Istituzioni
La parola chiave di questo volume è Istituzioni, vale a dire che in queste pagine il lemma regione è declinato a partire dal suo significato di attore istituzionale, che agisce in uno spazio delimitato da confini (geografici e amministrativi) riconosciuti, secondo norme e competenze stabilite dalla Costituzione del 1948 e dalle variazioni successive in essa introdotte. Si terrà conto del fatto che l’azione della neonata regione si snoda da un lato in uno spazio che è già occupato da una fitta rete di istituzioni locali – alcune, come i comuni, di durata addirittura secolare ‒ e dall’altro in un tempo, ormai pluridecennale, in cui le dinamiche demografiche, sociali e politiche del Paese conoscono una particolare accelerazione, contribuendo di fatto a condizionare l’agire istituzionale. L’accostamento di spazio e tempo così intesi (Leggere il tempo nello spazio e il monito non sempre ascoltato di Karl Schlögel) ha guidato la scelta di organizzare i contributi secondo un ordine tematico piuttosto che cronologico.
Dal punto di vista metodologico la prima novità dell’approccio che si propone per l’opera complessiva è rappresentata dalla volontà di porre l’attore regione in situazione: la situazione essendo rappresentata non solo dallo spazio occupato dalle istituzioni perimetrate, ma anche dal contesto sociale e culturale. Senza alcuna pretesa di irraggiungibile completezza, il contesto viene evocato sia nei casi in cui è riuscito a tradursi in agente di cambiamento, dialogando con la rete istituzionale, sia in quelli in cui attende ancora di trovare i suoi rappresentanti o semplicemente li rifiuti, volgendo altrove la propria domanda di riconoscimento; contesto è anche, in parte, un prodotto già sedimentato, mentre in altri casi è quanto la stessa regione contribuisce a costruire con il suo agire nel corso del tempo. Consegue da questa peculiare messa a fuoco dell’oggetto di analisi anche la seconda novità, che è rappresentata dalla compresenza di sguardi disciplinari diversi, nella convinzione che ci sia stata finora nella letteratura sulle regioni una certa sottovalutazione per quanto riguarda gli assetti istituzionali, le politiche e il rapporto tra queste e i processi culturali e sociali sottostanti. I quattro paragrafi successivi rispecchiano la struttura di questo primo volume e di esso suggeriscono una prima chiave di lettura.
Questa sezione riunisce i saggi specificamente dedicati all’ente regione in quanto istituzione. In tale ottica il tempo istituzionale è scandito da tre momenti principali. Il primo e quello dell’Assemblea costituente, allorché la questione del regionalismo, presente nel dibattito italiano fin dall’unificazione del Paese, trova una sintesi nell’approvazione del titolo V della Costituzione del 1948. Preceduto dall’approvazione, negli anni 1944-46, di forme di governo regionale dotate di statuti speciali (RSS) per la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, la Sardegna e la Sicilia (cui seguirà il Friuli Venezia Giulia nel 1963), il nuovo assetto statale è contrassegnato dalla presenza di 14 regioni (diventeranno 15 dopo la separazione dell’Abruzzo dal Molise nel 1963), cioè enti territoriali dotati di autonomia legislativa (art.117) oltre che amministrativa, riconducibili a una logica intermedia tra la forma unitaria e quella federale.
Il secondo momento periodizzante coincide con l’istituzione concreta delle regioni a statuto ordinario (RSO), che avviene all’inizio degli anni Settanta, in una fase specifica della vita amministrativa italiana, caratterizzata ovunque da nuove sperimentazioni a carattere partecipativo sull’onda della cultura della programmazione degli anni Sessanta. È allora che si avvia la nuova articolazione del potere legislativo, da quel momento suddiviso tra Parlamento nazionale e assemblee regionali: vengono eletti i consigli regionali, adottati gli statuti (caratterizzati inizialmente da una forte omologazione), nonché emanata la prima legislazione relativa alla finanza regionale (prevalentemente fondata su trasferimenti statali).
Il terzo momento periodizzante (la cosiddetta terza regionalizzazione) può essere considerato quello che, a partire dal ‘federalismo amministrativo’ intrapreso dal ministro Franco Bassanini, culmina con la riforma del titolo V del 2001-03, fino alla recente normativa del biennio 2009-11 (inerente a capacità fiscale e criteri di spesa) emanata, anche su pressione europea, con il presupposto che ogni livello di governo debba disporre di basi imponibili adeguate allo svolgimento delle proprie politiche. In effetti, nel particolare sistema italiano di finanza multilivello le regioni hanno funzionato da bacino intermedio tra la finanza dello Stato e quella degli enti locali; questa funzione di intermediazione tra centro e periferia ha riguardato, nelle RSO – diversamente dal caso delle RSS –, in larga prevalenza gli enti locali sanitari (a partire dal 1979, anno di attuazione della riforma sanitaria, la quota della spesa dedicata ai trasferimenti non è mai scesa al di sotto dei 9/10, superando, negli ultimi anni, il 93%).
