periodico bonomiano del 1905 (Avanti!, 11 luglio 1912). Il B. collaborò strettamente a tutti gli atti iniziali della vita del partito riformista partecipando alla stesura di uno schema di programma, pubblicato nel mese di ottobre, la cui nota caratteristica era l'alleanza sistematica con i democratici, e, più in generale, una fiducia nella pratica che "lasciava trasparire una inclinazione empirista" (Manzotti, Il socialismo riformista..., pp. 19-22;sull'amarxismo dei riformisti si veda anche del B., Leonida Bissolati, cit., pp. 133 ss.).Alla base del nuovo partito resteranno tipici la mancanza di solidi legami di classe e l'appoggio a gruppi clientelari, al Nord e al Sud (Manzotti, pp. 27-28).
Al primo congresso nazionale del P.S.R.I. (Roma, 15-17 dic. 1912) il B. fu relatore sul programma e l'azione del partito; il documento programmatico da lui presentato, di intonazione prettamente radicale, fu approvato dai convenuti (si veda il resoconto pubblicato in Avanti!, 16, 17, 18 dicembre; e su quest'ultimo numero anche l'editoriale Ilprimo Congresso dei "destri", cui il B. rispose con una lettera aperta, sull'Avanti! del 21 dicembre). Egli svolse un'altra relazione sulle questioni tributarie, che furono successivamente oggetto di un suo intervento alla Camera (23 apr. 1913); l'anno seguente pubblicò un volume su Le entrate e le spese dei Comuni e delle Provincie (Milano 1914).
L'atteggiamento nettamente filodemocratico e ministerialista del B. poteva ormai estrinsecarsi senza alcuna remora; già il 13 febbraio a proposito dell'eccidio di Roccagorga, egli aveva dichiarato a Montecitorio la estraneità della propaganda sociale ai tumulti anarcoidi della "folla anonima" e aveva esaltato il suffragio universale come occasione per una "crociata contro la violenza che, dal basso e dall'alto, minacciava l'ordinato svolgersi della civiltà italiana" (I. B., Dieci anni di politica italiana, a cura di F. Rubbiani, Milano 1924, pp. 16 s.).
Notevoli difficoltà politiche il B. dovette superare in quel periodo nel Mantovano. I socialisti ostigliesi gli riconfermarono però, nell'agosto 1912, il proprio mandato; i bonomiani riuscirono anche a impossessarsi del quotidiano La Provincia di Mantova e a mantenere i contatti con l'organizzazioni locali del PSI (Vaini, 1963, pp. 119-120; Salvadori, pp. 261-262). Nell'estate 1912 ci fu una fusione dei bonomiani con i radicali in una Alleanza radicale-socialista della quale La Provincia di Mantova diventò l'organo (Vaini, pp. 122 s.). Nel marzo 1913 i socialisti del collegio di Ostiglia riconfermarono la candidatura al B., contro la quale il PSI sostenne quella di G. Zibordi (dello Zibordi si vedano in particolare gli articoli Come si presenta la lotta ad Ostiglia e Fra "destri" e "sinistri". Le ragioni ideali della loro lotta, in Critica sociale, 1º-16 giugno, 1º-15 luglio e 1630 sett. 1913). Le elezioni dell'ottobre 1913 - nelle quali il P.S.R.I. riportò un relativo successo - videro la larga vittoria del B. (5.976 voti contro 3.949 allo Zibordi). Con i riformisti rimasti nel PSI il B. mantenne tuttavia buoni rapporti: in particolare, col Rigola, il Dugoni e i dirigenti della C.G.d.L., che egli sostenne nel congresso confederale di Mantova del maggio 1914 contro gli attacchi della sinistra (Salvadori, p. 267 s.).
Allo scoppio della guerra europea il B. fu subito interventista, condividendo le idee del Bissolati, il quale in una lettera del 2 agosto, vedendo nel conflitto un processo "altamente benefico per l'umanità, pure traverso le immani carneficine che si preparano", gli aveva chiesto aiuto per "preparare l'animo del proletariato italiano alla guerra" (Leonida Bissolati, cit., pp. 145-146). La funzione dei riformisti del P.S.R.I. nei mesi della neutralità italiana fu di grande rilievo politico: in particolare, ad essi va in buona parte ascritta la continuità al potere del governo Salandra, già orientato all'intervento, e il fallimento dei negoziati con l'Austria nei primi mesi del 1915 (ibid., pp. 165 ss.; per la polemica antigiolittiana condotta in gennaio-febbraio da L'Azione socialista, si v. Valiani 1963, pp. 72 s., Giusti, passim, e Vigezzi, passim). Al comizio interventista di Roma del 28 febbr. 1915 egli esaltò la guerra con argomentazioni che inserivano le nuove spinte nazionalistiche nella tradizione risorgimentale (cfr. Dieci anni di politica ital., cit., pp. 119-24). Arruolatosi volontario il B. partecipò come sottotenente del 7º alpini ai combattimenti del primo anno di guerra.
Il 15 apr. 1916 pronunziò alla Camera un discorso nel quale rilevò con soddisfazione il fatto che l'Italia fosse passata "dalla sua guerra nazionale nella più vasta guerra europea", con il fine della democratizzazione del continente mediante l'abbattimento del militarismo germanico. Nel giugno successivo fu chiamato dal Boselli al ministero dei Lavori Pubblici, reggendo il quale il B. promosse una nuova legislazione sulle acque (D.L. 20 nov. 1916), diede impulso alla navigazione interna padana, incoraggiò la modernizzazione dei porti (si veda l'introd. di F. Rubbiani a Dieci anni...).
La collaborazione dei riformisti al "ministero nazionale" superò una grave crisi nel giugno 1917, allorché il Bissolati, il B. e il Canepa diedero le dimissioni, formalmente per protestare contro le iniziative personali del Sonnino verso la Albania (Leonida Bissolati, cit., pp. 180-183), ma in realtà per gravi dissensi sull'indirizzo di politica interna del governo, e si prolungò nel gabinetto Orlando con la partecipazione del Berenini e del Bissolati. Alle dimissioni di quest'ultimo (28 dicembre 1918), motivate dai contrasti sugli indirizzi della politica estera dopo la vittoria, il B. - che era rimasto escluso dal gabinetto alla sua formazione - vi entrò, ancora una volta come ministro dei Lavori Pubblici. Il motivo delle diversità di atteggiamenti rispetto al Bissolati fu indicato dal B. nella necessità di evitare l'impressione di una sconfitta dei riformisti (La politica italiana dopo Vittorio Veneto, Torino 1953, p. 20). Il problema vero non stava tuttavia in ciò, bensì nella situazione di crisi delle organizzazioni riformiste e nei profondi contrasti che ne attraversavano le file. Tra gli ultimi mesi del 1917 e i primi del 1918 si era costituita l'Unione socialista italiana, alleanza di socialisti non ufficiali di varie tendenze: il B., timoroso di influenze rivoluzionarie, non aveva aderito (aderì invece al Fascio, parlamentare di difesa nazionale, coacervo di forze interventiste e nazionaliste), mentre il Bissolati se ne ritirava ai primi di dicembre del 1918 (Manzotti, Il socialismo riformista..., pp. 121 ss.). Un tentativo di rilanciare l'esperimento riformista aveva promosso intanto il B. nel 1917, attraverso un settimanale che già nel titolo si riallacciava al volume del 1907: Vie nuove.
