Italia. Popolo, nazione, Stato
Sia «popolo» sia «nazione» sono parole che hanno origine latina. Si deve aggiungere che nel corso dei secoli entrambe hanno assunto significati diversi, vuoi quanto alla composizione di ciò che rispettivamente sono un popolo e una nazione vuoi quanto ai ruoli sociali e politici di tali aggregati nel contesto più generale dei rispettivi sistemi istituzionali: per limitarci a due esempi, populus può essere solo una parte della comunità che chiamiamo Roma repubblicana, così come nazione può aver significato in una certa stagione della vicenda europea solo il re e la nobiltà (laica ed ecclesiastica). Senza poter seguire nella presente sede tutta la dinamica storica di tali parole, e dei relativi concetti, per quanto riguarda l’Italia si confrontano tre posizioni interpretative, in un quadro ove «popolo» e «nazione» sono assunti non di rado come sinonimi. La prima posizione tende a fare risalire il popolo italiano alla romanità, repubblicana e poi imperiale. La seconda vuole che non sia possibile parlare propriamente di una storia d’Italia prima del 1861 (nascita del regno d’Italia) o del 1870 (Porta Pia), perché prima di allora non vi era lo Stato nazionale. La terza rinvia ai segni iniziali di un popolo italiano a partire dai secc. 11° e 12° dell’era cristiana, quindi ben dopo la dissoluzione dell’impero romano e dopo le cosiddette invasioni barbariche. Se la prima tesi anticipa troppo, poiché la storia di Roma è all’inizio storia di una polis, poi storia di un impero a vocazione globale; se la seconda tesi finisce per identificare in modo quasi sovrapponibile nazione e Stato, la tesi che appare più plausibile è la terza, perché consente di cogliere il senso del lungo processo spirituale e materiale che ha innervato la sostanza civile del popolo italiano e la sostanza politica della nazione italiana, fino all’edificazione dello Stato unitario. Possiamo schematizzare tale processo nei seguenti termini. Il rapporto tra genti di origine latina e genti di diversa estrazione (tribù germaniche e nordiche, bizantini, arabi) è insieme conflittuale e integrativo. È conflittuale, perché si tratta di difendersi da quanti vengono da fuori, di recuperare spazi di autonomia anche territoriale, ma in pari tempo è integrativo, perché le genti di radice latina sono più numerose, perché la struttura feudale, ove più significativa è l’influenza della cultura germanica, tuttavia non è drasticamente innovativa rispetto al lascito istituzionale romano, ma anzi ne recupera tratti rilevanti, perché la religione cattolica finisce per costituire un elemento accomunante, perché il nascente «volgare» si diffonde e prende forma, originariamente sulla scia del latino e poi in contrapposizione a esso, mentre i «conquistatori» di stirpi germaniche non riescono a imporre i loro idiomi, infine perché nell’assetto pluralizzato della società feudale trovano spazio, non soltanto in Italia ma qui prima che altrove, le città comunali, ove fa le sue prime prove e poi progressivamente cresce la figura del borghese, homo oeconomicus per eccellenza, artigiano, produttore, mercante, prestatore di denaro, e ciò per un verso recupera e incrementa quelle attitudini tecniche, tecnologiche e di razionalità strumentale nelle quali grandi risultati ha ottenuto la romanità, per altro verso sviluppa le professioni liberali, specie legali, ma incoraggia altresì la fusione tra questa «nuova classe» e la nobiltà minore di origine germanica, mentre la grande aristocrazia rimane piuttosto legata al feudo e alla campagna, ma indebolita in ragione di un inurbamento che dà slancio alle città e che queste incoraggiano anche per accentuare tale indebolimento.
Vi è, dunque, un primo formarsi di popolo italiano, con basi sostanzialmente omogenee quanto a lingua, religione, capacità di tecnica e di arti e mestieri, con interessi economici che tendono a integrarsi perché le città marittime hanno necessità dei prodotti dell’entroterra e viceversa, perché i commerci fanno emergere conoscenze reciproche ed esigono usi e norme in qualche modo accomunanti e condivise.