Sia la lettura storica sia quella sociologica delle istituzioni locali convergono nel considerare l’introduzione delle RSO il vero elemento di rottura della classica architettura di stampo napoleonico che era servita da modello per i nuovi Stati nazionali nel corso dell’Ottocento. E questo non tanto a causa dell’inserimento del nuovo livello di governo locale quanto perché nuove funzioni e più forti autonomie ne sono derivate anche per i livelli preesistenti, i comuni e le province. E non solo: a seguito dell’accelerazione della modernizzazione economica che ha investito tutto il Paese in coincidenza con l’avvio delle RSO, si è realizzata una diffusione della competenza amministrativa che, oltre a coinvolgere gli enti locali canonici, si è estesa sul territorio a un numero crescente di nuovi organismi (aziende autonome, enti pubblici economici, consorzi, società a controllo pubblico) con la conseguenza di una complessificazione dell’intero sistema. Il venir meno della spinta uniformante rappresentata dalla cultura della programmazione, che aveva accompagnato la fase iniziale delle RSO, lascia spazio negli anni Ottanta a spinte di differenziazione identitaria (per es. mediante la riforma degli statuti), ma anche a tentativi di performance cercati in un rapporto diretto con i cittadini, sempre meno mediato dalla declinante struttura nazionale dei partiti. È un passaggio politico, sancito dalla riforma elettorale del 1992, ma è anche un passaggio, sotto la spinta delle esigenze imposte dalle nuove dinamiche sociali ed economiche sui territori, da un sistema semplice e compatto a un sistema pluralizzato, complesso e consensuale: quello che qui si definisce un passaggio ‘dal government alla governance’. Le funzioni di government, formalmente in testa allo Stato e alle Regioni, si parcellizzano e si diffondono, delineando un nuovo spazio di azione, non necessariamente coincidente con i confini delle istituzioni perimetrate: nasce uno spazio di reti in cui diventa sempre più difficile, per es., ricostruire la filiera che a ritroso riconduce alla responsabilita politica di una determinata azione, ma in cui è anche possibile sperimentare nuove forme di democrazia partecipata. Anche la deriva antipartitica favorisce la fioritura di pratiche di governance che tendono a risolvere consensualmente, attraverso un rapporto con il mondo professionale, imprenditoriale e associativo, i problemi posti dalla complessità istituzionale in situazioni sempre più articolate.
Un forte stimolo al passaggio alla governance (a livello organizzativo e procedurale) è venuto anche dall’Europa, come effetto sia dell’inserimento delle regioni nel sistema di rappresentanza degli organismi europei sia della gestione della politica di coesione favorita dai programmi comunitari. La tessitura di reti di contatti e di relazioni necessarie alla costruzione dell’accesso alle risorse comunitarie ha favorito la forte europeizzazione delle regioni, in particolare negli anni Ottanta-Novanta, in coincidenza con il nuovo corso ‘regionalista’ della politica comunitaria: anche se in maniera difforme al Nord e al Sud, tale indirizzo ha trasformato tutte le regioni in attori protagonisti nello spazio europeo, con interessanti performance di alcuni enti dell’area centro-meridionale (Abruzzo, Basilicata, Molise).
Con l’acutizzarsi della crisi economica, tuttavia, l’inversione di tendenza che ha cominciato a farsi sentire all’inizio del nuovo secolo ha avuto, paradossalmente, come immediata conseguenza, una drastica riduzione della complessità, a causa dell’imperativo del controllo sulla spesa pubblica nazionale. La crisi ha amplificato i problemi già presenti nelle regioni, incidendo con pesanti tagli di spesa sull’assetto del sistema di gestione dei servizi e di conseguenza sui profili organizzativi del sistema di governance regionale. Parallelamente, l’emanazione di leggi finanziarie mirate al contenimento dei costi e i processi di semplificazione si sono tradotti in un trasferimento di funzioni e risorse verso il centro: un approdo imprevisto, quello più recente della parallela de-complessificazione e ri-centralizzazione, frutto non di un disegno riformatore consapevole, ma di una serie di cambiamenti provocati dalla necessità di risolvere problemi specifici, soprattutto finanziari.
La vicenda delle RSS ci consente di aprire un altro capitolo in questa nostra proposta di lettura del ‘tempo nello spazio’: la riuscita difesa su basi culturali e storico- identitarie del diritto all’autonomia di queste regioni ‘periferiche’ suggerisce di riflettere più in generale su quanto l’agire della regione nel tempo abbia contribuito alla costruzione dello statuto di realtà della regione stessa: producendo storia, si osserva, la regione produce anche se stessa. Se negli anni Ottanta si parlava, a proposito dell’identità regionale, di ‘invenzione’ della regione (anche perché allora gli assessorati alla cultura sembravano interpretare al meglio il desiderio di partecipazione dei cittadini), oggi, in una prospettiva storica, il termine da usare sembra piuttosto quello di ‘costruzione’ della regione come fatto sociale oggettivato, istituzionalizzato, tanto che difficilmente e raramente se ne auspica un ridisegno dei confini. Anzi, persino una istituzione millenaria come la Chiesa cattolica italiana ha colto l’importanza del processo di regionalizzazione dello Stato italiano, riconoscendolo come un dato di fatto e attivando a sua volta, attraverso le Conferenze episcopali regionali, una sorta di ‘federalismo ecclesiastico’, preludio di una serie significativa di intese a livello regionale.
Nei saggi di questa seconda sezione le regioni sono situate nel contesto in cui si sviluppano dinamiche di lungo e medio periodo, antecedenti o contemporanee alla loro costituzione amministrativa. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, lo sguardo degli autori, in modi diversi secondo i fenomeni considerati, si sofferma anche sull’effetto di ritorno che le regioni, ormai incardinate in quel contesto e consolidate come attori istituzionali, hanno prodotto sul territorio, con ricadute, attraverso un processo di ‘autocostruzione’, sulla stessa storia italiana degli ultimi quarant’anni.