Sul primo numero del periodico (30 marzo), che era diretto da F. Colucci e M. Silvestri, egli aveva proposto un recupero dei motivi originali del riformismo, e una ripresa di analisi sociale e politica nella situazione determinata dalla guerra; ma il programma del B. era rimasto "un enunciato senza svolgimento" (Manzotti, pp. 140 ss.).
Ormai le forze che appoggiavano il B. erano, anche sul piano locale, quelle liberal-nazionalistiche: fu da quella parte che provennero riconoscimenti al discorso che il 13 genn. 1919 egli pronunciò a Mantova, nel quale risolveva la parola d'ordine "la terra ai contadini" in problema valido solo per il Mezzogiorno e da affrontarsi in tempi lunghi, e invocava uno Stato "saldo" e "forte" (Dieci anni di politica italiana, cit., pp. 153-181; si veda pure Salvadori, pp. 366 s.). Ma fu sui temi della politica estera da attuarsi dopo la guerra, specie nei confronti dell'Austria e del problema slavo, che le posizioni del B. e dei Bissolati più si distanziarono. In una lettera indirizzata a quest'ultimo il 9 ag. 1918 il deputato mantovano esponeva il suo punto di vista, che consisteva in una conciliazione eclettica dello wilsonismo e degli orientamenti del Sonnino (Colapietra, 1958, p. 300; si veda anche il discorso del 19 febbr. 1918 Sulla guerra, in Discorsi..., cit., pp. 193-205).
Dimessosi il Bissolati, il B., entrato immediatamente nel governo, rifiutò ogni manifestazione di solidarietà al compagno (Colapietra, pp. 273). Nell'aprile 1919 il governo incaricò il B. e il generale Caviglia, ministro della Guerra, di condurre un'inchiesta sull'incendio dell'Avanti! Mentre il Caviglia prese apertamente posizione per gli assaltatori della sede del giornale, il B. respinse le rimostranze dei socialisti e le loro richieste di un intervento governativo contro le violenze fasciste (Salvemini, 1956, pp. 182-183). Poche settimane dopo il B. fu travolto nella caduta del gabinetto Orlando, da lui riconosciuta inevitabile nella riunione del Consiglio dei ministri del 22 maggio (La politica italiana dopo Vittorio Veneto, cit., p. 45). L'orientamento degli ex interventisti avverso al nuovo ministero Nitti indusse il B. a schierarsi contro di esso; l'opposizione si radicalizzò dopo la marcia su Fiume, considerata come "fenomeno sentimentale" di tipo risorgimentale dell'"esercito democratico" (Colapietra, 1958, pp. 302 s.: lettera del B., Berenini e Macchi al Bissolati).
Le elezioni del novembre 1919 videro il B. candidato a Mantova del Blocco interventista, composto di forze liberal-riformiste e di punte combattentistiche e nazionalistiche. Nel discorso che tenne al teatro Andreani il 1º novembre egli si dichiarò filofiumano, e favorevole allo sviluppo della cooperazione nel quadro del rispetto della economia capitalistica rafforzata dalla guerra: il Blocco intendeva difendere gli istituti democratici contro la violenza e garantire un avvenire di "meditate riforme" (Contro il bolscevismo, per la Patria, in Dieci anni di politica italiana, pp. 203-228).
I risultati elettorali, che rimandarono il B. alla Camera come unico deputato locale del Blocco, confermarono l'erosione delle posizioni riformiste nel Mantovano, e in particolare a Ostiglia; e, parallelamente, accentuarono la tendenza a alleanze permanenti tra le forze patriottiche controrivoluzionarie. Se in sede locale tali coalizioni più direttamente involsero verso posizioni puramente conservatrici, sul piano nazionale si sviluppò, dietro ispirazione del B., un tentativo di concentrazione parlamentare, che tuttavia fallì, dando luogo alla ricostituzione di un Gruppo autonomo radical-riformista (Manzotti, pp. 172-175). Il 17 dicembre, intervenendo alla Camera sulle "giornate rosse" di Mantova, il B. ne attribuì la causa alla "predicazione rivoluzionaria" e alla "dittatura della folla", e invitò il governo a tutelare l'ordine pubblico (Discorsi politici di I. B., cit., pp. 425-428).
L'ingresso del B. come ministro non militare della Guerra nel rimpastato governo Nitti (marzo 1920) ebbe il valore d'un superamento delle divisioni del periodo bellico tra i democratici, e di un loro tentativo di conciliazione con le tendenze nazionalistiche nel difficile periodo della sedizione dannunziana e della smobilitazione. Il "realismo" del B. era garanzia preventiva dell'ambiguità che in effetti presiedette al suo ministero, il quale si prolungò, attraverso il governo Giolitti, fino all'aprile 1921, quando egli divenne - e rimase per circa tre mesi - ministro del Tesoro.
Sul piano dell'attività strettamente mierente al suo incarico, i provvedimenti più importanti presi dal B., anche se in parte già predisposti, furono l'ordinamento provvisorio dell'esercito (rimasto in vigore fino al 1923), la teorica abbreviazione della ferma a otto mesi e il riassetto dell'alto comando (Rochat, pp. 238-260 e passim). Il culto della vittoria assunse nel B. una veste di esaltazione dell'esercito e di sua difesa contro ogni tendenza rivoluzionaria e antimilitaristica. In relazione a "episodi di violenza contro ufficiali dell'esercito", nell'aprile 1920 egli predispose misure rigorose, che dovevano prevalere sul vecchio costume degli ufficiali di "affidarsi interamente alla simpatia e all'affetto delle popolazioni" (Dieci anni di politica italiana, cit., pp. 29 s.). Il 24 settembre uno degli uffici di informazione dello Stato Maggiore dell'esercito invitò i Corpi d'armata a "tenere il contatto" con i Fasci di combattimento "che possono ormai considerarsi forze vive da contrapporre eventualmente agli elementi antinazionali e sovversivi". Il 23 ottobre il capo di Stato Maggiore, Badoglio, su ispirazione dello stesso B., emanò una nuova circolare, che riduceva i rapporti da tenere con i fascisti a "prudenti contatti" informativi e ricordava "l'immutato dovere dell'Esercito di restare estraneo alle lotte di parte", senza tuttavia smentire il giudizio positivo sui Fasci e sulla loro funzione (Vivarelli, 1960, pp. 140-150; un diverso punto di vista è in Salvatorelli-Mira, pp. 103-104). Nelle polemiche successive sulla responsabilità del B. di fronte allo scatenarsi del fascismo, tali posizioni furono insistentemente chiamate in causa da scrittori e uomini politici della sinistra quali il Gobetti, il Tasca, il Gramsci, il Salvemini; frequenti furono i richiami alla collaborazione tra esercito e fascismo, che prosperò proprio nel periodo dell'attività ministeriale e governativa del Bonomi. Di contro alle smentite di fonte bonomiana (Vivarelli, 1960, p. 148) sta comunque l'indirizzo generale dell'attività del ministro riformista, che nello stesso periodo - dopo un vano tentativo di galvanizzare l'esercito contro la rivolta albanese - volle che il secondo anniversario di Vittorio Veneto fosse solennemente celebrato all'Altare della patria, alla presenza del re, a significare - "dopo l'occupazione delle fabbriche, e in un'ora di trepida aspettazione" - la "riscossa del sentimento nazionale sugli oblii e sulle negazioni dei due anni precedenti" (Rubbiani, p. 35; il testo del discorso è in Dieci anni..., pp. 193 ss.; l'attività ministeriale del B. è documentata anche nei suoi Discorsi politici, pp. 219 ss., 429 ss.).
