italoamericano
Con il termine italoamericano ci si riferisce per lo più alla parlata fortemente mista degli emigrati italiani d’America, descritta fin dagli studi di Livingston (1918) e Menarini (1947). Tale parlata trova riflesso anche in testi narrativi e teatrali, prodotti sia negli Stati Uniti sia in Italia, ai fini della rappresentazione delle identità in trasformazione degli emigrati italiani. Una sua notevole rappresentazione è in “Italy” di ➔ Giovanni Pascoli (1904).
Dopo i primi insediamenti negli anni dell’unificazione, l’emigrazione italiana diretta verso gli Stati Uniti si trasforma in un esodo tra il 1880 e il 1924, quando oltre 4 milioni e mezzo di italiani lasciarono il loro paese, sbarcando a Ellis Island, nel porto della città di New York. Gli Stati Uniti costituiscono, dopo la Francia e la Svizzera, la meta più importante nel corso del secolo postunitario, con 5.691.000 emigrati fra i 25.800.000 espatri dal 1876 al 1976, anno in cui l’emigrazione di ritorno superò il numero dei nuovi arrivi. Gli emigrati erano per lo più maschi e in età lavorativa, provenienti dalle regioni meridionali, con in testa Campania, Sicilia e Calabria, costretti alla partenza dalle condizioni economiche assai precarie (Favero & Tassello 1978).
L’emigrazione (➔ emigrazione, italiano dell’) negli Stati Uniti attraversa tre fasi principali. Il grande esodo di masse di analfabeti fino alla vigilia della prima guerra mondiale fu seguito da una contrazione tra le due guerre dovuta alla politica fascista e al Literacy Act introdotto nella legislazione americana; quindi da una nuova ondata migratoria nel secondo dopoguerra che incoraggiò il ricongiungimento dei familiari. Gli insediamenti sono caratterizzati dalla stessa provenienza regionale e dalla socializzazione etnica e si concentrano soprattutto nel Nordest e rispettive aree urbane (New York, Filadelfia, Boston), e inoltre nel Midwest (Chicago), in California (Los Angeles, San Francisco) e in Florida. Con la loro integrazione progressiva nella società americana, le nuove generazioni italoamericane abbandonano le storiche Little Italies per aree geografiche più composite, spesso situate lontano dai grandi centri urbani.
L’architettura dell’italiano parlato dagli emigrati e dai loro discendenti può essere descritta come un continuum dinamico di varietà parlate collocate tra il dialetto e l’angloamericano, le due varietà dominanti che risalgono alle migrazioni del secondo dopoguerra. Il ➔ repertorio linguistico italofono degli italoamericani, variabile secondo fattori come età, generazione, sesso, livello di scolarizzazione, inserimento sociale e itinerario migratorio, può includere l’➔italiano popolare o l’➔italiano regionale (varietà alta), e una varietà a base dialettale fortemente mista con l’inglese (varietà bassa). Il continuum sociolinguistico di tali varietà, diverso da quello d’origine, più orientato verso l’➔italiano standard, è caratterizzato da instabilità, stratificazione, erosione (in ingl. attrition) e processi di sostituzione di lingua.
La varietà italiana alta si distingue per la presenza di tratti dialettali, tra cui la lenizione delle consonanti occlusive sorde intervocaliche (siculo-americano trovado, calabro-americano cabiss «capisci»; ➔ indebolimento), l’➔assimilazione di /-nd-/ in /-nn-/ (siculo-americano quanno «quando»), l’apocope (calabro-americano se so’ cambiate «si sono cambiate», a ca’ «a casa»). Sono frequenti anche i ➔ dialettismi lessicali (sicil. u travagghiu «il lavoro», carìa malatu «si ammalava», napol. tengono a lavatrice «possiedono la lavatrice»).
Si ritrovano i fenomeni grammaticali tipici dell’italiano popolare (Berruto 1987: 105-138), per es. il ➔ che polivalente (a high school che io so’ andato «… che ho frequentato»; ho trovato un lavoro che lavoravano italiani americani «… dove lavoravano italoamericani»), la funzione avverbiale dell’aggettivo e la formazione analogica del comparativo (la meglio via, un avvenire più meglio), la ristrutturazione nell’➔accordo (strade grande) e gli scambi degli ausiliari (ho venuto, si hanno sviluppate; ➔ ausiliari, verbi).