L’arco temporale considerato varia secondo il tipo di processo preso in considerazione e in base ai dati e alle fonti disponibili. I cambiamenti demografici, per es., sono colti a partire dall’Unità d’Italia, le trasformazioni della politica sono analizzate dalla costituzione della Repubblica, mentre le tendenze temporali e la variabilità territoriale dei principali indicatori socioculturali sono state analizzate in un arco di tempo più breve, per gli anni, peraltro cruciali, dell’ultimo ventennio. Si tratta, in tutti questi casi, di fornire un quadro delle differenze territoriali più significative a livello infranazionale e anche, dove ciò è possibile, comparativamente agli altri principali Paesi europei.
Individuare convergenze e divergenze, omogeneità e disomogeneità di un territorio tanto lungo come il nostro, e anche un modo inusuale per affrontare il tema dell’identità nazionale, non come essa si manifesta nei suoi aspetti retorici e come discorso (Patriarca 2010), ma sulla base di comportamenti e atteggiamenti concreti che accomunano o dividono gli italiani delle diverse regioni. Ne risulta ampiamente contraddetta quell’apparente monoliticità con cui, nel corso dei secoli, è stato rappresentato il ‘carattere nazionale’ italiano, inteso come base fondativa della vita collettiva della nazione. Esiste infatti una forte diversificazione che riguarda quelle dimensioni più direttamente influenzate dal radicamento nel territorio o dall’azione pubblica. E soprattutto sugli indicatori culturali, dalla morale sociale tradizionale (sposarsi in chiesa, l’immagine della donna, l’atteggiamento verso gli omosessuali, la separazione e il divorzio), alla cultura politica (per es. la fiducia, l’impegno associativo, l’interesse per la politica), ai consumi culturali, compresa la lettura di libri e giornali, che si rileva il maggior livello di diversificazione regionale.
Questa diversità ha pero come ‘sfondo’ un’ampia omogeneità che concerne dimensioni più indipendenti dalla specificità territoriale e dall’azione pubblica. Si tratta di un nucleo di base che riguarda aspetti relativi alla rete di relazioni familiari e amicali, ai comportamenti familiari (l’età in cui ci si sposa e si hanno figli, il numero dei figli), alla proprietà della casa, ai consumi di alcuni beni domestici, alla dieta, all’uso della televisione, alla diffusione dell’automobile, alla propensione a risparmiare e a mettersi in proprio. A queste caratteristiche vanno aggiunte l’elevata soddisfazione per le relazioni familiari e amicali e invece la bassa fiducia nelle istituzioni statali. Gli aspetti che diversificano di più a livello interregionale sono gli stessi che differenziano l’Italia dagli altri principali Paesi europei, dove la diversità regionale risulta comunque inferiore a quella riscontrata in Italia. Nel confronto con l’Europa la geografia economica italiana si caratterizza per un processo di avvicinamento che, negli anni Settanta, porta alcune regioni del Nord a raggiungere i livelli medi europei, e tutte le altre a ridurre le distanze. Se guardiamo poi al lungo arco temporale in cui si evolve la situazione demografica, si osserva, nei primi cento anni dall’unificazione, un processo di convergenza, sia tra le regioni italiane sia dell’Italia con i Paesi dell’Europa occidentale, in direzione di un aumento della speranza di vita dovuto al miglioramento delle condizioni di salute e nutrizionali. In seguito al decentramento del sistema sanitario la differenziazione tra le regioni nelle condizioni di salute è cresciuta, potendosi attribuire la variabilità territoriale al livello di adeguatezza delle strutture sanitarie. La variabilità riguarda anche le dinamiche di declino della fecondità, dei flussi migratori, delle strutture familiari.
Il marcato divario Nord-Sud non sempre si ripresenta nella sua forma tradizionale. Bisogna, anche in questo caso, distinguere le diverse dinamiche considerate. Raggruppando le regioni in base agli indicatori socioculturali, ne emerge una ripartizione in parte nuova in cui la Sardegna e l’Abruzzo passano, perlopiu, dal Sud al Centro-Nord, mentre è il Lazio, in alcuni casi, a ‘scendere’ al Sud. In ogni caso il Sud – in concordanza con quanto emerge dai dati demografici – è l’area in cui resistono la struttura della famiglia tradizionale, una maggiore fecondità, minori scioglimenti coniugali, peggiori condizioni di salute. E, aggiungiamo, resistono anche una cultura tradizionale, scarsa fiducia e partecipazione. Evolutivamente, sul piano demografico, si ripresenta la stessa dicotomia Nord-Sud, in certo senso rovesciata, per via dei flussi migratori in entrata che faranno crescere la popolazione delle regioni del Nord e diminuire, al contrario, quella delle regioni del Sud, riproducendo lo stesso travaso Sud-Nord che aveva caratterizzato l’Italia del secolo scorso. Nel confronto economico con l’Europa a 27, inoltre, alcune province e regioni del Centro-Nord (Bolzano, la Lombardia e l’Emilia-Romagna) seguono a breve distanza le regioni europee in cima alla classifica. All’estremo opposto molte regioni del Mezzogiorno sono su livelli pari alle regioni portoghesi e greche, e a molte dell’Est.
La natura complessa e molteplice dell’identità nazionale, tipica peraltro dei moderni Stati-nazione, nel suo rapporto con la rivitalizzazione del regionalismo e delle identità locali-regionali, si chiarisce e si precisa se ripercorriamo le dinamiche politico-elettorali e quelle, a queste connesse, delle RSS.