Il ruolo politico del B. nel primo dopoguerra ebbe un primo importante riconoscimento nel maggio 1920, allorché egli - entrato in crisi il ministero Nitti - fu designato alla formazione di un nuovo governo, che l'opposizione dei popolari non gli consentì tuttavia in quel momento di costituire. Aderì però, dopo poche settimane, al nuovo governo Giolitti, in base a quel ragionare realistico che fu la sua dote politica principale. In tempi più recenti il B. attribuì il suo riaccostamento al vecchio neutralista ad "un più equo giudizio sull'atteggiamento del Giolitti durante gli anni della guerra" (La politica italiana dopo Vittorio Veneto, cit., p. 129); maggior valore di testimonianza ha però il richiamo al Giolitti come all'uomo politico più idoneo ad "arginare la marea del bolscevismo"; richiamo confermato dalla funzione che il B. attribuisce alla pace di Rapallo, di eliminare cioè le discordie tra i partiti nazionali "in opposizione al movimento bolscevico" (Dal socialismo al fascismo, Roma 1924, pp. 87 s.).
Col Giolitti, il B. collaborò strettamente: con lui decise e fece eseguire lo sgombero di Valona; impostò la soluzione della questione adriatica valorizzando al massimo l'occupazione dannunziana di Fiume, che sostenne con approvvigionamenti e aiuti finanziari a carico del ministero della Guerra (La politica italiana dopo Vittorio Veneto, p. 151; sui rapporti del B. con i fiumani e in particolare con D'Annunzio si veda De Felice, Sind. riv., ad Ind. e Manzotti, 1966); negoziò, unitamente allo Sforza, il trattato di Rapallo - e perciò ottenne il collare dell'Annunziata - sulla base di un documento da lui stesso preparato, e accettato dal Giolitti come piattaforma delle trattative per la parte italiana; predispose l'opera di accerchiamento e occupazione di Fiume, diretta dal Caviglia, che culminò nel "Natale di sangue" (La politica italiana..., pp. 150-154).
Il fatto che getta più luce sul B. politico di quei mesi decisivi resta tuttavia la sua partecipazione alle elezioni del maggio 1921, indette dal ministero di cui faceva parte "profittando del movimento di reazione che si andava organizzando contro i socialisti... per creare, coi cosiddetti blocchi nazionali, una nuova coalizione di forze, capace di tenere il Governo contro i socialisti e possibilmente senza l'ausilio dei popolari" (Dal socialismo al fascismo, cit., pp. 88-89). In pieno imperversare di spedizioni fasciste il B. fu la personalità principale del Blocco antisocialista mantovano, cui aderirono, con la Associazione di difesa e rinnovamento sociale, da lui ispirata, radicali, liberali, nazionalisti e fascisti (presenti con C. Buttafochi e con R. Farinacci).
Il B. espose il proprio programma il 5 maggio al Teatro Andreani. Egli salutò come un "miracolo" la riscossa nazionale da cui le schiere socialiste rivoluzionarie erano state "scompigliate, disorientate, divise"; riconobbe l'impulso dato dal fascismo ad un processo che aveva però avuto la sua vera base nelle creazioni naturali del nostro complesso organico sociale ed economico; invitò i fascisti a volgersi ad un'"opera di ricostruzione nazionale" per "ottenere, in un'atmosfera pacificata, la collaborazione di tutti" (Dieci anni..., pp. 229-245).
Rimase intanto indelebile, ed è confermata in varie testimonianze, l'immagine del B. protetto durante la campagna elettorale dalle camicie nere, per le cui azioni egli giunse a mettere a disposizione la propria automobile ministeriale (p.g. [Piero Gobetti], Uomini e idee, in La rivoluzione liberale, 19 febbr. 1924, dove è citato un articolo del Farinacci in Cremona nuova del 12 febbraio precedente; ad altra testimonianza rimanda il Vaini, 1961, pp. 143-159). I risultati elettorali videro una netta prevalenza socialista sopra la lista del Blocco, per la quale il B. risultò tuttavia eletto col Buttafochi.
La caduta del ministero Giolitti aperse una crisi di potere che né il B. stesso né il Facta poterono veramente risolvere. Caduta una candidatura alternativa del De Nicola, il B. fu incaricato di formare il nuovo governo in una situazione caratterizzata da gravissimi problemi interni. Presentandolo al Parlamento il 18 luglio, egli ne fece rilevare la continuità rispetto alla politica giolittiana, rassicurando gli ambienti capitalistici sulle questioni dei profitti di guerra e della nominatività dei titoli e manifestando preoccupazione per il protrarsi dell'illegalismo fascista "oltre il ristabilimento dell'equilibrio delle varie forze sociali".
In effetti, di fronte alle crisi parallele del fascismo e del socialismo che caratterizzarono il periodo in cui egli prese il governo, il B. non riuscì a riaffermare l'autonomia e la continuità dello Stato liberale. Egli incoraggiò, all'indomani della sua entrata in carica, il "patto di pacificazione" tra fascisti e socialisti, le cui trattative, già in corso, furono perfezionate nel documento firmato il 3 agosto; e invitò i prefetti a favorire anche sul piano locale la distensione fra le due parti (De Felice, Mussolini il fascista, pp. 100 ss.). Il "patto", favorito dal Mussolini nel tentativo di rompere l'isolamento del movimento fascista e di procedere ad un suo rafforzamento politico dopo l'eccidio di Sarzana (21 luglio), era invece visto dal B. come un mezzo per ricondurre nell'ambito legalitario parlamentare le forze nuove scatenatesi nel paese, evitando accordi diretti tra di esse (ibid., pp. 109-109). Allo stesso scopo egli prese alcuni provvedimenti intesi alla restrizione delle concessioni del porto d'armi e alla sorveglianza degli spostamenti stradali e ferroviari, e nominò (20 settembre) il prefetto Mori capo di tutte le forze di polizia della media e bassa valle Padana, con compiti di ripristino dell'ordine pubblico. Ma il Mori il 22 dicembre diede le dimissioni, lamentando che ai provvedimenti di polizia non facesse riscontro un indirizzo politico generale da parte del governo (ibid., p. 205). Un ultimo tentativo il B. fece il 21 dicembre, autorizzando i prefetti a sciogliere quelle organizzazioni che dessero "la dimostrazione di essere corpi armati e militarmente organizzati". Ma in testa all'elenco esemplificativo contenuto nelle disposizioni del B. vi erano le organizzazioni antifasciste degli arditi del popolo e le squadre rosse, che in effetti ne furono più colpite (ibid., p. 207); e, per quanto riguardava lo squadrismo fascista, egli non seppe replicare alla sfida lanciata da Michele Bianchi, il 16 dicembre, che consisteva nella identificazione del partito fascista con le squadre armate di combattimento poste "in difesa dei supremi interessi della Nazione" (Il Popolo d'Italia, 16 dicembre; De Felice, p. 207).