Gli elementi lessicali sono spesso da ricondurre ad aree dialettali specifiche (calabr. una cuatrarella «bambina»). In questa varietà sono invece rari i fenomeni di contatto con l’inglese, limitati a qualche calco (la gente non s’involve, ingl. to get involved «coinvolgersi»; prosperire, ingl. to prosper «avere successo»), a qualche citazione (dovevano essere wonders of the world «prodigi, miracoli»), e a voci di cui non si ricorda o si evita di usare l’equivalente italiano (jobless «disoccupato», refinery «raffineria», aver più chance «fortuna», accounting «ragioneria», classy «elegante»).
Occasionale è la ➔ commutazione di codice; cfr. (1) e (2) (tratti da Haller 1993: 134, 154):
(1) andai in Italia nel ’64 – Yeah, mi piacerebbe tornare
(2) non mi piace tanto [il dialetto], perché sai – it doesn’t sound as good as English, right, so – provo di non parlarlo
La varietà fortemente mista del continuum (➔ mistilinguismo) si distingue soprattutto a livello lessicale, attraverso le interferenze lessicali dell’inglese ancorate sull’esperienza degli emigrati, con l’adozione di parole come le seguenti:
(3) carro ← car «automobile»
giobba ← job «lavoro»
storo ← store «negozio»
fensa ← fence «recinto»
fornitura ← furniture «mobili»
fattoria ← factory «fabbrica»
parcare ← to park «parcheggiare»
Comportamenti e atteggiamenti linguistici delle comunità italoamericane sono indicativi delle dinamiche in atto nei due decenni a cavallo tra i due secoli. Dagli studi sociolinguistici condotti nelle comunità di New York e di San Francisco (Haller 1993, 1998) risultano notevoli tassi di passaggio all’inglese, ma anche diversi gradi di vitalità delle varietà italiane, soprattutto negli ambienti della famiglia e degli amici. Dai rilievi autovalutativi dei questionari emerge che le persone anziane con scarsa istruzione scolastica usano il dialetto, l’italiano dialettale e la varietà molto mista in maniera quasi esclusiva, mentre le persone più giovani di prima generazione con maggior istruzione sono bilingui o trilingui, e usano la varietà popolare o regionale dell’italiano fuori casa e con italiani di origine regionale diversa. Nella seconda generazione la diglossia (➔ bilinguismo e diglossia) tende a essere la norma, con l’italiano eroso ristretto agli usi domestici e con l’inglese come varietà alta dominante. La variabilità linguistica interna, fenomeni come pause, esitazioni, ripetizioni dello stesso frasario e lessico sono caratteristiche tipiche dell’italiano parlato dalla seconda e terza generazione. Con la scomparsa della generazione dei nonni si perdono anche il dialetto o la varietà dialettale dell’italiano.
Sia nell’indagine di New York, con soggetti soprattutto di prima generazione e di origine meridionale, sia in quella di San Francisco con soggetti di origine piemontese prevalentemente di seconda generazione e di età media più elevata, la perdita dell’italiano diminuisce con l’avanzare dell’età nella prima generazione, mentre aumenta con l’avanzare dell’età nella seconda generazione. Il dialetto e l’inglese sono chiaramente le lingue della famiglia, delle situazioni emotive, mentre l’uso esclusivo dell’inglese è riservato al posto di lavoro, alla comunicazione tra i giovani e con i figli. L’uso dell’italiano diminuisce con l’esogamia, la mobilità sociale, le nuove reti sociali. Nella terza generazione l’italiano consiste spesso solo in qualche parola o frase sentita dai nonni.
Nella correlazione degli usi linguistici con il fattore sesso le donne dichiarano di parlare il dialetto e l’italiano meno degli uomini nella prima generazione, il dialetto invece di più nella seconda generazione. Le donne sono generalmente più consce della diversa funzione e del diverso prestigio delle varietà di lingua e tendono a conservare meglio degli uomini la varietà italiana.
Le dinamiche sociolinguistiche in atto nelle comunità italoamericane vengono confermate dagli atteggiamenti psico-sociali nei confronti di dialetto, italiano e inglese: questi tendono a essere più puristici nella prima generazione, in cui si privilegia l’italiano standard, e più tolleranti nella seconda generazione nei confronti delle varietà non standard, salvo per l’italoamericano fortemente misto. Gli atteggiamenti talvolta contraddittori rispetto alla prassi nell’uso riflettono sia la stigmatizzazione delle varietà non standard vissuta sulla propria pelle dalla prima generazione, sia la funzione di ponte intergenerazionale nella seconda generazione.