È sul piano politico, infatti, che dalla metà del secolo scorso fino alla fine della prima repubblica, la nazionalizzazione della politica a opera dei grandi partiti, lascia il posto a un processo di riterritorializzazione, ossia di forte differenziazione regionale del voto, che modifica in profondità il rapporto tra le istituzioni del centro e quelle della periferia. Il nuovo ruolo del territorio, dunque, si impone in corrispondenza con la disgregazione del sistema italiano dei partiti, il decentramento politico-amministrativo, il risveglio dei regionalismi europei, l’ingresso nel sistema politico italiano di movimenti come la Lega, che a quei regionalismi identitari fanno riferimento. Con gli anni d’oro del regionalismo, in cui l’indice di dissimilarità tra regioni tocca il suo apice, nel 1990-92, in cui aumenta il voto localista e regionalista, si apre una fase di crescente autonomia del voto regionale rispetto a quello politico, evidenziando così l’esistenza di una dimensione regionale autonoma da quella nazionale. Nel periodo successivo, con la seconda repubblica, torna a crescere fino a oggi l’omogeneità territoriale del voto.
Se è vero che l’istituzione delle regioni a statuto ordinario non è stata influenzata dalla necessità di riconoscere la molteplicità culturale che storicamente caratterizza l’identità italiana, un ruolo decisamente più importante lo hanno avuto dunque le dinamiche interne al sistema dei partiti nazionali. La scomparsa dei partiti ideologici tradizionali ha lasciato le classi politiche locali libere di indirizzare la ricerca del consenso attraverso la riscoperta, o sarebbe meglio dire la ‘costruzione’, di identità e diversità culturali di cui farsi difensori/interpreti. È comunque una sorpresa osservare che l’identificazione locale-regionale è tanto forte al Sud (44%) quanto nel Triveneto (42,1%), superando quella nazionale senza peraltro contrapporvisi.
D’altro canto tali tematiche identitarie emerse a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, e legate ai problemi sollevati non solo dal ‘neonordismo’ padano della Lega Nord, ma da fermenti autonomisti di varia natura, ripercorrono le vicende pluridecennali e le esperienze delle regioni a statuto speciale. E in questi territori periferici che resistono culture politiche locali sulla cui base si definisce la loro ‘specialità’, in cui si trovano tutti gli elementi costitutivi dell’identità regionale: territorio, lingua, storia, religione e un sentimento di identificazione collettiva (Woolf 1995). L’analisi di caso condotta su due RSS, Friuli Venezia Giulia e Sardegna, pur nella loro distanza, mostra quanto l’identità regionale sia fortemente correlata all’aspetto storico e linguistico, ma mostra anche che essa, oltre a essere una conseguenza della stessa crisi e scomparsa dei partiti storici, risulta in gran parte una costruzione sia di movimenti sociali sia della classe politica locale e delle politiche attuate dall’istituzione regionale, in particolare quelle in difesa e promozione delle proprie diversità linguistiche. Che si tratti di ‘riscoperta’ o di ‘invenzione’ della diversità culturale e linguistica è comunque sempre in gioco la capacità di costruzione sociale, il potere performativo del discorso pubblico.
Tuttavia l’analisi puntuale dei cambiamenti intervenuti nella composizione e nei processi di reclutamento del ceto politico locale e regionale, con la crescita dell’autonomia attribuita alle regioni, non rivela quelle doti di radicamento e di buon governo che ci saremmo aspettati, ma evidenzia, soprattutto al Sud, gli stessi vizi che affliggono le élites nazionali, più occupate a riprodurre se stesse che a impegnarsi nello sviluppo socio-economico-culturale del proprio territorio. A vent’anni dalla pubblicazione del lavoro di Putnam (1993), non sorprende dunque apprendere che nel periodo in cui più si è sviluppato il decentramento dei poteri pubblici verso gli enti regionali e locali è anche aumentata la distanza nella fiducia verso di essi da parte dei cittadini a seconda del loro territorio di appartenenza, andando nella sostanza a ricalcare la distinzione fra regioni del Centro-Nord con maggiore rendimento istituzionale e realtà del Sud con minore rendimento.
I saggi di questa sezione convergono nel delineare un quadro comparato delle regioni italiane dal punto di vista dei redditi, dei sistemi di welfare, dello sviluppo economico. Anche qui regione è sia ente istituzionale che territorio, mentre l’asse temporale tiene conto del quarantennio di vita delle regioni sullo sfondo del ciclo lungo della storia nazionale. L’insieme conferma che il dato anomalo coincide praticamente da sempre con il divario Nord-Sud; ma fa anche emergere quanto si è già anticipato nella sezione precedente e cioè che nel formarsi, nell’approfondirsi e poi nel consolidarsi del divario, sono entrate in gioco variabili di natura economica e finanziaria, così come politica e sociale. In altri termini il divario nei redditi e nelle condizioni di vita si à combinato con differenze nei modelli comportamentali sia delle istituzioni sia delle famiglie.
Non tutti i saggi qui riuniti sono espliciti o concordi nel ricondurre il divario Nord-Sud a modelli comportamentali storicamente radicati, anzi. Eppure l’eco di Putnam è presente ovunque, seppure utilizzata in maniera rovesciata rispetto al suo punto di partenza, per le ragioni che abbiamo ricordato anche nell’introduzione generale: ciò che per Putnam è dato come uniforme e immobile, una sorta di prerequisito istituzionale comune – le regioni in quanto attori istituzionali – rispetto a cui misurare lo spirito civico, qui è osservato nella sua pluralità e mutabilità storica a opera soprattutto della politica. Rifacendosi a Putnam, Raffaele Romanelli schematizza il divario come una contrapposizione tra «un’organizzazione “orizzontale” dei poteri pubblici, basata sulla fitta rete di istituzioni comunitarie», da un lato, e «una struttura “verticale” nella quale la vita civile della periferia si organizza nel riferimento diretto ai poteri “centrali”», dall’altro (Romanelli 1995, p.176).