Il 4 novembre 1921, nel terzo anniversario della vittoria, con una cerimonia "veramente superba", concepita come una "sagra d'Italia" al di sopra della lotta civile in corso, il B. aveva voluto "che il paese avesse la sensazione di essere oramai guarito da quella depressione spirituale che aveva alimentato la speranza bolscevica" e "di conseguenza dimostrare che oramai anche la violenza fascista era inutile... La sepoltura del Milite Ignoto servì mirabilmente allo scopo" (Rubbiani, pp. 45 s.).
Ma il dibattito sulla situazione interna al quale il B. fu obbligato a sottostare il mese appresso alle Camere dimostrò la inanità degli sforzi di una semplice restaurazione liberale. Il B. vi sostenne la avvenuta pacificazione di "quattro quinti dell'Italia" e l'impegno del governo ad una "cura intensiva ed assidua" della situazione nella valle del Po e nella parte più inquieta della Toscana. Difese i provvedimenti contro le violenze e le illegalità e incoraggiò la tendenza mussoliniana che gli appariva capace di normalizzare il movimento fascista (Discorsi..., cit., pp. 519-536). L'atteggiamento della destra e dei fascisti, che si astennero dal voto, salvò, per breve tempo, un governo ormai screditato. Ma nei due mesi successivi sopravvennero altri motivi di crisi. In particolare, il dissesto della Banca italiana di sconto provocò un voto antigovernativo del Gruppo della democrazia, e malcontento nei gruppi di destra, giustificati dal rifiuto del B. di intervenire subito e con misure radicali per il salvataggio della Banca a spese pubbliche; in politica estera, il comportamento italiano alla Conferenza di Cannes fu disapprovato dai settori nazionalistici.
Consapevole del suo isolamento, il B annunciò il 2 febbr. 1922 le dimissioni del governo. Falliti i tentativi del De Nicola e dell'Orlando, il re rimandò il governo al giudizio del Parlamento. Il 16 e 17 febbraio il B. intervenne alla Camera e al Senato, ottenendo un platonico successo nel settore di centro-sinistra ma restando alla fine battuto nel voto di fiducia (Discorsi politici di I. B., pp. 341 ss., 565 ss.; sulla fase finale del governo Bonomi si veda anche Santarelli, pp. 271-274; sulla votazione dell'o.d.g. Celli si v. De Felice, Massolini il fascista, p. 244).
La caduta del suo ministero e il fallimento della politica di equivoca "pacificazione" da esso svolta fu per il B. l'inizio di un ripensamento via via più radicale. Dopo la nuova, negativa esperienza del primo ministero Facta, e fallita la candidatura Orlando, egli ebbe modo di sperimentare un nuovo disegno di coalizione, questa volta nettamente orientato in senso antifascista. Convocato il 24 luglio dal re, che gli conferì il mandato, gli espose un progetto da lui elaborato col Turati per la formazione di un "governo di sinistra con l'appoggio dei socialisti, ma senza la presenza dei socialisti", che si presentasse con un programma di "difesa contro l'oridata di illegalità e di violenza che abbatteva le organizzazioni politiche ed economiche degli avversari del fascismo e minacciava lo Stato di un colpo di mano rivoluzionario". Ma difficoltà insormontabili vennero opposte dalla Democrazia giolittiana e dalla direzione massimalista del PSI. Il 27 luglio il B. declinò il mandato (La politica italiana dopo Vittorio Veneto, cit., pp. 162-168; De Rosa, pp. 258-264; Manzotti, Un momento della crisi... pp. 119-124) e rientrò nell'ombra: il suo silenzio dopo la marcia su Roma, che gli fu poi aspramente rimproverato dal Gobetti (Polemiche commemorative, in La Riv. liberale, 13 nov. 1923; La filosofia di un fascista mancato, ibid., 22 genn. 1924), nascondeva in realtà una ostinata nostalgia dei tempi del prefascismo e il dominante anticomunismo. A partire dai primi mesi del 1923 le scarse tracce di una attività politica del B. appaiono rivolte a dar vita ad "un vero partito democratico senza le scorie del passato" (Turati-Kuliscioff, p. 25, lettera della Kuliscioff in data 23 maggio 1923).
Nel giugno 1923, allorché fu nominata la "Commissione dei diciotto" per l'esame del progetto di riforma elettorale Acerbo, il B. ne fu eletto membro dal De Nicola. Unico tra i rappresentanti della classe di potere del periodo prefascista, il B. si schierò contro il progetto governativo. Venne incaricato, insieme col popolare Micheli, di preparare una relazione di minoranza, nella quale la condanna del disegno autoritario del partito e del governo di Mussolini fu espressa chiaramente. Più che su una esatta analisi del fascismo e su una posizione conseguentemente democratica, tuttavia, il documento si fondava sul rifiuto del peso nuovo delle organizzazioni di massa e sulla nostalgia del vecchio Stato liberale (Discorsi politici di I. B., pp. 360-384). In sede di votazione il B. si astenne sia sulla fiducia al governo sia sul passaggio alla discussione della legge elettorale (De Felice, Mussolini il fascista, pp. 531 ss.); e il 20 luglio, prima del voto definitivo sulla legge, tornò a dichiarare alla Camera la sua opposizione, motivata dal rifiuto di Mussolini di elevare il quorum per il premio di maggioranza dal 25 al 33%(Discorsi politici di I. B., pp. 367 s.).
Nel dicembre 1923 il B. fondò, con G. Quadrotta, la Lega democratica, della quale fu organo il settimanale L'Azione di Roma, che si impegnava a "difendere gli istituti rappresentativi e tutte le libertà garantite dalla nostra costituzione... che sono il presupposto necessario dei regimi democratici nei quali il governo è espresso, è controllato, è modificato dalla libera volontà dei cittadini..." (P. Gobetti, La filosofia di un fascista mancato, cit.).
Fu in questo periodo, ed in relazione alla sua tardiva ripresa democratica, che il B. subì gli attacchi del Gobetti. Il 30 ott. 1923, in un articolo su La Riv. liberale, dal titolo Commemorazione, questi accusò tutto l'antifascismo di complicità e di incapacità, ed il B. in particolare di volontà di collaborazione col governo di Mussolini. Ad una replica de L'Azione, il Gobetti espose accuse più specifiche, definendo il deputato mantovano "il primo complice e aiutatore... del fascismo (Polemiche commemorative, cit.).
La nascita della Lega democratica e l'esame del suo programma furono occasione di un nuovo aspro articolo, nel quale tutta la biografia politica del B., dal suo socialismo ereazionario" all'interventismo della "guerra dei tre mesi", dalla rottura col Bissolati all'utilizzazione controrivoluzionaria del fascismo, era presentata come la parabola di un "fascista mancato", i cui tentativi recenti non uscivano dall'ambito del "costituzionalismo conservatore" (La filosofia di un fascista mancato, cit.). Nuovi e ripetuti attacchi del Gobetti provocarono una polemica diretta tra i due, conclusa da una Risposta a Bonomi in La Riv. liberale (18 marzo 1924) che ribadiva tutti i capi d'accusa, ed in particolare quello di collusione col fascismo.