L’inglese viene considerato la varietà di prestigio, l’italiano la varietà degli affetti. L’italiano è percepito come musicale e poetico, il dialetto come onesto e comico, come lingua del cuore e delle radici (roots), e da qualcuno anche come lingua segreta e lingua proibita.
Le dinamiche osservate nelle indagini sui comportamenti linguistici sono riflesse anche dai rilevamenti censuari sull’uso dell’italiano in casa da parte delle persone di età superiore ai cinque anni. Nel 1990 su una popolazione di 14.664.550 italoamericani di tutte le provenienze sono 1.308.646 (8,9%) coloro che dichiarano di parlare italiano in casa, nel 2000 sono invece 1.008.370 (6,4%) su una popolazione di 15.723.555 italoamericani (cfr. tab. 1). Pur valutando i dati con la dovuta cautela, il declino in dieci anni nell’uso dell’italiano dall’8,9% al 6,4% indica una perdita di lingua progressiva ma rallentata rispetto al decennio ancora precedente, quando un milione e mezzo (il 12,3%) dei 12.183.692 italoamericani dichiarava di usare l’italiano (cfr. anche fig. 1).
La vitalità relativa dell’italiano nelle comunità italoamericane si riflette inoltre dai mass media etnici. Negli Stati Uniti, dopo gli esordi dell’«Eco d’Italia» nel 1859, il numero dei quotidiani e periodici in lingua italiana cresce rapidamente e raggiunge la sua massima estensione alla vigilia della prima guerra mondiale con un centinaio di pubblicazioni diffuse nelle aree di maggiore concentrazione di emigrati italiani (fra le più note, «Il Progresso Italo-Americano»). Dal 1920 in poi si può notare un graduale declino delle testate in italiano, insieme a una crescita di settimanali e mensili bilingui e anglofoni, fino ad arrivare a una ventina di pubblicazioni nel 2000 (cfr. tab. 2), dati che riflettono il declino dell’emigrazione e il processo di abbandono della lingua in corso.
Va notato tuttavia che il successo del quotidiano «America Oggi» con una tiratura di 60.000 copie documenta livelli di lealtà linguistica notevoli. Se nei decenni precedenti la lingua dei grandi giornali etnici tendeva al purismo linguistico dell’italiano standard ed evitava l’angloamericanismo, il tessuto linguistico di «America Oggi» rassomiglia invece a quello di un giornale italiano come «La Repubblica», salvo per i piccoli annunci, in cui è evidente il contatto fra le due lingue e culture (visibile per es. nelle varianti cercansi pizzamen / pizzaioli / pizzaperson / pizzahelpers). Un’evoluzione simile si nota anche nella contrazione attraverso il tempo delle trasmissioni radiofoniche in lingua italiana e nel progressivo successo di programmi televisivi diretti agli emigrati.
Nella produzione letteraria degli emigrati, descritta dagli studiosi come marginale o emarginata, una scrittura minore tra letteraria, paraletteraria e pseudoletteraria (Marchand 1991: xxii) prodotta da scrittrici e scrittori di formazione linguistica e culturale disparate, si riscontrano tutti i generi, dalla poesia, spesso praticata nella fase iniziale dell’emigrazione, alla narrativa e al teatro. Dominano tra i temi quello dell’esperienza migratoria, del ricordo della vecchia patria, della percezione della nuova società e dei rapporti conflittuali con questa, a cui è legata la questione dell’identità. Al deserto culturale, che tende a segnare i primi decenni degli insediamenti di massa nel paese d’arrivo della forza lavoro costretta all’emigrazione dalle condizioni economiche e sociali di partenza, seguono scritture in cui viene privilegiato il motivo autobiografico. La lingua di partenza cede poi il passo nella seconda generazione alla lingua d’arrivo, come illustra il graduale abbandono dell’italiano nella letteratura dell’emigrazione degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. La fortuna della produzione letteraria nell’emigrazione è condizionata non solo dalla situazione economica degli autori, ma anche dalla politica sociale e culturale del paese d’arrivo.
