italiano antico
Contrariamente a ciò che avviene per altre lingue (per es., francese, tedesco, inglese), non è abituale periodizzare l’italiano. Tuttavia il concetto di italiano antico, opposto a quello di italiano moderno e separato da questo da una sezione storica intermedia con caratteri precisi, quella dell’italiano, o meglio fiorentino, del Quattrocento, si è ormai imposto negli studi.
La periodizzazione proposta è dunque la seguente:
(a) italiano antico o meglio fiorentino antico, dal 1211 (data del primo documento, costituito dai frammenti di un libro di conti di banchieri fiorentini), fin verso il 1400;
(b) fiorentino medio, dall’inizio del Quattrocento circa fino alla riforma di ➔ Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, 1525;
(c) italiano moderno, dalla riforma di Bembo fino ad oggi (probabilmente da suddividere a sua volta approssimativamente dal Cinquecento all’Ottocento e dall’Ottocento a oggi).
È all’inizio della terza fase che l’uso della lingua degli autori fiorentini del Due-Trecento si costituisce come base dell’uso letterario, e poi anche amministrativo e infine generalizzato, di tutta Italia; pertanto la prima fase può essere denominata, per comodità, italiano antico, perché costituisce a tutti gli effetti il punto di partenza dell’italiano moderno.
La successione delle tre fasi dà un’impressione apparente di continuità, ma in realtà l’italiano moderno è basato sulla lingua degli autori del Due-Trecento, per cui si può dire che ritorna al primo periodo, mentre il fiorentino del Quattrocento (su cui cfr. Manni 1979) continua direttamente nel vernacolo fiorentino. Va però precisato che l’italiano moderno ha accolto nel corso della sua storia, e ha stabilizzato nell’Ottocento, alcuni tratti che si erano imposti a Firenze nel Quattrocento e che non erano stati inclusi nella norma di Pietro Bembo, come breve e trova per brieve, truova, dia e stia per dea, stea, figliolo per figliuolo, io potevo per io poteva e qualche altro tratto (Castellani 1980: I, 17-35; Bruni 2002: 79-85). Questi aggiornamenti non avvengono attingendo direttamente alla lingua viva di Firenze, ma sempre per la mediazione di letterati e scrittori che si ispirano ad essa (per la forma in -o della prima persona dell’➔imperfetto, per es., è decisiva l’influenza di ➔ Alessandro Manzoni). Le forme fiorentine quattrocentesche lui e lei soggetto, già accolte nella Grammatica di ➔ Leon Battista Alberti (tra il 1435 e il 1441), sono avanzate lentamente ma irresistibilmente, arrivando a scalzare quasi del tutto, dopo cinque secoli, egli e ella; lo stesso è successo al plurale con loro. Il termine di italiano antico può essere anche usato in un’accezione diversa per designare il complesso delle varietà romanze usate in forma scritta in Italia durante il medioevo (➔ volgari medievali).
Si dice spesso che nelle scuole italiane è possibile presentare dei testi italiani antichi, come quelli di Dante, Petrarca o Boccaccio, con un modesto apparato di precisazioni di ordine grammaticale e lessicale, mentre questo non è possibile per il francese e per altre lingue romanze e non.
Questa affermazione contiene un fondo di verità. All’origine della somiglianza tra italiano antico e moderno c’è la continuità tra la prima e la terza fase date sopra. Si può dire così che l’italiano moderno ha un carattere piuttosto conservatore.
Ma se le differenze tra italiano antico e moderno sono relativamente limitate nella fonologia e anche nella morfologia (almeno in confronto a quello che avviene in francese), sono più spiccate sul piano sintattico (è più difficile dare un giudizio generale sul lessico, data la sua enorme estensione; cfr. le osservazioni di Contini 1970 e alcune brevi osservazioni che seguono). Contrariamente agli altri livelli, tuttavia, queste ultime ostacolano raramente la comprensione. La differenza tra l’assetto sintattico dell’italiano antico e quello dell’italiano moderno è stata notata dagli studiosi relativamente tardi (Brambilla Ageno 1964; Enciclopedia Dantesca 1984; Stussi 1995) o, in alcuni casi, è stata ritenuta un fatto di stile e non di lingua. Molti hanno così sottovalutato le differenze tra i due stati di lingua dell’italiano, antico e moderno, e hanno ritenuto superflua la necessità di periodizzare la storia dell’italiano.