Se proviamo ad applicare queste categorie alle ricerche qui presentate, il modello mantiene una certa utilità allorché si considerino la vicenda complessiva del dualismo Nord-Sud nella storia repubblicana e la cultura in cui si iscrivono persino le politiche per attenuarlo. Le politiche adottate sono riconducibili alla modalità ‘verticale’, in ordine sia alle strutture organizzative preposte (direzioni ministeriali, enti pubblici statali o parastatali) sia alle sedi (centri studi dei partiti politici della prima repubblica) in cui si è elaborata nel dopoguerra la strategia dell’intervento speciale nel Mezzogiorno, come parte di un disegno funzionale anche al benessere del Centro-Nord. La speranza che le regioni meridionali potessero accompagnare questo disegno, costruendo e ampliando quel tessuto comunitario ‘orizzontale’ presente in alcune aree del Mezzogiorno già protagoniste delle lotte sociali del secondo dopoguerra, è durata solo lo spazio delle prime legislature.
Questa fase ha coinciso con il prevalere di una cultura tecnica impegnata nell’intervento straordinario (attraverso un’articolazione territoriale della programmazione economica e della pianificazione regionale, consorzi, poli di sviluppo, aree di sviluppo industriale): una cultura erede sia di una peculiare concezione del ruolo dello Stato nelle politiche di sviluppo sia degli stimoli provenienti dalle esperienze internazionali. Nonostante gli elementi distorsivi derivanti dal mancato coordinamento amministrativo tra i vari livelli di pianificazione messi in campo sul territorio, recenti analisi di lungo periodo sul divario Nord-Sud hanno individuato negli anni fra il 1950 e il 1975 l’unico periodo della storia nazionale, a partire dall’Unità, in cui la distanza tra le due sezioni del Paese si ridusse, producendo un processo di convergenza tra le due aree territoriali (Daniele, Malanima 2011). Dopo di allora quel divario è cresciuto, in parte proprio a seguito della nascita delle regioni (a cui venne devoluta la competenza per la pianificazione urbanistica, ma non per lo sviluppo industriale, che rimaneva allo Stato) e successivamente perché con l’integrazione europea e la globalizzazione è risultato sempre meno vero, nella percezione generale e nella realtà di alcune aree, che la crescita del Mezzogiorno fosse davvero così importante per il benessere del resto d’Italia.
Di fronte all’allargarsi del mercato internazionale di riferimento per le imprese del Centro-Nord, il dibattito recente ha chiarito che le politiche speciali per il Mezzogiorno non potrebbero comunque da sole, anche se assai meglio funzionanti, modificare le cose, perché di dimensione troppo modesta. Eppure, nel frattempo, esse hanno contribuito a delineare un quadro metodologico più funzionale a un’azione collettiva e collaborativa con le regioni: l’esperienza dell’ultimo quindicennio (soprattutto in relazione all’utilizzo dei fondi europei) dimostra che è proprio da questa collaborazione che le politiche di sviluppo potrebbero ripartire.
Anche perché ‒ e passiamo ora su un altro fronte di ricerca ‒ come si è già sostenuto, le regioni producono storia, oltre a contenerla, nel loro territorio: quindi producono anche nuovi modi di agire, nuovi modelli di relazioni che intersecano i due assi del diagramma ‘verticale versus orizzontale’. È un fatto che, in maniera originale rispetto agli altri Paesi europei, il completamento dello stato sociale italiano in senso universalistico (era nato come ‘occupazionale’), frutto della riforma del dicembre 1978, avviene contemporaneamente all’avvio del processo di decentramento di una serie importante di competenze alle regioni. L’esito di lungo periodo è stato l’emergere di numerosi modelli di welfare profondamente diversi in relazione al grado di sviluppo, alle dinamiche familiari e alle capacità operative delle diverse regioni. Nel complesso quello che si è andato a costruire negli ultimi vent’anni è stato un sistema sanitario universale su base regionale, che ovviamente ha fatto emergere modelli diversificati in termini sia di governance sia di rapporto fra pubblico e privato. Questo ci porta a dire che il putnamiano asse ‘verticale’, se non è diventato magicamente ‘orizzontale’, si è comunque pluralizzato e diversamente attivato dal punto di vista organizzativo, in rapporto anche alle capacità di gestione amministrativa del territorio. Il caso della Sanità conferma, nel suo ciclo complessivo, i già citati processi di passaggio dal government alla governance e di ricentralizzazione, con sovrapposti gli effetti di una più recente divaricazione nella capacità amministrativa e di governo delle regioni. ‘Aziendalizzazione’ della gestione e ‘regionalizzazione’ del governo della Sanità sono i due tratti salienti introdotti dalla riforma del 1992 e dalle successive modifiche, che hanno progressivamente accresciuto le competenze necessarie per governare sistemi sanitari sempre più complessi e costosi. Lo strumento ordinario delle politiche recenti è costituito dagli accordi, denominati patti per la salute, che definiscono impegni dello Stato e obiettivi, vincoli, incentivi e sanzioni per le regioni. Si nota, tuttavia, che la negoziazione fra gli esecutivi di Stato e Regioni, senza il coinvolgimento delle rispettive assemblee legislative, delinea