Procedeva intanto l'organizzazione della Lega, che tenne un convegno a Milano il 10 febbraio sui temi della preparazione d'un partito democratico e delle imminenti elezioni (Carocci, p. 165). L'avvicinamento del B. all'Amendola, che si rese evidente nella campagna elettorale (G. Amendola, Le due concezioni, in Il Mondo, 29 marzo 1924), non condusse tuttavia ad una formazione liberaldemocratica: il B. presentò una lista autonoma in Alta Italia, che nelle elezioni del 6 aprile restò sopraffatta, non riuscendo neppure a conseguire la rielezione del proprio leader.
In un articolo di commento alle clamorose sconfitte democratiche l'Amendola difese il B. dalle accuse di parte antifascista, dissociandosi però dalla condotta politica da lui tenuta prima dell'avvento del governo Mussolini, e particolarmente nelle elezioni del '21 (I caduti, in Il Mondo, 15 aprile 1924, ristampato in G. Amendola, La democrazia italiana contro il fascismo,1922-24, Milano-Napoli 1960, pp. 284-287).
Pur privo dell'incarico parlamentare il B. seguì la vicenda aventiniana sulla posizione che era propria dell'Amendola. Nel novembre, all'atto della fondazione della Unione nazionale delle forze liberali e democratiche, la firma del B. apparve sotto il manifesto costitutivo, assieme a quella di numerosi rappresentanti politici e intellettuali della borghesia antifascista (sulla costituzione dell'Unione si veda Carocci, pp. 165-166; una lettera del B. all'Amendola, tendente a caratterizzare l'iniziativa in senso più democratico, in F. Kühn-Amendola, Vita con Giovanni Amendola, Firenze 1960, p. 552). Nello stesso novembre 1924, allorché l'opposizione decise di mettere a conoscenza di Vittorio Emanuele III i memoriali Filippelli e Rossi, il B. fu incaricato di consegnare le copie dei documenti al sovrano: l'incontro non ebbe però seguito politico (vedi del B., Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1944), Milano 1947, pp. XXVI s.; Salvemini, 1961, p. 237).
Le tracce di una attività politica del B. si fanno, da questo momento, più rare. Già partecipe dell'ottimismo aventiniano - nell'ottobre 1924 egli aveva pronosticato pochi mesi di vita al regime fascista (Salvemini, 1961, p. 280), ebbe nei primi mesi del '25 un ripensamento, che lo portò a criticare l'attendismo dell'opposizione (Rossini, p. 125; ivi si dà notizia di polemiche in proposito tra il B. e l'Amendola).
Con la stabilizzazione del fascismo al potere, il B. si ritirò a vita privata (per il suo intervento, nel gennaio 1927, al ricevimento di capodanno al Quirinale e all'inaugurazione dell'anno giudiziario in Cassazione, in pieno clima fascista, si veda Salvatorelli-Mira, pp. 372-378), dividendosi tra l'esercizio dell'avvocatura e gli studi: attività che egli coltivò per tutto il periodo del regime, rifiutando di collaborare con l'ANS-Problemi del Lavoro, l'iniziativa avviata dagli ex dirigenti riformisti della C.G.d.L. nel 1927, e dovendo rinunciare alla pubblicazione di una rivista di ricerca politico-culturale, La Revisione, alla quale intendeva accingersi nel 1928 (Salvadori, p. 431).
Già all'inizio del 1924egli aveva pubblicato il volume Dal socialismo al fascismo, che ebbe in quello stesso anno una seconda edizione e successivamente anche traduzioni in lingua francese e inglese, - ad esso era seguita, nello stesso 1924, la citata raccolta di discorsi Dieci anni di politica italiana. Entrambe le pubblicazioni erano intese a illuminare la coerenza della parabola politica del B. nel momento in cui il fascismo - pur concepito come "un fatto transitorio, dovuto a cause particolari della politica italiana", "una parentesi nella storia" che era auspicabile si chiudesse "senza scosse dolorose" (Dal socialismo al fascismo, pp. 158-189 passim) - si sovrapponeva alle tradizioni liberali e democratiche. Nel 1929apparve il volume su Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia (Milano), in cui il tramonto dell'Italia liberale e la sconfitta del socialismo democratico appaiono ormai come definitivi, ed una eventuale ripresa come legata solo criticamente ad esperienze irripetibili. La ricerca delle scaturigini ideali della democrazia italiana portò il B. allo studio del Mazzini e particolarmente della Repubblica romana; ne risultò oltre a saggi ed articoli minori editi in anni diversi, il volume su Mazzini triumviro della Repubblica romana (Torino 1936), che non giungeva però a superare la cronaca dei fatti del 1849e a fornire un quadro adeguato dell'ideologia mazziniana.
È degli ultimi anni del regime fascista la sua più impegnativa e notevole opera storica: La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto,1870-1918, che egli poté stampare a Roma, presso l'editore Einaudi, solo nel 1944 (la seconda edizione apparve a Torino nel 1946).
Nella prefazione, scritta nel marzo 1941, il B. dichiarava di essersi limitato a "rendere in sintesi... le vicende della classe politica italiana", e di avere quindi fatto un resoconto di avvenimenti più che un'analisi di ideologie e di programmi. La restrizione, tipica del politicismo empirico del B. e della sua visione aristocratica, non impedisce al libro di presentare con chiarezza la prospettiva ottimistica di un'Italia che, "procedendo poveramente per le vie faticose della sua ascensione aveva raggiunto le mete di altri popoli più maturi e più ricchi", e, conseguita la vittoria, "ormai sicura nelle sue Alpi e nel suo mare, poteva riprendere con rinsaldata fede il suo cammino". Ne uscivano ancora, in sostanza, l'idea del fascismo come parentesi e l'attaccamento ai valori e alle istituzioni del periodo liberale, in una concezione che mediava democrazia e nazionalismo, gradualismo riformista e moderatismo, esigenze repubblicane e lealismo dinastico. Era questo dunque il pensiero con il quale l'autore si accingeva a riprendere, dopo vent'anni, quel ruolo di protagonista politico che aveva perduto con la caduta del suo primo ministero.
L'attività cospirativa del B. cominciò verso la fine del 1942, quando egli ebbe contatti con personalità e gruppi liberaldemocratici, con i democratici cristiani, con i socialisti; rapporti furono anche avviati con comunisti e rappresentanti di Giustizia e Libertà. Il carattere aristocratico di questi collegamenti e il distacco degli antifascisti dal paese, nonché in particolare, i presupposti unitario-nazionali della sinistra, fecero sì che il B. potesse "assumere la funzione di promotore e di guida" della ripresa democratica (Diario di un anno, cit., p. XXI; il volume è la fonte fondamentale per questo periodo dell'attività del B. e del fronte antifascista).
