islamismo
Termine usato, in contesto religioso, quando si vuole indicare la religione fondata in Arabia nel 7° sec. da Maometto (Muhammad), e in contesto sociopolitico quando si fa riferimento al sistema sociale, culturale e politico che afferma di assumere dall’islam i suoi principi. L’ambivalenza fra religioso e civile viene considerata caratteristica della civiltà islamica; i due piani, religioso e socio-politico, vanno comunque distinti.
La prima conquista arabo-islamica, che va dalla morte di Maometto (632) alla fine del califfato omayyade (661-750), permise l’espansione dell’i. fino all’Asia centrale e all’Atlantico, inclusa la Penisola Iberica sottratta ai visigoti. L’impero musulmano unitario raggiunse con gli Omayyadi la sua massima espansione. Successivamente non mancarono ulteriori conquiste anche nel Mediterraneo. Fra l’827 e il 902 gli arabi si impadronirono della Sicilia e la tennero fino al 1091, anno della conquista normanna. Nell’847 erano giunti a minacciare la stessa Roma. Tuttavia nel corso del califfato abbaside (750-1258), perduto il carattere puramente arabo, aumentarono gli influssi di altre culture (persiana e turca) e si accentuarono le tendenze autonomistiche in alcune regioni, cosicché il califfato abbaside perse la sua unità politica. Nel 10° sec., i turchi (Selgiuchidi) delle steppe dell’Asia centrale si convertirono a contatto con l’Iran e conquistarono l’Anatolia. Sempre dall’Asia centrale e per opera di altre popolazioni turche avvenne nel sec. 11° la conquista dell’India. Per via commerciale l’i. comparve nell’Africa subsahariana (11° sec.), nell’Africa orientale (12° sec.), nel Sud-Est asiatico, dove l’islamizzazione si propagò da Sumatra a partire dal 13° secolo. L’islam si diffuse successivamente anche in Africa meridionale (19° sec.), in Europa per flussi migratori e negli USA. All’inizio del 21° sec. l’i. appare in espansione, non soltanto a causa della crescita demografica nei paesi a maggioranza islamica, ma anche in zone come l’Africa subsahariana e, in parte, in alcuni Stati asiatici un tempo appartenenti all’Unione Sovietica. A causa dei flussi migratori l’i. si sta ulteriormente diffondendo anche in diversi paesi dell’Europa occidentale, come in Francia, Germania, Regno Unito e, più di recente, in Italia.
Basandosi sul principio che i musulmani, se liberi, sono tutti uguali, senza distinzione di razza e di lingua, e che un infedele non può avere autorità su un musulmano, la concezione politica dell’i. raffigura il mondo diviso in due parti: Paesi dell’islam (dar al-islam), ossia l’insieme dei Paesi dei musulmani, e Paesi di guerra (dar al-harb), abitati e governati da infedeli. All’inizio si cercò di realizzare l’idea di una monarchia islamica, a capo della quale era il califfo, che, privo di potere in campo dogmatico e legislativo, deteneva però quello esecutivo. Intorno al 10° sec. iniziò il processo di smembramento del califfato che favorì l’autonomia della maggior parte dei Paesi musulmani (➔ Abbasidi; Omayyadi). L’effettiva decentralizzazione trovò un ideologo in Ibn Taimiyya, che affermò essere legittima la pluralità di sovrani. Tuttavia permase a lungo una spinta verso formazioni unitarie di tipo imperiale. Un esempio si ebbe nel 16° sec., quando l’ecumene islamica vide affermarsi tre grandi imperi, quello ottomano, quello mughal in India e quello safavide in Iran. Il sultano ottomano e il mughal, così come lo scià in Iran, si posero oltre che come «sovrani di fatto» anche come paladini della fede, arrogandosi alcune delle prerogative tipiche del califfo. Nell’Ottocento, durante il periodo coloniale, i vari ideologi musulmani posero la questione del potere in risposta alla doppia esigenza di recuperare l’indipendenza perduta e di far fronte alla modernizzazione cui, sia pure con ritardo, i Paesi musulmani non potevano sottrarsi.