Per esemplificare quanto detto della sintassi, si consideri il seguente esempio con alcuni versi di ➔ Francesco Petrarca:
(1) Mentr’io portava i be’ pensier’ celati,
ch’ànno la mente desiando morta,
vidivi di pietate ornare il volto
(Francesco Petrarca, Canz. XI, 5-7)
Il lettore non ha particolari difficoltà di comprensione, ma il periodo contiene almeno due caratteristiche sintattiche diverse dall’italiano moderno: la separazione delle due parti del verbo composto ànno … morta (quest’ultimo nel senso di «ucciso») e vidi ornare attraverso l’anteposizione di uno o più costituenti (la mente e desiando nel primo caso, di pietate nel secondo), e la posposizione (enclisi) del pronome oggetto al verbo finito (vidivi per vi vidi). Si aggiungono alcune caratteristiche fonetiche e morfologiche: la caduta (per apocope o elisione) della vocale finale in be’, pensier’, ch’(ànno), e al contrario la forma pietate (o più comunemente pietade, come cittade e le altre parole dalla stessa forma, sostituite oggi dalle forme con apocope sillabica pietà, città, ecc., che coesistevano già peraltro con la forma non apocopata fin dalle origini); e l’imperfetto portava di I persona sing. (oggi portavo).
Ci sono anche dei casi in cui il lettore crede di capire, ma in realtà non capisce, o equivoca, o almeno semplifica rozzamente. Prendiamo, per es., questo sonetto di ➔ Dante:
(2) Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven, tremando, muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: «Sospira»
(Dante, Vita nuova XXVI, 5-7)
In un celebre studio, Contini (1970) ha osservato che nel primo verso nessuno dei lessemi ha lo stesso valore dell’italiano moderno (gentile vale «nobile», onesta vale «piena di decoro» e pare non è «sembra» ma «si manifesta nella sua evidenza»). La principale fonte di equivoci è l’evoluzione del significato di queste e molte altre parole. In questo testo ci sono però anche elementi morfologici diversi dalla lingua moderna: Contini ha notato un spirito per uno spirito, si va per se ne va, ma ci sono anche vestuta per vestita, ogne per ogni. Labbia «viso», come nota Contini, è un femm. sing. da un neutro pl. in -a (come la frutta < le frutta). Per fatti sintattici, come l’ordine «miracol mostrare», ecc., cfr. sopra. Ma è anche vero che nello stesso sonetto ci sono diverse parole che conservano perfettamente il loro significato in italiano moderno, come lingua, tremando, muta, ardiscon(o), guardare, ecc., e molte parole grammaticali, come tanto, mia, di, ecc.
Esempi di coincidenza perfetta tra italiano antico e moderno si rivelano, a un esame attento, molto rari, o forse non ce ne sono affatto.
Ecco un passo da Bono Giamboni, Fiore di rettorica, composto nel 1291 ma trascritto nella veste di un ms. fiorentino della fine del Trecento, di cui rappresenta bene il tipo:
(3) Per via di forza si può danno dare o per oste, o per navilio, o per arme,
o per tormento, o per recar gente scacciata in lor paese, e per altre
cotali cose (Bono Giamboni, Fiore di rettorica, red. beta, cap. 74, p. 88)
Ecco una trascrizione fonetica nell’alfabeto IPA:
[per ˈvia di ˈfɔrʦa si ˈpwɔ ˈdanːo ˈdare ɔ pːer ˈɔste ɔ pːer naˈviʎːo ɔ pːer ˈarme ɔ pːer torˈmento ɔ pːer reˈkar ˈʤεnte skaˈtːʃata in lor paˈeze ε pːer ˈaltre koˈtali ˈkɔse]
Come si vede, la pronuncia di questo passo è molto vicina a quella dell’italiano moderno di Firenze (non del vernacolo fiorentino) e, solo un po’ meno, alle forme più accurate di italiano pronunciate nel resto d’Italia (le vocali di o ed e erano però aperte e si sarebbero chiuse successivamente). Tipico del fiorentino antico come di quello moderno è il ➔ raddoppiamento sintattico, che nel nostro testo, come spesso, non è rappresentato; ma grafie come e pper, che pper, su pper sono comuni (nei mss. le parole sono scritte unite, mentre nelle edizioni moderne vengono separate per facilitare la lettura), come pure a ppace, a rRoma, ecc. (non è invece certo che il raddoppiamento sintattico si facesse dopo parola tronca, per cui non lo abbiamo segnato nel caso di può danno).