Nella letteratura dell’emigrazione fra tardo Ottocento e primo Novecento, antologizzata da Franzina (1996) e Durante (2005) e discussa da Marazzi (2001), un italiano tendenzialmente toscaneggiante viene usato da Bernardino Ciambelli in romanzi popolari sui bassifondi di New York dai titoli I misteri di Mulberry Street (1893), I misteri di Bleeker Street (1899), I sotterranei di New York (1916). Segue le tracce di Ciambelli lo scrittore Paolo Pallavicini con il romanzo Tutto il dolore, tutto l’amore (ripubblicato nel 1937 in Italia), ambientato fra gli emigrati liguri e siciliani di San Francisco, e Per le vie del mondo (1933), romanzo fiume, tra rosa e giallo, sulla vicenda di lavoratori italiani accusati ingiustamente di aver commesso un delitto. Lo stile del romanzo è tendenzialmente paratattico, con frequenti dialoghi non privi di fenomeni di contatto linguistico con l’inglese.
I riflessi del plurilinguismo nell’emigrazione si notano inoltre nelle macchiette teatrali di Riccardo Cordiferro, Tony Ferrazzano, Giovanni De Rosalia e Farfariello, nome d’arte di Eduardo Migliaccio (1882-1946), il comico più originale. Nei testi satirici come Cunailando – il luna park di Coney Island – Migliaccio simula le varietà parlate nell’emigrazione, tra il dialetto e l’angloamericano (Haller 2006: 113):
Aggio siscato ’a ’nnammurata mia ...
– Se uar’ iu uante Nik? – Merì dress oppo,
Te porto a Cunailando, iammo orrioppo,
Tengo automorbo abbascio. Come nda’.
– Mai matera no uante – Ezze natingo.
– Iu’ come giuste seme. S’è vestuta
e annascosta d’ ’a mamma se n’è asciuta
p’ ’o becco – Mi redì. Comanne Nik.
Il dialetto napoletano si alterna con una varietà italianizzata d’inglese (Se uar’ iu uante «di’, cosa vuoi»; Come nda «vieni giù»; Ezze natingo «non è niente, non importa»; Mai matera no uante «mia madre non vuole»; Iu’ come giuste seme «vieni lo stesso»), in cui si notano italoamericanismi come orrioppo «presto» (da ingl. hurry up) e p’ ’o becco (ingl. back), e termini per lo più adattati all’italiano o al dialetto che illustrano il contatto tra due mondi e civiltà e simbolizzano la nuova identità degli emigrati. La satira si estende anche agli atteggiamenti linguistici: l’inglese è considerato lengua storta, e il napoletano – non il toscano – è la lingua dell’amore.
Di fronte alle vicende complesse dell’italiano come lingua di emigrazione, con un passaggio all’inglese progressivo ma rallentato, l’italofonia continua oggi a essere vitale, soprattutto nella East Coast e nell’area metropolitana di New York, connessa forse con un rinato apprezzamento del dialetto. Tale vitalità si nota anche nel rinnovato interesse per l’italiano come lingua straniera, dovuta ai più facili scambi internazionali e alle comunicazioni via Internet, al prestigio commerciale del made in Italy, e all’immagine dell’Italia come paese di una grande cultura.
Berruto, Gaetano (1987), Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica.
Durante, Francesco (a cura di) (2005), Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, Milano, Mondadori, 2 voll., vol. 2º (1880-1943).
Favero, Luigi & Tassello, Graziano (1978), Cent’anni di emigrazione italiana (1876-1976), in Un secolo di emigrazione italiana, 1876-1976, a cura di G. Rosoli, Roma, Centro Studi Emigrazione, pp. 9-64.
Franzina, Emilio (1996), Dall’Arcadia all’America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia, 1850-1940, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli.
Haller, Hermann W. (1993), Una lingua perduta e ritrovata. L’italiano degli italo-americani, Firenze, La Nuova Italia.
Haller, Hermann W. (1998), I piemontesi nel Far West. Usi e atteggiamenti linguistici nella comunità piemontese di San Francisco, in XII e XIII Rescontr antërnassional dë studi an sla lenga e la literatura piemontèisa (Quinsne 6-7 magg 1995, Turin 11-12 magg 1996), at soagna da G.P. Clivio, D. Pasero & C. Pich, Ivrea, Tip. Ferraro, pp. 273-286.
Haller, Hermann W. (a cura di) (2006), Tra Napoli e New York. Le macchiette italoamericane di Eduardo Migliaccio, Roma, Bulzoni.
Livingston, Arthur (1918), La Merica Sanemagogna, «Romanic review» 9, pp. 206-226.
Marazzi, Martino (2001), I misteri di Little Italy. Storie e testi della letteratura italoamericana, Milano, Angeli.
Marchand, Jean-Jacques (a cura di) (1991), La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli.
Menarini, Alberto (1947), Ai margini della lingua, Firenze, Sansoni.