Tuttavia grande è il particolarismo e lo spirito di fazione entro le città, grande è il particolarismo tra le città, troppo deboli sono queste sia rispetto all’impero romano di stirpe germanica sia rispetto all’autorità insieme temporale e spirituale dispiegata da Roma papale, in un quadro nel quale queste due potestà ora convergono ma più spesso confliggono, mettendo nell’un modo o nell’altro a dura prova quell’intreccio accomunante che si profila sia pur con molte ombre sul terreno socio-economico e socio-culturale (dalla religione alla lingua), ma che trova innumerevoli ostacoli a proiettarsi sul terreno politico. Non è possibile in questa sede parlare distintamente delle diverse situazioni di Roma e di Napoli, di Venezia e di Firenze, di Milano e Palermo, di Torino e Genova e Pisa, né possiamo seguirei tracciati lungo i quali imperatori e pontefici si muovono e rivendicano, legittimano e delegittimano, promuovono alleanze e alimentano inimicizie, chiamano a raccolta città comunali e nobili di feudo per animare coalizioni le une contro le altre, registrando però in pari tempo defezioni e cambi di fronte che indeboliscono ora questo ora quello. Qui si può solo rilevare che all’età comunale segue l’età delle signorie. Sono queste ora di impianto feudale (casa Savoia) ora di estrazione borghese e, in tale senso, popolare. Possiamo definire le seconde come le signorie tipiche. Esse emergono sostanzialmente per trasformazione di realtà comunali, che per un verso ampliano i loro territori includendo campagne e borghi e città minori, per un secondo verso registrano al loro interno il prevalere di una famiglia e del relativo «partito» (mix di alleanze e convergenze) sulle altre fazioni comunali, per un terzo verso si propongono appunto come superamento del fazionismo delle città e quindi come garanzia di sicurezza, disciplina, pace e (almeno relativa) uguaglianza per gli individui e i gruppi entro la società. Vi sono comunque vari aspetti problematici che vanno considerati circa la stagione delle signorie. Anzitutto, mano a mano che i signori tendono a trasmettere il loro dominio su base familiare e poi ereditaria, ciò comporta una contraddizione rispetto alla radice «popolare» di tale potere, che perciò è sempre a rischio di contestazione e confutazione. La signoria tende perciò a fare ricorso a una legittimazione per concessione imperiale (dall’alto e non più dal basso, dunque), che lascia ampi spazi di movimento nei periodi in cui l’impero è debole, e però allora è il papato che si fa avanti, ma comporta rischi pesanti per l’autonomia del signore allorché la potestà imperiale recupera forza e autorevolezza.
In secondo luogo, le signorie non soltanto competono, anche militarmente, tra loro, ma confliggono con la Repubblica di Venezia, con il regno di Napoli, creano tensioni nello e con lo Stato della Chiesa (nel frattempo organizzatosi anch’esso, attraverso il grande nepotismo, in chiave di signoria), quest’ultimo sempre in fibrillazione per la preoccupazione che una qualche potestà, straniera o italiana, possa estendere il suo dominio al Nord come al Sud della penisola, perciò stringendolo in una morsa.
In terzo luogo, diffuso è il ricorso delle signorie alle compagnie d’arme mercenarie, truppe in genere straniere, con tutti i pericoli che ne derivano: che esse siano poco affidabili e quindi suscettibili di poco impegnarsi nella battaglia, che si attivino più per loro stesse e per i loro capitani che per i signori cui per assoldamento dovrebbero i servigi, che attuino scorreriee saccheggi nei territori stessi dei loro committenti.
In quarto luogo, va messo in conto che, mentre in ragione di tutto ciò l’Italia è e rimane drammaticamente divisa, in altre parti d’Europa cominciano a profilarsi Stati che, sia pure ancora e per lungo tempo con connotati di potere patrimoniale, fanno intravvedere la possibilità di sbocchi nel senso della edificazione di una realtà statuale su base nazionale. Tutto questo, va da sé, in un quadro di lotte, conflitti, accordi, successi ma anche cadute, che però progressivamente aprono la strada all’emergenza di una casata, dinastia capace di promuovere e orientare un ampio reticolo elitario, nobiliare ma poi anche borghese, in grado di imprimere un sigillo di segno nazionale ai popoli rispettivamente di Francia, Inghilterra, Spagna, per citare i casi più eminenti.