Una parte importante ebbe in ciò anche il giornale La Ricostruzione, del quale uscirono a Roma, nella primavera del 1943, tre numeri da lui redatti con M. Ruini, T. Monicelli, L. Cattani, e P. F. Stangoni. L'impostazione unitaria del giornale, che prospettava un "fronte unico della libertà" dai monarchici ai comunisti, e la visione della catastrofe militare e civile, culminarono in una pressante intimazione alla monarchia perché essa, raccogliendo le tradizioni "del Risorgimento e di Vittorio Veneto", prendesse l'iniziativa di un "tempestivo intervento".
Caute prese di contatto con gli ambienti di corte, prima e soprattutto dopo gli scioperi del marzo 1943, condussero affine il B. ad un colloquio diretto con Vittorio Emanuele III (2 giugno 1943). L'esito dell'incontro fu però negativo, non avendo il re aderito alle proposte fattegli (revoca di Mussolini e costituzione di un governo militare, successivamente denuncia dell'alleanza con la Germania fatta da un ministero di coalizione antifascista).
L'8 giugno il B. incontrò la principessa di Piemonte e il 30 giugno il principe Umberto. Ripetuti contatti con Badoglio culminarono, dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, nella proposta di "un ministero militare-politico che compia entrambe le operazioni: rovesciamento del fascismo e sganciamento dell'Italia dalla Germania"; Badoglio avrebbe assunto la presidenza del Consiglio, e il B. stesso la vice-presidenza. Ma prevalse nella mente del re il disegno di un governo Badoglio-funzionari, e ciò escluse il B., ormai rappresentante riconosciuto del fronte dei partiti, dalla preparazione attiva del colpo di stato.
Il 26 luglio il B., da palazzo Marignoli, rivolse brevi parole alla folla, inneggiando alla liberazione dal fascismo e invitando all'ordine. Il 27 e il 28 luglio egli presiedette due riunioni antifasciste, nelle quali le esigenze dei gruppi più radicali furono ridotte alla richiesta che il governo Badoglio provvedesse allo scioglimento delle organizzazioni fasciste, alla liberazione dei detenuti politici e alla instaurazione della libertà di stampa. Il B. si recò dal Badoglio, dal quale ottenne generiche assicurazioni. Il 31 luglio i partiti incaricarono il B. di un nuovo colloquio (che si svolse il 2 agosto), dopo il quale una delegazione unitaria ebbe un infruttuoso contatto col capo del governo (3 agosto). L'11 agosto il B. si adoperò presso i rappresentanti dei partiti per evitare un appello alle masse popolari contro le esitazioni del ministero: egli finì tuttavia con l'aderire ad un ordine del giorno critico. Il 24 e 25 agosto nuovamente si oppose, con De Gasperi, ad una presa di posizione contro il governo per la sua inerzia di fronte alla calata delle truppe tedesche. Il 3 settembre, essendo già segretamente al corrente dell'imminenza dell'armistizio, fece invece approvare un o.d.g. che evitava qualsiasi cenno di disapprovazione dell'indirizzo del governo e chiamava gli Italiani a preparare la resistenza antitedesca in uno spirito di "riscossa nazionale [ ... ] per la salvezza dell'onore e delle idealità della Patria", "nel solco del suo glorioso Risorgimento"; ma il giorno successivo, dopo aver avuto un colloquio con Badoglio, persuase il comitato antifascista a sospendere la pubblicazione del documento. Il 9 settembre, nell'ultima riunione antifascista dei "quarantacinque giorni", propose e fece approvare all'unanimità un o.d.g. con il quale i partiti antifascisti si costituivano, sotto la sua presidenza, in Comitato di liberazione nazionale "per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riacquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni".
Nella elaborazione della linea politica del Comitato centrale romano nei mesi successivi il B. ebbe una parte notevole, per il cui svolgimento si giovò fin dall'inizio sia dei presupposti unitari del partito comunista sia - sulla questione istituzionale - di un'abile posizione "al di sopra della mischia" (ibid., p. 115). Il 5 ottobre un o.d.g. da lui proposto sancì il rinvio della questione istituzionale e la prospettiva di un governo politico che dirigesse la guerra di liberazione in nome della "antica e nuova Italia liberale e democratica": era esclusa ogni possibilità di movimento insurrezionale.
Il 19 ottobre il B. respinse un invito del re ad entrare nel governo Badoglio. Il 16 novembre il C.L.N., su sua proposta, espresse in un nuovo o.d.g. le conclusioni unitarie raggiunte sui principali problemi politici, e destinate a essere alla base dell'accordo tra i partiti nel "regno del Sud". Il B., che si era rifugiato in Laterano con altri dirigenti del Comitato, fu il protagonista della lunga crisi (febbraio-maggio) del C.L.N. centrale. Ad una presa di posizione del PSIUP, che richiedeva l'accantonamento della monarchia dopo la formazione del governo antifascista fino alla convocazione della Costituente, il B., in data 2 marzo 1944, oppose una Dichiarazione nella quale proponeva invece l'accantonamento della questione istituzionale e una considerazione prioritaria dei compiti della guerra antitedesca, da condursi soprattutto con le forze armate regolari.
Paventando nell'atteggiamento delle sinistre la preparazione di un governo rivoluzionario, il B. diede il 24 marzo le dimissioni dalla presidenza del Comitato. La situazione fu sbloccata dalriniziativa presa da P . Togliatti al suo ritorno in Italia, che ruppe "quella specie di siepe che circondava il re e che vietava ogni accostamento" (ibid., p.176), e nella quale il B. vide una convergenza con le posizioni da lui sostenute a Roma. Il 5 maggio il C.L.N. invitò il B. a riprendere il suo posto.
Rimaneva il problema del trapasso dei poteri a Roma tra l'occupazione tedesca e quella anglo-americana, problema di cui le vicende militari indicavano rurgenza. Il B. svolse una equivoca parte di mediatore tra il generale Bencivenga, al quale il governo regio aveva affidato i poteri militari nella Capitale, e il C.L.N.; nella mancata insurrezione popolare romana culminò l'attività di un organismo che anche per opera del B. era stato nei nove mesi del ritorno nazi-fascista "più un centro di discussioni, spesso anche accademiche, che un organo di lavoro e di lotta" (Amendola, 1963, p. 43).
Il 6 giugno 1944, entrate le truppe alleate in Roma, il B. parlò da palazzo Wedekind alla folla, in nome del C.L.N. colà insediatosi. L'8 giugno a Roma, dopo una riunione comune del governo Badoglio e del C.L.N. centrale svoltasi alla presenza del generale Mac Farlane, in cui i rappresentanti dei partiti nel Comitato chiesero la costituzione di un gabinetto politico antifascista presieduto dal B., questi ricevette dal principe Umberto, luogotenente generale del regno, l'incarico di formare il nuovo governo. Essendo state accettate da Umberto le condizioni pregiudiziali poste dai partiti, il B. completò rapidamente l'elenco dei ministri, comprendente i maggiori rappresentanti dell'antifascismo romano e meridionale, e il 18 giugno il ministero, che era dotato di poteri legislativi straordinari, entrò in carica.