È inconcepibile ideologicamente, al limite dell’illegalità da un punto di vista giuridico per il credente musulmano, essere suddito, in maniera stabile, di uno Stato il cui sovrano non sia anch’egli musulmano. L’esperienza coloniale provocò di conseguenza una serie di reazioni di cui si ebbero i primi segnali già a fine Ottocento, e che esplosero in modo più vistoso dopo la Seconda guerra mondiale. L’esigenza di dare risposta all’Occidente coloniale si pose in primo luogo là dove la presenza europea era più consistente, come in India, dove i musulmani rappresentavano il rivale più pericoloso per il dominio britannico. Proprio in India, alla fine dell’Ottocento, apparvero le prime grandi figure di riformatori, tra cui Ahmad Khan, Amir Ali (➔ Khan, Sayyid, Ahmad) e Muhammad Iqbal, i quali, accettando le categorie politiche e culturali attraverso cui il Paese colonizzatore studiava la civiltà islamica, prima fra tutte la strutturale vocazione integralista dell’islam stesso, propugnarono una nuova applicazione dei principi dell’islam in funzione della società moderna. Sebbene non direttamente legato all’India, Jamal al-Din al Afghani è la figura più emblematica di questo periodo; egli teorizzò un ritorno al puro spirito dell’islam, rifiutando la contraddizione tra l’essere credente e l’essere moderno. Il progresso, egli affermava, passa attraverso il vero islam. Di qui la teorizzazione di un movimento ideologico, il «panislamismo»: la comunità dei credenti, la umma, rappresenta il soggetto per eccellenza; essa è una e si definisce come «nazione islamica». Tutto ciò era propedeutico alla costruzione di uno Stato islamico unitario, che poteva realizzarsi una volta superata la presenza straniera nei Paesi musulmani. Il mondo islamico era in quel momento ancora saldamente ancorato alle sue radici, e là dove l’esperienza coloniale era meno diretta, come in Iran, si costituì, sul corpo dell’islam sciita, una vera ipotesi rivoluzionaria con il babismo. Anche in Egitto, dove l’occupazione inglese risaliva al 1881, le istituzioni musulmane (fra cui l’università di al-Azhar) si ristrutturarono, aprendosi alla tecnologia e alla scienza, nella prospettiva di formare la nuova élite musulmana. Lo stesso accadde nella Penisola Arabica, dove già alla fine del 18° sec. prese vita un movimento, il wahhabismo, che intendeva ritornare a un’interpretazione letterale del Corano per combattere la corruzione e con essa le cause di un ritardo storico e sociale.
La Prima guerra mondiale, la caduta dell’impero ottomano e la penetrazione sionista in Palestina intervennero a modificare il panorama arabo-islamico. Sia per influenza esterna sia per processi instauratisi nei diversi Paesi comparve sulla scena del mondo islamico il nazionalismo. Il fatto non era privo di conseguenze: considerare l’esistenza della nazione come soggetto politico e ipotizzare la necessità che questa si esprimesse istituzionalmente attraverso uno Stato nazionale, significava contraddire in profondità alcuni assunti della civiltà musulmana. Infatti soggetto politico per eccellenza avrebbe dovuto essere la comunità, la umma, e la formula statuale ideale quella del califfato. Ritorno auspicato già alla fine del 19° sec. dal Mahdi in Sudan e poi riproposto agli inizi degli anni Venti del 20° sec. nell’impero ottomano, prima che venisse proclamata la Repubblica turca, e in India, dove vi era una forte discriminazione nei confronti dei musulmani, come unica soluzione di tutti i problemi. Sul piano politico però l’idea califfale non ebbe concreto sviluppo e il problema di rapportarsi al nazionalismo e al modello di Stato-nazione rimase aperto. Schematizzando, due sono state le vie percorse per ottenere l’indipendenza (siamo in epoca dei mandati nel Medio Oriente e dell’occupazione nel Maghreb): la prima, quella dei nazionalisti che, pur