Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’universo narrativo di Calvino è attraversato da una lucida tensione razionale, spesso congiunta a un’immaginazione fantastica, a una disposizione sottilmente umoristica. Il primo periodo è più legato all’impegno politico dello scrittore, fino alla Giornata d’uno scrutatore. Dalla seconda metà degli anni Sessanta assistiamo a una fase di sperimentazione narrativa: è l’epoca delle Cosmicomiche, delle Città invisibili, conclusa dall’iperromanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, e dai raccontini saggistici di Palomar.
Storia e fiaba
Italo Calvino
Se una notte d’inverno un viaggiatore
Ora siete marito e moglie, Lettore e Lettrice. Un grande letto matrimoniale accoglie le vostre letture parallele. Ludmilla chiude il suo libro, spegne la sua luce, abbandona il capo sul guanciale, dice: “Spegni anche tu. Non sei stanco di leggere?” E tu: “Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino”.
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Milano, Mondadori, 2002
Italo Calvino
Le città invisibili
Stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. “Dimmi ancora di un’altra città” insisteva. “... Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante...” riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: “Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco”. “Ne resta una di cui non parli mai”. Marco Polo chinò il capo. “Venezia” disse il Kan. Marco sorrise. “E di che altro credevi che ti parlassi?” L’imperatore non battè ciglio. “Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome”. E Polo: “Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia”. “Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia”. “Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia”. “Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei”. L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell’antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano. “Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano” disse Polo. “Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta poco a poco”.
I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 2002
La parabola narrativa di Calvino si estende lungo le fasi più importanti del Novecento avanzato, dal giovanile Sentiero dei nidi di ragno (1947), fino all’anno della sua morte, il 1985 (e oltre, se si pensa al prezioso lascito per il nuovo millennio costituito dalle sue Lezioni americane, pubblicate nel 1988, e dedicate ad alcune linee della letteratura mondiale, Leggerezza, Rapidità, Molteplicità, Esattezza, Visibilità). Tale parabola è caratterizzata da una costante inclinazione a una scrittura “mentale”, animata da una tensione illuministica, da uno stile perspicuo e immaginoso, razionale e appropriato, sempre sul crinale tra la più sfrenata e gioiosa immaginazione e l’esattezza, l’impegno dell’intellettuale di fronte alla realtà che lo circonda. La stessa iniziazione al romanzo dell’autore, nell’immediato dopoguerra, si sviluppa nella vicenda di iniziazione al mondo degli adulti vissuta dal ragazzino Pin. Il Sentiero è fiabesco, eppure riferito concretamente al paesaggio ligure, all’entroterra che ospita le formazioni della Resistenza: Pin conosce la strada che porta ai meravigliosi nidi di ragno, e sarà lì che nasconderà la pistola sottratta a un soldato tedesco. La crescita di Pin, le diverse figure che lo attorniano e gli insegnano la durezza e l’affetto fraterno nella vita sono al centro del racconto: Pelle, il grande amico Cugino, l’avventuroso Lupo Rosso, tutti giovani combattenti trasfigurati dall’occhio infantile, pronto a vivere la guerra come un gioco; come scrive Domenico Scarpa “Calvino riesce dunque a trasformare in fiaba il genere più grezzo e impoetico degli anni Quaranta: il documento, il memoriale, la testimonianza di guerra”. La materialità della Liguria, la sua storia, il grande patrimonio della tradizione, un documentatissimo repertorio regionale, poi, costituiranno la base per la riscrittura in lingua italiana delle Fiabe italiane, che usciranno nel 1956. Il decennio inaugurato dal secondo conflitto mondiale si conclude con l’uscita dei 30 racconti di Ultimo viene il corvo (1949), testi di esemplare asciuttezza narrativa, nei quali spiccano temi legati alla guerra, occasioni di descrizione del mondo esterno e del paesaggio, situazioni informate da una certa comicità o, diversamente, da elementi della scena politica del tempo. Quest’ultimo spunto rappresenterà il discorso di fondo per tutta una fase che potremmo dire neorealistica, culminante nel 1963 della Giornata d’uno scrutatore. Il breve romanzo è ambientato nel 1953 della “legge truffa” voluta dalla Democrazia Cristiana, e narra di un alter ego dell’autore, Amerigo Ormea, scrutatore comunista torinese attento a che, nel seggio speciale istituito nel grande ospedale per minorati psichici del Cottolengo, vengano rispettate le forme minime di regolarità nel voto. Ma il confine tra norma e abnorme, agli occhi dell’intellettuale razionale Amerigo, si fa progressivamente labile; la sua fermezza morale e laica si frantuma in brandelli di riflessioni dolorose di fronte alla pietà che la vista dei malati provoca in lui, e alla presenza di un amore e di una solidarietà più forti del loro isolamento e della loro condizione di anormalità.