Insediatosi in un primo tempo a Salerno, alla metà di luglio esso si trasferì definitivamente a Roma. L'azione governativa del B. (che fu anche ministro dell'Interno, e adinterim dell'Africa italiana, e tenne fino al dicembre del 1944 il dicastero degli Esteri) doveva protrarsi per un anno, sotto la duplice pressione delle forze conservatrici italiane ed angloamericane e delle istanze rivoluzionarie vive sia nell'Italia centro-meridionale come, e soprattutto, nelle regioni liberate che via via si ricongiungevano al regno. Ma il clima di compromesso liberal-comunista, avviato con la "svolta di Salerno", facilitò il compito del vecchio riformista. Il cardine del compromesso, cioè la "tregua istituzionale", fu collegato alla elezione di un'Assemblea costituente dopo la fine della guerra: un impegno formale in tal senso fu preso dal Consiglio dei ministri col decreto legge 25 giugno 1944, del quale, e delle cui implicazioni, il B. venne a dare una interpretazione moderata (I. B., Preludio alla Costituente, s.a.t. [ma Roma 1945]). Altro impegno prese il governo nei confronti delle forze partigiane, nel senso d'un regolare collegamento e aiuto, riconoscendole come "parte integrante dello sforzo di guerra della Nazione". La strategia delle sinistre veniva così ad essere circoscritta in un disegno moderato di cui erano testimonianza gli atteggiamenti filo-occidentali del B. (Catalano, 1962, p. 482, e 1960, pp. 499 ss.) e la "preoccupazione esagerata per le sorti del vecchio apparato dello Stato e per le forme esteriori dell'ordine governativo" (Ferrara, p. 340). Proprio su questo punto il B. diede una dimostrazione clamorosa di legalitarismo monarchico; egli infatti troncò le dispute sui modi dell'epurazione dei fascisti dagli organi statali, e i tentativi di ridurre ulteriormente le prerogative regie, già limitate dal mancato giuramento dei ministri alla monarchia, rassegnando il 25 novembre le proprie dimissioni direttamente al luogotenente (Valiani, 1955, pp. 32 ss.).
La mossa del B. poneva le premesse di uno spostamento a destra della direzione di governo, che parve irrimediabile dopo il veto inglese allo Sforza e la caduta di una proposta di gabinetto unitario Ruini. Il B. si rivolse allora alla D.C., al P.C.I. e al PSI offrendo loro due vice-presidenze e presentandosi come l'uomo politico più adatto ad affrontare i problemi internazionali del momento. Con questa nuova mossa politica egli insieme minò il principio dell'unità del C.L.N., la cui autorità già aveva voluto ridimensionare stabilendo il contatto diretto col luogotenente, e il patto fra i partiti della sinistra, data la tendenza dei comunisti ad instaurare un discorso tra i partiti di massa (Catalano, 1962, pp. 542 ss.; Colapietra, 1969, passim). Essendo irrinunciabile il rifiuto dei socialisti e degli azionisti, il nuovo governo si costituì dietro il reincarico dato al B. da Umberto con la partecipazione degli altri quattro partiti (12 dicembre). Il B. ottenne così, a prezzo della valorizzazione ormai inevitabile dei partiti di massa, l'affermazione definitiva della continuità della "linea legale dello Stato italiano" al di là della crisi da esso attraversata con la caduta del fascismo (Croce, p. 76).
La prima importante decisione dopo la ricostituzione del governo fu il riconoscimento formale del C.L.N. dell'Alta Italia, con la formula di una delega alla direzione della lotta partigiana (20 dicembre); ad essa si accompagnò un più deciso impegno militare al fianco degli alleati. Ma il contemporaneo sviluppo della politica alleata verso il C.L.N.A.I. e verso l'esercito italiano, della quale il B. ed altri nel suo governo furono strumento, preparava le condizioni per un esautoramento che doveva privare il movimento popolare antifascista di ogni potenzialità politica extra-legalitaria. Sia su questo problema di fondo sia su quello dell'epurazione, il B. resse i fili dell'attività di governo con abilità, mirando alla restaurazione di un nuovo Stato democratico-parlamentare attraverso la Consulta (le cui basi furono poste dal Consiglio dei ministri del 12 dic. 1944), il referendum istituzionale e la Costituente. Su questa linea, alla quale aderivano in sostanza anche le centrali romane dei partiti della sinistra, "la rivoluzione dei C.L.N. si arenò" (Valiani, pp. 48 ss.; sull'attività politica del B. tra il 1944-45, cfr. G. Andreotti). Dopo l'insurrezione del 25 aprile e nel corso delle lunghe trattative fra i partiti, il B. restò piuttosto nell'ombra, avendo i rappresentanti liberali e soprattutto i democristiani assunto efficacemente il ruolo moderatore che prima era stato da lui svolto. D'altra parte, dai settori più radicali dell'antifascismo settentrionale la personalità del B. e le sue responsabilità del periodo prefascista erano sempre più insistentemente discusse. Allorché i partiti si orientarono verso un governo Parri, il B. - che nel corso del viaggio dei ministri e dei dirigenti politici al Nord nella seconda quindicina di maggio aveva conosciuto direttamente lo stato d'animo delle masse delle regioni liberate - diede le dimissioni, agevolando al di là delle sue intenzioni la costituzione del nuovo governo (21 giugno 1945).
Il pensiero politico del B. nel 1944-45 sipuò direttamente conoscere attraverso vari discorsi (raccolti nel volume dei suoi Discorsi politici, cit., pp. 564-606) e scritti, fra i quali ultimi sono da segnalare le prefazioni alle nuove edizioni de Le vie nuove del socialismo e del Bissolati. Mentre questo scritto concerneva particolarmente le questioni politiche internazionali fra le due guerre, il primo, datato giugno 1944e pubbl. a Roma, esaminava il Travaglio di dottrine e di metodi in mezzo secolo di movimento socialista. Il B. riproponeva come valida l'ideologia ispiratrice del suo libro del 1907, contrapponendola a quelle del PSIUP e del P.C.I. La fortuna dei due partiti della sinistra "nel clima creato dall'influenza russa e dalle vittorie russe" costringeva momentaneamente il riformismo classico a "vivere in ombra"; ma la formazione di una "classe nuova" di intellettuali e di tecnici, cui spettava di dirigere il movimento operaio, rilanciava la possibilità di una egemonia riformista all'interno dello sviluppo democratico.
Alla crisi del ministero Parri (novembre-dicembre 1945) la candidatura del B., che aveva promosso con altri uomini del prefascismo (Croce, Nitti, Orlando, Einaudi, Labriola) una Lega per la difesa della libertà democratiche, fu invano riaffacciata dai liberali; il PLI lo propose in seguito, pure senza risultato, quale ministro nel primo governo De Gasperi. La Lega fu uno dei nuclei della Unione democratica nazionale (costituita nel marzo 1946), frutto della coalizione tra liberali, demolaburisti e gruppi minori.