una sorta di ‘federalismo degli esecutivi’ che comporta evidenti rischi di deficit di democrazia. A conferma di questa tendenza vi è il dato che vede la quota dei consiglieri regionali provenienti dal libero professionismo affiancare e di recente superare quella, tradizionale, dei politici di professione e del lavoro dipendente. È interessante notare che, sia pure con diversi accenti e dimensioni, si tratta di una tendenza che in questo caso accomuna tutte le regioni indagate e i sistemi politici di cui esse sono espressione, e contraddice, o quantomeno appanna, l’idea che la partecipazione agli organi di governo regionale costituisca un terreno privilegiato dei soggetti appartenenti in modo organico alle strutture di partito: se è stato così in passato ora non lo è più e questo apre uno squarcio sul diverso ruolo dei partiti oggi nella formazione delle élites. L’influenza delle differenze nei modelli comportamentali delle famiglie e delle istituzioni sul divario Nord-Sud trova conferma anche se si considera l’altro asse portante del welfare italiano: le pensioni, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella fase del completamento della industrializzazione, come ammortizzatore sociale ovunque, ma in particolare nel Mezzogiorno, consolidando antichi ritardi economici e sociali. La strategia di continua estensione dei benefici pensionistici si è interrotta solamente in occasione della seconda grave crisi che ha colpito il Paese nel 1993, e che ha reso sempre meno governabile il pesantissimo disavanzo dell’INPS. Come si osserva qui, la centralità delle pensioni (letta in alternativa ai servizi per la famiglia, favoriti invece negli altri Paesi europei) sembra il risultato di un duplice ritardo che segna soprattutto il Sud: nell’industrializzazione del Paese e nella conquista di un ruolo sociale da parte delle donne. Anche la sfida della costruzione di un sistema integrato di istruzione e formazione professionale in parte affidata alle regioni si è rivelata troppo onerosa per molte di esse (sempre le stesse) tanto più nel corso della crisi economica internazionale, mentre per poche regioni si è rivelata invece un’opportunità per allineare maggiormente l’offerta formativa alle richieste del mondo del lavoro e far crescere la formazione per il terziario. Questo configura dunque un’Italia divisa anche nell’offerta di istruzione professionale e dunque nella sua capacità di rispondere alle sfide del futuro.
Per tornare e concludere sulla congruità della contrapposizione ‘orizzontale versus verticale’ nell’osservazione del panorama regionale italiano, il caso della distribuzione delle fondazioni bancarie appare paradigmatico di un’azione istituzionale che sapientemente si inserisce in quel retaggio storico che ne sarebbe all’origine. Ciò che immediatamente colpisce chi analizzi la configurazione delle 88 fondazioni bancarie esistenti oggi sul territorio nazionale e la loro distribuzione geografica, fortemente squilibrata, e la loro polarizzazione dimensionale (al Nord si concentrano i 3/4 del patrimonio totale); ora, poiché la distribuzione di questi enti ricalca la distribuzione sul territorio delle antiche Casse di risparmio e dei Monti di pietà, il Sud, dove queste reti orizzontali erano meno diffuse, risulta quasi completamente tagliato fuori. Più di recente si è fatta strada l’opinione che un progetto (politico) di attivazione di tali enti nel Mezzogiorno potrebbe rappresentare uno strumento di incentivazione, anche in quell’area, della sussidiarietà orizzontale e dell’accumulazione di capitale sociale statutariamente iscritte tra i compiti delle fondazioni esistenti.
L’ultima sezione di questo primo volume riunisce saggi e ricerche che affrontano, direttamente o indirettamente, il tema dell’azione degli enti locali nel campo della cultura. Ancora una volta dobbiamo tornare sulla distinzione più volte richiamata della regione come spazio o come attore: questa distinzione è finora risultata utile e relativamente chiara, avendo privilegiato l’ottica della ‘regione istituzionale’. Ora il tema delle politiche culturali regionali apre un’area di riflessione più complessa perché ha a che fare sia con le competenze istituzionali della regione in materia di protezione e valorizzazione del patrimonio culturale in uno spazio determinato (in una relazione dinamica di tipo ‘centro-periferia’ con lo Stato) sia con l’identità culturale di quel territorio e la cosiddetta nozione di regione culturale.
Studi recenti distinguono tra ‘comunità istituzionali’ e ‘comunità culturali’: mentre le prime fondano la legittimità della propria azione sulla base della condivisione, in un territorio riconosciuto, di valori e di norme dell’ordinamento giuridico statale, le seconde sono caratterizzate da individui accomunati dalla presenza di fattori culturali liberamente condivisi in un certo momento storico. Come sappiamo, la non coincidenza tra regione istituzionale e regione culturale ha contraddistinto la nascita stessa delle regioni nel nostro Paese; eppure la storia degli ultimi decenni ha contribuito ad articolare gli spazi reali e simbolici in maniera tale che oggi l’unico confine fermo, forse proprio perché palesemente artificiale, sembra essere quello della regione. Come si e arrivati a questo risultato paradossale?