Ancora negli anni Cinquanta, l’impegno demistificatore dello scrittore ha preso forma in altre scritture brevi, La formica argentina (1952), La speculazione edilizia (1957), La nuvola di smog (1958), tutti amari apologhi sulla difficoltà del presente, riconosciuti tra i punti più alti del racconto calviniano.
I nostri antenati
Gli anni Cinquanta vedono inoltre la realizzazione di un progetto narrativo tripartito, dedicato a figure di incompletezza e di disagio, di esilio da sé: sono I nostri antenati, trilogia inaugurata dal Visconte dimezzato (1952), proseguita con Il barone rampante (1957), e conclusa dal Cavaliere inesistente (1959). Nel primo dei romanzi, il visconte Medardo di Terralba ritorna dalla guerra dimezzato da una cannonata infertagli dai Turchi: è la sua metà malvagia a essere sopravvissuta, seminando terrore e tagliando in due quanto incontra per strada. La soluzione al tutto verrà dall’altra metà, quella buona, la quale dopo un duello sanguinoso si riconcilierà con la metà avversaria, sposando infine la contadina Pamela. Il barone rampante è invece la storia di una volontà testarda, quella del settecentesco Cosimo Piovasco di Rondò che, salito da ragazzo su un albero, dagli alberi non scenderà più, compiendo la sua vita là in alto, a distanza dalla terra e dalle sue preoccupazioni. La sospensione aerea del barone può anche assurgere a contrassegnare lo stato di felicità, di grande leggerezza del romanzo: la fantasia domina incontrastata, lo stile è fluido e aggraziato, la narrazione è ricca di trovate ingegnose. Con Il cavaliere inesistente, raccontato da una misteriosa suor Teodora, la scena viene trasposta al Medioevo dei paladini di Carlo Magno: tra questi, nell’accampamento suscita curiosità e sgomento il prode Agilulfo, un’armatura vuota, misteriosamente priva di corpo. Sono tutte figure metaforiche, personaggi che danno voce a una crisi: nei Nostri antenati, come afferma Claudio Milanini “il dimezzamento di Medardo, il rampare di Cosimo, l’inesistenza di Agilulfo acquistano il senso – anche – di esperienze che è necessario attraversare per reagire all’opacità, all’inerzia, alla confusione circostanti”. Ancora legate al potere dell’immaginazione sono le novelle di Marcovaldo, ovvero le stagioni in città (1963), scritte in una lingua tersa che ha conquistato generazioni di piccoli lettori, incentrate sul manovale Marcovaldo (ispirato a Calvino, pare, da un fattorino della casa editrice Einaudi, presso la quale lo scrittore collabora lungamente a partire dall’immediato dopoguerra) e la sua famiglia, i loro attimi di vita grama e spassosa in una città inospitale che ricordano le mosse dei personaggi straniti delle comiche, Charlot (nelle parole dello stesso autore), o ancora il procedimento tipico delle avventure del fumetto, risolte dal fattore della sorpresa.
La sicurezza dei sistemi: scienza e letteratura
Dopo il giro di boa costituito dalla Giornata d’uno scrutatore, che fa i conti con tutto il periodo retrostante dell’impegno politico e dell’adesione a un rigore laico e illuministico, con l’Italia uscita dalla guerra e dalla Resistenza, nel 1965 la pubblicazione delle prime Cosmicomiche schiude un Calvino per molti versi inedito, in bilico tra l’immaginazione senza briglie della trilogia degli anni Cinquanta e le suggestioni del linguaggio scientifico. Il tono peculiare delle singole Cosmicomiche è dato dall’avvicendarsi, in gran parte di esse, di un corsivo desunto da ipotetici trattati scientifico-cosmografici, e dalla narrazione che si svolge tematizzando, spesso in maniera curiosa e assurda, altre volte poetica o romantica, il medesimo fenomeno scientifico. Il risultato è la fusione di mito e di scienza attraverso una descrizione comico-favolistica imperniata sulla voce del narratore Qfwfq, pronto ad assumere, di storia in storia, le fattezze di un essere o di un organismo diverso, depositario, lungo anni luce e galassie, della “memoria del mondo”.