Tutto ciò non accade in Italia, ove nessun principe è in grado di affermare il proprio primato, tra l’altro perché lo Stato della Chiesa taglia in mezzo la penisola, talché l’Italia rimane debole ed esposta a tutti gli altrui attacchi, scorribande, supremazie, mentre il processo di unificazione nazionale, che comunque è faccenda di secoli, procede in altre terre. Proprio l’intrinseca inconsistenza politica dell’Italia divisa è il principale fattore che fa della penisola una terra di costante conquista, con secoli di sottomissione a Spagna, Francia, Austria. Ciò comporta un ritardo cospicuo in quel processo di formazione di élite con vocazione nazionale che in altri Paesi sono stati fattori forti di coesione tra i vertici istituzionali e la base popolare.Tuttavia, uno Stato piccolo inizialmente, periferico territorialmente, sottoposto a tutte le traversie della penisola, eppure determinato nella sua volontà di indipendenza e nella sua crescente vocazione italiana, si muove nella scena internazionale e nella realtà popolare, certo con spregiudicatezza anche nel cambio talora repentino delle alleanze, certo subendo talvolta pesanti sconfitte e occupazioni territoriali, ma non piegandosi alla sudditanza e alla passività verso gli stranieri. È uno Stato costruito attorno e per iniziativa di una casata che ha trasformato la nobiltà in patriziato civile, così impegnandola nel servizio alla res publica, che si è dotata di truppe proprie, che ha dispiegato un’intensa azione diplomatica, che dalla condizione inizialmente comitale, poi ducale, è infine ascesa alla corona regia. Questo Stato è il Piemonte sabaudo. E tale Stato si fa carico di colmare il distacco nell’emergenza di élite dotate di coscienza nazionale, di instaurare quindi rapporti con la borghesia italiana, di individuare le strade percorribili per giungere all’unità istituzionale della penisola. La lezione della storia sgombra il campo da ipotesi che pure, nella stagione risorgimentale, vengono formulate. Una federazione di Stati sarebbe risultata impossibile per la dipendenza di tanti di essi da potenze straniere. Uno Stato federale presieduto dal romano pontefice, poi, sarebbe risultato fuori da ogni logica della modernità. A una Repubblica, inevitabilmente realizzabile solo su basi rivoluzionarie, si sarebbe opposta l’intera Europa, dopo l’esperienza francese dell’Ottantanove e il conseguente turbine di guerre destabilizzanti scatenato dall’imperatore repubblicano Napoleone il grande. Non rimane che il Piemonte sabaudo. Esso ospita esuli siciliani e lombardi, toscani e veneti, romani e napoletani, nuclei costitutivi per l’ampliamento di una classe dirigente a prospettiva nazionale. Integra l’epopea garibaldina nei percorsi della statualità, così scongiurandone sbandamenti avventuristici. Attraverso i plebisciti, cui dal 1848 al 1870 partecipano in varie regioni della penisola ben oltre quattro milioni di votanti – davvero non pochi, per quella stagione europea e in particolare date le condizioni italiane –, registra il consenso all’unione, prima come regno di Sardegna e poi come regno d’Italia, del popolo nelle sue componenti politicamente più consapevoli. Non cancella ma ribadisce la fedeltà allo Statuto concesso da Carlo Alberto nel 1848. Sacrifica sull’altare della nazione terre assai care alla dinastia come Nizza e la stessa Savoia. Infine, l’Italia del Risorgimento, con le sue guerre di indipendenza, con le sue azioni militari e con le misure indispensabili per contrastare qua e là rigurgiti antiunitari, paga comunque tributi di sangue incomparabilmente minori di quelli occorsi nei secoli per l’unificazione di Francia, Spagna, Inghilterra. Lo Stato unitario italiano, dunque, nasce. In ritardo, ma nasce. E la lezione della storia è sempre viva: un’Italia divisa, disgregata o che si disgrega, è un’Italia debole. Che abbia necessità di competere o volontà di cooperare, come oggi nell’Unione Europea, la sua unità è condizione perché ciò avvenga con autorevolezza e pienezza di risultati.
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