parlando di una etnia o di un popolo o di uno Stato, e non di una confessione, sostenevano che l’islam fosse elemento irrinunciabile di identità, non in quanto religione, ma proprio in quanto civiltà; la seconda, che ha visto teorizzati tre livelli di appartenenza: allo Stato per cui si lotta; all’etnia (araba, turca o altre), in base alla quale ci si identifica come nazione e dove la comunanza di lingua diventa sostanziale; alla comunità islamica che ingloba i precedenti livelli, per cui la fedeltà a essa non si pone in alternativa ai doveri verso la nazione e lo Stato. Partendo da questi presupposti il mondo musulmano prima ha combattuto la sua battaglia di emancipazione e poi ha tentato di portare a termine l’esperimento nazionale per uscire dal sottosviluppo e dal ritardo storico. Rientrano in questo esperimento vari tentativi di politiche di socialismo di Stato e di potenziamento delle economie nazionali. Una serie di insuccessi ha riaperto il problema del rapporto tra islam e nazionalismo.
Le idee socialiste cominciarono a penetrare nel mondo musulmano a partire dall’Ottocento, grazie a quegli intellettuali europei intenzionati a svolgere un ruolo antitetico a quello propugnato dagli Stati coloniali, grazie all’opera di minoranze colte locali (ebrei e cristiani soprattutto) venute a contatto con l’Europa, grazie infine ai contatti con Paesi in cui tali idee hanno avuto un loro sviluppo endogeno (si pensi per es. all’Iran). Non è però mai esistita una consapevolezza diffusa di queste idee, che agli occhi di molti sono state assimilate all’imposizione di modelli operata dal colonialismo. Il successivo processo di modernizzazione non è avvenuto infatti grazie a un’opera di coinvolgimento delle masse nei progetti coloniali, ma attraverso l’occidentalizzazione di élite divenute interlocutrici principali dell’Occidente, anche quando nel loro interno avevano preso corpo rivendicazioni nazionalistiche. Al socialismo si rimprovera l’ateismo e l’abolizione della proprietà privata, che supera l’egualitarismo propugnato dall’islam (tutti uguali davanti a Dio e tutti solidali al di là delle appartenenze sociali in nome del bene della comunità da perseguire prioritariamente). Il socialismo di Stato, come quello di A.G. Nasser in Egitto, fu motivato come un’alternativa possibile al socialismo marxista. In base a varie elaborazioni fu definito socialismo islamico e/o arabo. Ma si sono tentate anche altre soluzioni. Nell’Asia sovietica, nel periodo della Rivoluzione d’ottobre, alcuni musulmani fecero proprio il messaggio rivoluzionario e, constatando che il mondo musulmano apparteneva all’area del sottosviluppo, teorizzarono un’equiparazione tra musulmani e proletariato e lanciarono lo slogan, contestato dal potere sovietico, «musulmani di tutto il mondo unitevi!». L’esperimento ideologico si dimostrò interessante, ma con poca aderenza politica. Diverso invece il tentativo di sostenere che il socialismo marxista non era necessario all’islam, in quanto quest’ultimo aveva in sé la risposta ai problemi che il socialismo avrebbe dovuto risolvere. Da un lato, fu rivendicata la concezione che vuole Dio unico proprietario del creato di cui l’uomo è solo usufruttuario pur riaffermando la legittimità della proprietà privata; dall’altro lato, fu interpretato il precetto della zakat, l’elemosina canonica, come un diritto del povero nei confronti dei beni del ricco. Tale precetto era destinato a far circolare la ricchezza, a evitare la lotta di classe, a mantenere l’equilibrio sociale senza riduzioni di tipo comunistico. Analogamente le norme preposte dal Corano all’eredità furono considerate come il meccanismo più idoneo a evitare la formazione di grandi proprietà. Tuttavia, in base a quanto detto e ai vari esperimenti socialisti, appaiono in modo irrevocabile le contaminazioni tra socialismo e islam.