Consultore nazionale nella sua qualità di ex presidente del Consiglio (un suo discorso sui problemi politici internazionali, pronunciato alla Consulta il 14 genn. 1946, èin Discorsi politici di I. B., cit., pp. 601-613) prese parte ai lavori della Costituente come deputato dell'U.D.N., che sulla questione istituzionale aveva assunto una posizione agnostica ma sostanzialmente filomonarchica. Il suo nome fu fatto con insistenza nel giugno 1946allorché si trattò della elezione del capo provvisorio dello Stato: mancò tuttavia in proposito l'accordo dei partiti, e soprattutto la unanimità nella Democrazia cristiana. Fu presidente della Commissione per i trattati internazionali. Nell'estate 1946fu a Parigi in occasione della Conferenza dei ventuno. Durante la discussione alla Costituente sull'art. 7 fece opera di mediazione fra laici e cattolici, dando però alla fine voto favorevole allo stesso (ibid., pp. 615-616).Nella crisi del maggio 1947fu interpellato dal Nitti, che poi dovette rinunciare all'incarico, per una sua partecipazione al governo. Nel maggio 1948fu eletto presidente del primo Senato della Repubblica, del quale era membro di diritto (i suoi discorsi del 1949 al Senato sono raccolti ibid., pp. 577 ss.).
Costretto a limitare la propria attività politica dalla salute malferma, riprese gli studi storici nell'intento di proseguire l'opera già pubblicata su La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto. La morte, che lo colse a Roma il 20 apr. 1951, interruppe la stesura del libro, la prima parte del quale fu pubblicata nel 1953 col titolo citato di La politica italiana dopo Vittorio Veneto.
Fonti e Bibl.: Data l'importanza della figura e dell'opera del B. durante i primi cinquant'anni del secolo, egli è ampiamente citato in tutte le storie generali dell'Italia del '900, nonché nelle storie dei partiti politici, in particolare per quanto concerne il PSI degli anni 1898-1912 e l'avvento al potere del fascismo. Pochi sono invece i saggi e articoli particolari dedicati a singoli aspetti della sua attività e del suo pensiero. Manca, soprattutto, una esauriente biografia condotta con criteri scientifici.
Tra gli articoli scritti in morte del B. vanno menzionati in particolare i seguenti: Biografia di I. B. uomo del vecchio stile liberale, in L'Unità, 21 apr. 1951; U. Mantovani, La vita e l'opera di I. B. al servizio della Patria in difesa della Libertà, in Gazzetta di Mantova, 21 apr. 1951; U. Tupini, Un galantuomo, in Il Popolo, 21 apr. 1951; P. Nenni, B. e il suo tempo, in Avanti!, 22 apr. 1951; Averroè, I. B., in Il Mondo, 5 maggio 1951; G. Natale, I. B.,uomo di Stato e cospiratore, in Nuova Antologia, maggio 1951. Si veda inoltre P. F. Stangoni, Nel decennale della morte di I. B.,ibid., giugno 1961.
I fondi archivistici più importanti riguardanti il B. sono conservati nell'Archivio di Stato di Mantova, Carte Bonomi, e, per quanto riguarda la sua attività ministeriale e governativa, presso l'Archivio Centrale dello Stato. Un'esplorazione di questi fondi è stata parzialmente condotta da vari studiosi. I volumi e i saggi utilizzati e citati in questo profilo biografico sono: G. Andreotti, Concerto a sei voci, storia segreta d'una crisi, Roma 1945; M. e M. Ferrara, Conversando con Togliatti, Roma 1953, p. 340; M. Ruini, I. B., in Profili storici di Amendola,S acchi, Bissolati, B.,Orlando, Croce, Bologna 1953, pp. 65-74; L. Valiani, Il problema politico della nazione italiana, in Dieci anni dopo,1945-1955, Bari 1955, pp. 32-34; G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia, Lezioni di Harvard, Milano 1956, pp. 182 s.; G. Carocci, G. Amendola nella crisi dello stato italiano,1911-1925, Milano 1956, p. 165; R. Colapietra, Leonida Bissolati, Milano 1958, pp. 182 ss. e passim; F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio, VI, Il delitto Matteotti e l'Aventino,1923-25, a cura di A. Schiavi, Torino 1959, p. 25; Lettere di Anna Kuliscioff e di Filippo Turati a I. B. Definizione e svolgimento del riformismo nel "periodo giolittiano", a cura di R. Giusti, in Riv. stor. del socialismo, II (1959), n. 5, pp. 95-120; R. Vivarelli, B. e il fascismo in alcuni doc. inediti, in Riv. storica ital., LXXII (1960), pp. 147-157; F. Catalano, Dalla crisi del primo dopoguerra alla fondazione della Repubblica, in Storia d'Italia, V, Torino 1960, passim; G. Salvemini, La dittatura fascista in Italia, in Scritti sul fascismo a cura di R. Vivarelli, Milano 1961, p. 230; M. Vaini, Le origini del fascismo a Mantova 1914-1922 (pref. di G. Manacorda), Roma 1961, passim; F. Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia,1919-1948, Milano 1962, passim; G. Procacci, Lo sciopero generale del 1904, in Riv. stor. del socialismo, V (1962), n. 17, pp. 401-38; M. Vaini, L'azione politica di I. B. nel Mantovano dal 1912 al 1921, in Mov. operaio e socialista, IX (1963), n. 2-3, pp. 119 s. e passim; L. Valiani, Il Partito socialista italiano nel periodo della neutralità, 1914-1915, Milano 1963, pp. 72 s.; B. Croce, La crisi e il secondo Ministero B., in Scritti e discorsi politici,1 943-1947, Bari 1963, II, p. 76; Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale. Relazione e documenti presentati dalla direzione del partito al V Congresso del P.C.I. (con introd. di G. Amendola), Roma 1963, p. 43; L. Salvatorelli-G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1964, ad Indicem; F. Manzotti, Un momento della crisi della democrazia pre-fascista: l'incarico a B. nel luglio 1922, in Il Risorgimento, XVII (1965), n. 2, pp. 119-124; Id., Il socialismo riformista in Italia, Firenze 1965, passim; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario,1883-1920, Torino 1965, ad Ind.; Id., Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D'Annunzio,1919-1932, Brescia 1966, ad Indicem; B. Vigezzi, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, I, L'Italia neutrale, Milano-Napoli 1966, passim; F. Manzotti, Un carteggio inedito con D'Annunzio,B. e l'impresa di Fiume, in Nuova Antologia, ott. 1966, pp. 106-184; R. De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere,1921-1925, Torino 1966, ad Indicem; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Il Partito popolare italiano, Bari 1966, passim; R. Salvadori, La repubblica socialista mantovana da Belfiore al fascismo, Milano 1966, passim; Il delitto Matteotti tra il Viminale e l'Aventino. Dagli atti del processo De Bono davanti all'Alta Corte di Giustizia, a cura di G. Rossini, Bologna 1966, p. 125; G. Rochat, L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, 1919-1925 (pref. di P. Pieri), Bari 1967, pp. 238-260; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, I, Roma 1967, pp. 201-204; R. Giusti, B. e Dugoni. Interventismo e neutralismo nel Mantovano, in Atti del Conv. regionale veneto sulla guerra mondiale (Venezia, 5 maggio 1968), Venezia 1968; R. Colapietra, La lotta politica in Italia dalla liberazione alla Costituente, Bologna 1969, passim; G. Mammarella, Riformisti e rivoluzionari nel partito socialista italiano, 1900-1912, Padova 1969, ad Indicem; L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattiti congressuali del PSI,1892-1921, Bari 1969, ad Indicem. Sulla collaborazione del B. a Die Neue Zeit e a Sozialistische Monatshefte vedi E. Ragionieri, Il marxismo e l'Internazionale, Roma 1968, pp. 184 s., 191.