Dove abbiamo in lor («paese») si può supporre una assimilazione [ˈilːor], scritto spesso illor nei manoscritti (gli editori moderni danno in genere i· llor). Così nel sonetto citato di Dante in «no l’ardiscon» l’assenza della -n finale va interpretata probabilmente come una sua assimilazione alla l successiva [nolːarˈdiskon]. L’apocope delle vocali finali di parola -e, -i e -o dopo l- e r- prima di consonante nello stesso sintagma (qui recar gente, lor paese) era generale in italiano antico, mentre in italiano moderno è più limitata (solo la prima forma, con caduta di -e, è ancora in uso in alcuni contesti, come far fare, far dire, ecc.). Questi fenomeni di riduzione sono conservati invece spesso nel vernacolo fiorentino e nella pronuncia popolare di Roma (il cui tipo linguistico dipende storicamente dal toscano; ➔ Roma, italiano di).
Navilio è grafia latineggiante per naviglio con la consonante [ʎː], scritta in genere già in italiano antico come oggi naviglio oppure navilglio o navilglo (➔ grafia; ➔ laterali). In (altre) cotali cose la c- iniziale non era aspirata come lo è in fiorentino moderno (il complesso dei fenomeni detti della ➔ gorgia toscana emerge solo nel Quattrocento), ma era realizzata come nel resto d’Italia come [k]. Parole come pace, fece (non presenti nel passo) si pronunciavano come oggi in Italia settentrionale con [ʧ], e non [ʃ] come oggi a Firenze, in Toscana, a Roma e in gran parte dell’Italia centro-meridionale. Tuttavia nel corso del Trecento si cominciano a pronunciare a Firenze con [ʃ]. Simile è la situazione della g. La velare era scritta come oggi ‹gh› prima di e, i (o anche solo ‹g›, con grafia ambigua), la palatale gi, ge (e anche gie): gente si pronunciava con [ʤ] dopo consonante (come qui in recar gente o in punge), ma [ʒ] in posizione intervocalica: la pronuncia di bugia doveva esser [buˈʒia] già prima che pace fosse [ˈpaʃe].
Rispetto all’italiano moderno, la morfologia dell’italiano antico si caratterizza per una più estesa presenza di categorie e forme ereditate dal latino, che poi l’evoluzione successiva ha eliminato o sostituito. Visti dalla prospettiva dell’italiano moderno, si tratta di aspetti ‘conservativi’ dell’italiano antico. Esistono tuttavia anche alcune forme ‘innovative’ dell’italiano antico che l’italiano moderno ha poi abbandonato, preferendo forme diacronicamente precedenti.
Nel sistema dei pronomi la distinzione di caso nominativo e obliquo, limitata oggi alle sole coppie io / me e tu / te, in italiano antico riguardava molte più forme (Renzi 1998). Nel sonetto di Dante troviamo, per es., la forma nominativa ella, che poteva fungere solo da soggetto; la forma obliqua corrispondente era lei, che poteva fungere da oggetto diretto (le persone correano per vedere lei: Dante, Vita nuova XXVI, 1), da oggetto indiretto (Ed io, rispondendo lei, dissi: Dante, Vita nuova XVIII, 6) e da complemento di una preposizione (ne la seconda le prego che mi dicano di lei: Dante, Vita nuova XXII, 11), mentre il suo uso come soggetto era limitato a pochi contesti (per es., come soggetto posposto di un gerundio in urlando lei: Chiaro Davanzati, Rime, son. 29, v. 3). Nell’italiano moderno corrente si usa solo lei per tutte le funzioni (ma per l’oggetto indiretto solo con la preposizione: a lei).