Cenni sono già stati fatti nelle pagine precedenti (a proposito della Regione che costruisce se stessa), ma qui si vogliono richiamare il contributo che a questa doppia legittimazione è venuto anche dagli organismi sovranazionali e la natura delle sollecitazioni, peculiare e diversa a seconda che il punto d’osservazione sia quello dell’Europa comunitaria o quello, ancora più globale, dell’UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization). Al riconoscimento delle regioni come comunità politico-istituzionali e come quadri territoriali dello sviluppo ha contribuito la Comunità europea, in particolare da quando ‒ lo si è già ricordato ‒ a metà anni Ottanta fu avviata una politica economica imperniata sul ruolo crescente del livello regionale nella programmazione e gestione dei fondi strutturali. Diversa, ma alla fine convergente, è stata l’azione di indirizzo venuta dall’UNESCO che, attraverso i suoi corpi tecnici consultivi (è il caso dell’International council of museums), ha stimolato anche in Italia nuovi dibattiti disciplinari, culminati all’inizio degli anni Novanta in una ‘riscossa identitaria’ di comunità culturali locali insediate in altrettante ‘regioni culturali’ non coincidenti con le ‘regioni istituzionali’. Questi contenuti identitari, tuttavia, sono confluiti nel linguaggio delle classi dirigenti regionali impegnate sulla scena europea e sono stati cruciali sia nella battaglia per il riconoscimento istituzionale comunitario sia nella conquista di nuovi spazi di autonomia per le regioni stesse. A sua volta, il ruolo della regione è stato importante anche nella recente fase di allargamento della nozione di patrimonio culturale in sede UNESCO e delle conseguenti richieste di riconoscimento dei nuovi ‘capolavori del patrimonio immateriale’ oggetto di salvaguardia internazionale sul territorio («Parolechiave», 2013).
La crescente attenzione al tema dell’identità culturale si incontra e si scontra nel caso dell’ente regione con quello che è uno dei suoi compiti costituzionali e cioè l’emanazione di norme. La Costituzione affronta la questione in due articoli, il 9, tra i principi fondamentali, e il 117, nel titolo V. L’articolo 9 conferisce alla Repubblica la tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio, mentre l’articolo 117 assegna alle regioni i musei e le biblioteche degli enti locali. Quando finalmente nascono le regioni l’illusione del cambiamento si somma all’entusiasmo per la possibilità di un rapporto non centralistico con le cose. In realtà, oltre a scontrarsi con la constatazione della diversità delle situazioni regionali, la spinta ideale che aveva indotto a considerare la cultura e il patrimonio artistico come strumenti privilegiati per costruire un’identità che non fosse meramente istituzionale si è via via affievolita: troppo lunga l’attesa di un più organico e sistematico trasferimento di competenze, alla quale sembrò contribuire anche l’istituzione nel 1975 del Ministero per i Beni culturali e ambientali.
L’elaborazione del nuovo titolo V nell’ottobre 2001 non ha risolto, anzi ha complicato la situazione: in omaggio al principio di sussidiarietà, spettano ora alla legislazione esclusiva dello Stato «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» e alla legislazione regionale «valorizzazione dei beni culturali e ambientali». Nella distinzione impossibile tra tutela e valorizzazione (e quindi tra le relative competenze), il contrasto (e il contenzioso) tra Stato e Regioni si è, in buona sostanza, aggravato come effetto della riasserita centralità del Ministero in materia di ambiente; quanto ai beni culturali, si conferma l’incolmabile distanza fra le elaborazioni di norme e strumenti istituzionali e le istanze concrete della gestione del patrimonio materiale.
La parola gestione intesa come management ci sposta su un terreno di discussione più vasto, aperto al confronto internazionale e proiettato sul futuro. Proprio per questo è importante avere ben presenti due caratteristiche distintive e costitutive del patrimonio culturale del nostro Paese, frutto di un passato secolare. La prima riguarda la formalizzazione giuridica della nozione di Beni culturali: l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo in cui la conservazione del patrimonio culturale compare tra i principi fondamentali della Costituzione come un dovere dello Stato: in Italia il bene culturale è un costrutto giuridico. La seconda riguarda una cultura della conservazione che si è formata nei secoli (a partire dagli Stati preunitari), alla quale dobbiamo la grandezza odierna del patrimonio italiano: molto attenta e sofisticata, «ha valorizzato i singoli monumenti, grandi e piccoli, come parte di un insieme incardinato nel territorio, di una rete ricca di significati identitari, nella quale il valore di ogni singolo monumento od oggetto d’arte risulta non dal suo isolamento, ma dal suo innestarsi in un vitale contesto» (Settis 2002, p. 5). In questo quadro si spiega il sistema di amministrazione dei beni culturali, basato sul forte ruolo dell’amministrazione centrale (il ministero) e del suo complesso apparato locale (le soprintendenze). E si spiega anche la difficoltà a intervenire sulla centralizzazione amministrativa, pilastro della conservazione del patrimonio, proprio per il timore che il trasferimento di autorità da un centro a numerose periferie (le regioni) porti a diminuire i meccanismi di controllo professionale senza aumentare l’efficienza della gestione. È guardando al passato che in questo campo la ricerca di soluzioni per una riforma dell’amministrazione si orienta verso forme di decentramento organizzativo piuttosto che puramente geografico.
La riforma del titolo V del 2001 prevede anche che l’ambito della «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali» sia incluso fra quelli di «legislazione concorrente» per i quali «spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato». Questo significa, per es., che, una volta che le biblioteche pubbliche sono state inserite nella cornice dei beni culturali (come e formalmente avvenuto con la riforma), si è aperta per le regioni la possibilità di spostare anche i finanziamenti per questi servizi su iniziative ‘effimere’ per acquisire maggiore visibilità e più risorse. Se si guarda oggi, quasi a meta del secondo decennio del 21° sec., all’intera vicenda, si può giungere alla conclusione (come si fa in questa sezione) che nel 1972, l’anno del trasferimento delle soprintendenze bibliografiche alle regioni a statuto ordinario, si è persa l’opportunità di sviluppare e governare le biblioteche come un servizio al cittadino: un servizio inserito nell’ambito dei ‘servizi sociali’, essenziale per la crescita civile di un Paese ancora oggi caratterizzato da una condizione di arretratezza e di ignoranza.