L’interesse di Calvino per i modelli della scienza prosegue nel decennio successivo, coniugandosi alle acquisizioni dello strutturalismo e della semiotica (a Parigi Calvino frequenta gli epocali seminari di Roland Barthes): al 1972 risale un’opera di cristallina perfezione, sorretta da una rete di incastri numerici sofisticatissima, Le città invisibili. Il libro è formato dal racconto delle città dello sterminato impero del Kan, che Marco Polo ha esplorato e che si impegna a descrivere all’imperatore. Marco, nell’evocare città misteriose e inaccessibili, solleva stupori, dubbi, nostalgie: nel rovescio di ognuna di esse c’è la città-matrice, la sua lontana, inarrivabile Venezia. Nel segno di un’immaginazione fantastica e di una narrazione impalpabile, poetica, Calvino concepisce le sue Città come rimandi alla storia e al difficoltoso presente della forma urbana; in ognuna delle sue creazioni, contrassegnate da un nome femminile, allude a un possibile modo di essere delle città del mondo. Il sistema combinatorio, legato alle molteplici possibilità di costruzione di un testo a seconda degli elementi che vi si possono incontrare e fondere, è quanto affascina ancora il Calvino del Castello dei destini incrociati (1973). Attraverso i tarocchi disposti sulla pagina si dipana la narrazione, che segue determinate regole per poter progredire, a seconda delle figure che escono dal mazzo di carte, come scrive Domenico Scarpa: “le parole si propongono insomma di esplorare le potenzialità delle immagini: il Castello è innanzitutto una scommessa con il linguaggio”.
Vertigini
Gli anni Settanta procedono enfatizzando l’attenzione dello scrittore verso la combinatoria testuale: l’approdo di questa direzione è da leggere in quello che forse è il primo, compiuto romanzo postmodernista in Italia, Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), capace di innescare intorno a sé un veemente dibattito critico, teso a discutere, allo stesso tempo, dei confini e della vitalità della forma romanzo. In effetti Se una notte d’inverno un viaggiatore, costituito da dieci incipit di dieci diversi romanzi che non si concludono, non trovandosi il loro seguito, pone questioni fondamentali per la letteratura presente: mentre celebra le infinite potenzialità della narrazione romanzesca ne sancisce anche la crisi, un punto di non ritorno. Se chi scrive può – come Calvino abilmente insegna – riprodurre stili, tradizioni storiche, culture letterarie diverse dalla propria, si ingenera quello che è stato definito da Carla Benedetti un “effetto di apocrifo”, un gioco di citazioni e di pastiches ripreso da Jorge Luis Borges che Calvino conduce al punto di oscurare l’identità del romanzo (e, in misura non meno importante, dell’autore) per costruire la forma complessa dell’iperromanzo. La natura dichiaratamente narratologica dell’operazione è evidente: protagonista è un Lettore, non un personaggio individuato, ma un’anonima funzione, un lettore-tipo che assume su di sé il compito investigativo di rintracciare una fine per il romanzo sfilacciato, dai mille inizi, che si ritrova tra le mani; nel finale, unitosi finalmente alla complice Lettrice, si ritrova a concludere la lettura di un romanzo intitolato, guarda un po’, Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Calvino continua a forzare i confini tra finzione e realtà, tra il mondo scritto e il mondo da esperire, da percorrere con i sensi: nasce così un progetto, rimasto incompiuto, dedicato ai cinque sensi, di cui restano tre racconti, tra i quali gli splendidi Sapore Sapere (1981), ambientato in Messico, innestato sul tema del gusto e a sua volta realizzato in immagini di antropofagia, e Un re in ascolto (1984), derivato da un libretto scritto per Luciano Berio nel 1977 (un re all’inseguimento, nella reggia isolata e terribile, di una misteriosa e sfuggente voce femminile). È così che, accanto a saggi, appunti, reportages dai viaggi intorno al mondo di Collezione di sabbia (1984), e con alle spalle Una pietra sopra (1980), posata sulla propria trentennale produzione saggistica, Calvino pubblica le storie del signor Palomar, poi riunite nell’ultima opera narrativa, Palomar (1983), dal forte impianto saggistico-filosofico. Sono descrizioni di istanti, viaggi, analisi della smisurata complessità del reale (celeberrimo è il ritratto di Palomar sgomento di fronte all’enumerazione caotica dei mille formaggi di un negozio parigino), una disseminazione di tracce che ricostruiscono un malinconico romanzo di idee – alla maniera del Monsieur Teste di Paul Valéry –, dove l’orizzonte ultimo del pensiero è rappresentato dall’omino Palomar che immagina la propria morte: lo sguardo indagatore e buffo di Palomar lega così insieme l’attitudine pensosa e critica, non di rado commovente, di una parte fondamentale della produzione calviniana.