Altri casi di conservazione di forme ereditate dal latino, poi scomparse, sono nella morfologia verbale: le desinenze -emo e -imo di I persona plur. nel presente indicativo della II e III coniugazione: credemo, venimo (regolarmente da lat. -emus / -imus, già in concorrenza con le forme innovative analogiche in -iamo, soprattutto nella III coniugazione: crediamo, veniamo); la già ricordata forma in -a della I persona sing. dell’imperfetto indicativo: (io) credeva (regolarmente da lat. -am, ma compare già l’analogico -o: avevo); le forme brevi della III persona plur. del perfetto indicativo in -ro: domandaro, combattero, fuggiro (regolarmente da lat. -runt, ma ci sono anche le forme con l’aggiunta della desinenza -no, sentita come più caratteristica della III persona plur.: insegnarono, abbatterono, partirono; in italiano moderno le forme brevi sono conservate solo nei verbi irregolari e nei perfetti in -ette: fecero, temettero).
Tra i fenomeni non ereditati dal latino, ma innovativi dell’italiano antico, poi non accolti dall’italiano moderno, possiamo citare la palatalizzazione della l nel plurale dei nomi e aggettivi terminanti in -le e -lo, per cui il plur. di cavallo poteva essere cavagli o cavai (in italiano moderno questo fenomeno è limitato all’articolo e al dimostrativo quello: gli / i, quegli / quei); la presenza di forme enclitiche del possessivo: fratelmo «mio fratello», figliuolto «tuo figlio» (oggi presenti in molte varietà centromeridionali, ma non più in toscano); la III persona plur. analogica in -ono nel perfetto semplice dei verbi irregolari e nell’imperfetto congiuntivo: dissono, dovessono, ecc. (accanto a dissero, dovessero, ecc.).
Un fenomeno dovuto alla stratificazione linguistica è la presenza nella lingua poetica di forme di condizionale in -ia (limitate alla I e III persona sing. e III persona plur.): vorria (I e III persona sing.), avriano (III persona plur.) (accanto alle forme genuinamente fiorentine vorrei, vorrebbe e avrebbero), dovute all’influsso della lirica siciliana e rimaste a lungo nella lingua letteraria.
La frase iniziale del sonetto dantesco riportato nel § 2 mostra un ordine delle parole che non sarebbe usuale in italiano moderno (Benincà 1994: capp. 7-10), con il complemento predicativo (Tanto gentile e tanto onesta) in posizione preverbale e il soggetto (la donna mia) in posizione postverbale. Questo ordine delle parole (tecnicamente, struttura a verbo secondo) era generale in italiano antico, dove qualsiasi tipo di costituente poteva essere anteposto al verbo, mentre il soggetto andava a occupare la posizione immediatamente postverbale (la cosiddetta inversione):
(4) a. Ciò tenne il re a grande maraviglia (Novellino II, 22)
b. e di ciò può il parlatore prendere suoi argomenti (Il Tesoro di Brunetto Latini volgarizzato da Bono Giamboni, Bologna, Romagnoli, 1877-1883, vol. 4°, libro 8, cap. 49, p. 163, rr. 10-11)
c. Tanto amò costei Lancialotto (Novellino LXXXII, 5-6)
d. Perché semo noi venuti a queste donne? (Dante, Vita nuova XIV, 2).