L’i., attraverso i suoi vari movimenti, negli ultimi decenni si è posto un compito fondamentale: riprendere il ruolo di motore della storia e ricostituire in unità il mondo musulmano, al di là delle differenziazioni geoeconomiche, sociali ed etnoculturali presenti al suo interno. A partire dalla fine del 20° sec. nei movimenti islamici sono emersi diversi filoni, con diverse impostazioni ideologiche e prospettive politiche: il filone del modernismo, che postula la necessità di ritornare alle fonti autentiche dell’islam, negando il deposito della tradizione che ne ha oscurato il significato essenziale; il filone del riformismo, che preconizza l’esigenza prioritaria di una revisione dell’apparato istituzionale-giuridico per poterlo definire musulmano; il filone del fondamentalismo, quando più accentuata appare l’esigenza di formulare l’islam come sistema totalizzante. Tra i vari filoni ovviamente non mancano intrecci e interconnessioni. A ciò va aggiunto che tutti i movimenti islamici contemporanei teorizzano la necessità di un’alternativa all’Occidente. Sugli strumenti per realizzare i propri obiettivi si registrano due atteggiamenti dominanti. Il primo riguarda la ripresa del jihad. Il secondo atteggiamento privilegia invece l’azione politica, la mediazione, la sistematica organizzazione delle forze in campo al fine della presa, o del rovesciamento, del potere. Mentre nel primo caso siamo di fronte a organizzazioni movimentistiche, nel secondo abbiamo veri e propri partiti, inseriti, o aspiranti a inserirsi, nel sistema politico vigente del Paese in cui operano. Anche qui peraltro non mancano intrecci e sovrapposizioni tra le diverse istanze; esemplari a tale proposito i casi di Hamas in Palestina e degli Hizbullah libanesi. Già negli anni Settanta e Ottanta del 20° sec. alcuni leader avevano teorizzato, in nome dell’islam, strutture da porre alla base, per lo meno in teoria, della loro autorità. I casi più vistosi sono stati quello libico e quello iraniano. Gheddafi formulò nel Libro verde una sua teoria, «la terza teoria universale», indicante quell’alternativa all’Occidente cui l’islam aspirava. Analogamente Khomeini propose una sua teoria del potere, sostenendo di desumerla da un movimento minoritario dell’islam, quello degli sciiti, e delineando un modello di tipo parlamentare, col correttivo fondamentale del controllo esercitato dall’uomo di religione sulla congruenza tra quanto viene proposto e l’autentico spirito dell’islam. Tuttavia ben presto la rivoluzione islamica iraniana manifestò i suoi limiti, e l’i. radicale dovette avviare una profonda revisione. Negli ultimi anni del 20° sec. emerse dunque quello che alcuni studiosi definiscono neofondamentalismo, il cui carattere principale era di tipo ideologico e politico più che religioso, e che anzi rivelava un ulteriore allontanamento dai presupposti tradizionali dell’islam. Tramontato il progetto di Stato islamico, le organizzazioni più radicali cominciarono ad attuare azioni clamorose e di forte impatto mediatico, allo scopo di accreditarsi come i veri difensori dell’islam e di delegittimare i regimi più legati all’Occidente. Ne derivò un progressivo declino delle istanze nazionali, mentre emergeva con sempre maggior forza il carattere internazionale e antioccidentale dell’azione islamista. Protagonisti di questa nuova tendenza furono il saudita O. Bin Laden e l’egiziano A. al-Zawahiri, entrambi attivi nella lotta armata contro i sovietici in Afghanistan negli anni Ottanta. La svolta si concretizzò in azioni militari e attentati terroristici di particolare rilievo, come gli attacchi contro militari statuniten;si a Mogadiscio (1993) e in Arabia Saudita (1996), e gli attentati contro le ambasciate USA