Si è già accennato al peculiare legame che le istituzioni culturali eredi della lunga e vivace storia culturale del nostro Paese mantengono con il territorio. La ricerca di una chiara distinzione in questo campo tra competenza dello Stato e competenza delle Regioni, se si scontra da un lato con una difficoltà complessiva a gestire il patrimonio nazionale, dall’altro tende anche a ignorare gli effetti dell’evoluzione che il concetto stesso di patrimonio culturale ha conosciuto negli ultimi decenni. Consideriamo il caso dei musei degli enti locali: questi, nati tra la metà e la fine dell’Ottocento, hanno storicamente costituito ‒ con la biblioteca, l’archivio e il teatro, le istituzioni culturali presenti nelle medie e grandi città – un museo ‘territoriale’ che ha origine e si alimenta dei beni provenienti da un contesto che è comunque di prossimità e che ne rispecchia la storia e le tradizioni. Il recente dibattito sull’identità culturale mostra la presenza di una ancora più ricca domanda di conservazione di cultura proveniente dalla cittadinanza, che incontra tuttavia difficoltà a essere accolta e riconosciuta, anche perché non trova un quadro di sistemi locali integrati in grado di superare la storica distinzione tra istituti statali, regionali, provinciali, comunali.
Analoghe considerazioni sulla lunga durata di sedimentazioni istituzionali di cultura sul territorio si possono avanzare prendendo in esame il tema della diffusione e del sostegno allo spettacolo da parte delle regioni: nell’esperienza storica italiana lo spettacolo dal vivo è sempre stato radicato nel proprio territorio. La divisione preunitaria del Paese in un variegato ventaglio di strutture istituzionali (regni, ducati e altro) si ritrova tuttora nell’aggregazione regionale di una infrastruttura teatrale, notevole dal punto di vista architettonico e artistico così come efficace sotto i profili tecnici: intere citta e aree geografiche sono segnate da una storia teatrale unica, che in molti periodi ne ha fatto dei veri e propri poli di attrazione per artisti internazionali e che ancora oggi mostra, nei dati sul mercato dello spettacolo, un sostanziale equilibrio della ripartizione regionale. Con una preponderanza numerica del Centro-Nord che si conferma anche se guardiamo alla diffusione degli istituti culturali sull’intero territorio nazionale: di nuovo una caratteristica che rappresenta una vera peculiarità nel panorama europeo. Percorrendo la genesi degli istituti di cultura, a cominciare dalle vicende preunitarie (accademie e società di storia patria), si osserva inoltre l’unicità di alcune strutture a rete che sono emerse nel secondo dopoguerra, accanto agli spazi regionali, in risposta a una domanda estesa di conservazione e diffusione di un materiale archivistico e documentario non legato alle sedi pubbliche istituzionali.
Quanto detto fin qui ci porta a concludere la premessa al primo volume con una riflessione sugli archivi, che rappresentano il sedimento della memoria storica del Paese e dunque anche dei suoi mutamenti. Formalmente il modello istituzionale di conservazione archivistica è stato il meno toccato dal legislatore nel 1972: allora, tuttavia, la legge aprì uno spazio possibile che le regioni riempirono in maniera difforme, in relazione sia alla volontà politica dimostrata dalle nuove classi dirigenti di incidere su questo settore, sia alla vivacità locale e alle tradizioni culturali presenti storicamente sul territorio. A distanza di circa quarant’anni, il panorama archivistico italiano appare molto cambiato nella fisionomia reale della mappa della conservazione: si è prodotto un mutamento nella rappresentazione documentaria del potere pubblico sul territorio. E risulta che sono state proprio le regioni tra i protagonisti della trasformazione della mappa conservativa, non solo in quanto nuovo soggetto produttore e conservatore, ma anche perché hanno sollecitato la pluralizzazione archivistica e sostenuto il protagonismo degli enti locali nel campo delle politiche culturali attraverso normative e contributi finanziari. Tutte le regioni italiane sono intervenute nel settore archivistico: anche in questo campo emerge tuttavia la presenza di una ‘questione meridionale’ che si caratterizza non tanto per la carenza di fondi destinati alle regioni del Sud, quanto per mancanza di progettualità e di programmazione. Si tratta di una conferma imprevista della tesi già citata di Putnam a proposito del ruolo svolto dalla civic community: le regioni che determinano le linee di sviluppo, che investono in progettualità sono quelle che, per tradizione storica, vedono un protagonismo della società civile nel farsi carico di iniziative nonché la presenza di istituti archivistici statali che, con il peso della loro tradizione e vivacità culturale, hanno inciso nella creazione di circuiti virtuosi.
Più lo sguardo dell’osservatore si avvicina al territorio, più scopre che la domanda di riconoscimento da parte della società cresce, si articola, si pluralizza. Come? E questo l’oggetto dei volumi successivi.
R.D. Putnam, Making democracy work. Civic traditions in modern Italy, Princeton 1993 (trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano 1993).
R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di R. Romanelli, Roma 1995.
S.J. Woolf, La Valle D’Aosta: modello di un’identità proclamata, in Storia d’Italia, coord. R. Romano, C. Vivanti, Le regioni dall’Unità a oggi. La Valle d’Aosta, a cura di S.J. Woolf, Torino 1995, pp. 1-47.
S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino 2002.
K. Schlögel, Im Raume lesen wir die Zeit. Über Zivilisationsgeschichte und Geopolitik, Munchen 2003 (trad. it. Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica, Milano 2009).
S. Patriarca, Italianità: la costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari 2010.
V. Daniele, P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia, 1861-2011, Soveria Mannelli 2011.
«Parolechiave», 2013, 49: Patrimonio culturale.