In (4) a. il costituente anteposto è oggetto diretto, in (4) b. un complemento preposizionale, in (4) c. e (4) d. un avverbio. In tutti gli esempi il soggetto posposto segue immediatamente il verbo e, quando il verbo è composto con un ausiliare o semiausiliare (modale), si trova dopo l’ausiliare (semo in 4 d.) o il semiausiliare (può in 4 b.), non dopo il participio o l’infinito, un ordine del tutto escluso in italiano moderno. Ma un soggetto posposto si può anche trovare, come in italiano moderno, dopo la forma non finita:
(5) uno porto nello quale era adorato Malcometto [= Maometto] (Brunetto Latini, Rettorica, p. 110, rr. 2-3)
Il costituente anteposto può svolgere due funzioni molto diverse tra di loro: costituire il focus della frase, cioè la parte più saliente dell’informazione nuova (➔ dato/nuovo, struttura; ➔ focalizzazioni), come nell’esempio del sonetto dantesco analizzato sopra, o in (4) c. e (4) d., oppure può costituirne il Tema, cioè l’elemento preso come punto di partenza della comunicazione e normalmente noto o deducibile in base al contesto precedente, come in (4) a. e (4) b., dove il pronome ciò, anaforico, riprende il testo che precede e lo pone appunto come tema dell’enunciato che segue. Il soggetto invertito funge invece da tema della frase: in (4) il re, il parlatore, costei, noi sono elementi noti in base al contesto, mentre, quando si trova dopo la forma non finita, normalmente costituisce informazione nuova, come in (5).
In italiano antico l’inversione era possibile anche in assenza di anteposizione di un costituente (tecnicamente, strutture a verbo iniziale): era questo anzi l’ordine normale delle parole nelle frasi interrogative totali (6 a.) e nelle frasi eventive (6 b.), in cui un evento viene presentato come collegato agli eventi che lo precedono (in 6 b. la partenza degli ambasciatori viene presentata coma una conseguenza dell’evento precedente: «dopo che / siccome avevano ricevuto la risposta, gli ambasciatori partirono»):
(6) a. Hai tu bene veduto quali sono i rei disiderî della carne …? (Giamboni, Trattato, cap. 20, par. 23)
b. Li ambasciadori fecero la dimanda loro […]. Lo ’mperadore diede loro risposta […]. Andar li ambasciadori (Novellino I, 23-29)
Questi tipi di strutture non fanno più parte dell’italiano moderno corrente.
L’italiano antico differiva da quello moderno anche nella posizione dei ➔ clitici: nel sonetto dantesco questi normalmente precedono il verbo finito da cui dipendono (no l’ardiscon, Ella si va, che … si mova, ecc.), ma in un caso, diversamente da come sarebbe in italiano moderno, lo seguono: Mostrasi. La posizione del clitico non dipende dal modo del verbo (mostra è indicativo esattamente come ardiscon, va, ecc.), come è invece in italiano moderno, dove la differente posizione dei clitici in ci vai e vacci dipende dal modo indicativo o imperativo. In italiano antico era determinante la posizione del verbo nella struttura di frase (per la ➔ legge Tobler-Mussafia): i clitici seguivano sempre il verbo se questo era in prima posizione assoluta di frase (come in Mostrasi); questa posizione era quella usuale anche dopo le congiunzioni di coordinazione (7 a.) e dopo frasi subordinate (7 b.), mentre si aveva normalmente la posizione preverbale se il verbo era preceduto dal soggetto (Ella si va), dalla negazione (8 a.), da un costituente anteposto (8 b.) o se si trovava in frase subordinata (che … si mova):
(7) a. e portolo a donna la quale sarà tua difensione (Dante, Vita nuova IX, 5)
b. S’i’ son tu’ servo, pregoti che … (Iacopo Cavalcanti, Tre sonetti 2, v. 12)
(8) a. No li parlò (Fiori e vita di filosafi, cap. 8, r. 15)
b. Di ciò c’hai preso mi paga (Novellino VIII, 22)
In (8) b. abbiamo un caso di clitico preverbale con l’imperativo: come abbiamo detto, infatti, la posizione del clitico non dipendeva mai in italiano antico dal modo del verbo, ma solo dalla sua posizione (qui dopo un costituente anteposto; se questo costituente mancasse, avremmo Pagami, come in italiano moderno).
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