in Kenya e in Tanzania (1998). Nello stesso 1998, Bin Laden e al-Zawahiri proposero la costituzione di un Fronte islamico internazionale contro gli ebrei e i crociati, la cui intenzione proclamata era quella di riscattare l’antica subordinazione all’Occidente, ma la cui finalità immediata rimaneva l’abbattimento di alcuni regimi islamici collusi con l’Occidente stesso. Sul fronte opposto, andava intanto delineandosi l’arcipelago dell’i. moderato: partiti, associazioni, organizzazioni non governative e intellettuali ostili alla violenza armata. Pur potendo contare su una base sociale ampia, nei primi anni del 21° sec. questi movimenti sono apparsi di fatto impotenti, così come molti islamisti-riformisti, i cui tentativi di coniugare elementi della civiltà occidentale con quelli caratteristici della civiltà islamica si sono rivelati inadeguati. Particolare, infine, è lo scenario dell’islam trapiantato in Occidente. Le comunità musulmane immigrate in Europa o in America sembrano infatti strette fra il richiamo delle origini e il desiderio di integrazione, e in questo sincretismo vanno delineando una nuova identità. Delusi dall’immobilismo dei loro Paesi d’origine, ma intenzionati a non omologarsi alle società in cui vivono, molti giovani musulmani scelgono la via di una comunità virtuale, realizzata magari attraverso Internet. Ma ciò che ne deriva è di solito un islam convenzionale, piuttosto lontano dalla religione tradizionale. Quest’ultima sopravvive invece nel mondo del sufismo e delle confraternite, che ancora gode di ampi consensi nelle società musulmane, grazie alla sua malleabilità, per cui la difesa dei principi è accompagnata da una certa apertura alle innovazioni prodotte dagli sviluppi storici.
Due erano le matrici fondamentali alla base dei movimenti egemoni alla fine del 20° sec., il wahhabismo e al-Ikhwan al-muslimun (➔ Fratelli musulmani). In tutti i Paesi musulmani esistevano organizzazioni tendenti all’instaurazione di uno Stato islamico, sia pure con caratteri diversi a seconda del contesto socioeconomico e nazionale. Si può affermare però che i partiti erano presenti dove la tradizione dello Stato, uno Stato di modello europeo, era più forte (Turchia, Pakistan ecc.), mentre i movimenti trovavano un terreno più fertile là dove lo Stato era più debole, o dove l’autorità era rappresentata da istituzioni che non sempre si identificavano con l’apparato statale (Marocco, Siria ecc.). Nel panorama generale di queste organizzazioni vi erano alcuni punti comuni: partiti o movimenti che ipotizzavano l’ascesa al potere con la forza, compresa un’eventuale azione terroristica, quali i vari Hizb Allah «Partito di Dio» (nati a seguito della rivoluzione iraniana in Libano, in Afghanistan, ecc., spesso ideologicamente legati all’Iran e da esso finanziati), il movimento egiziano radicale Takfir wa hijra «Anatema e ritiro» (fondato in Egitto nel 1977 e legato a Sayyid Qutb) e i movimenti che propugnavano una presa del potere attraverso uno svolgimento democratico e che affermavano di volere mantenere, una volta al potere, delle strutture democratiche rivisitate alla luce dell’islam. Tra questi ultimi, il Fronte di salvezza islamico (FIS) in Algeria, la Jama’ at-e islami in Pakistan, fondata nel 1941 da Abu l-A‘laMawdudi (m. 1979). Si presentavano differentemente quei movimenti legati a confraternite e organizzazioni religiose che miravano a ricostituire una rete di interessi basati su antiche istituzioni musulmane waqf. È il caso del movimento dei Nurcu «Seguaci della luce», fondato dal curdo Sayyid-i Nursi (1876-1960) in Turchia, e delle varie associazioni giovanili presenti ovunque nel mondo musulmano. Esempio particolare era quello del Sudan, dove le logiche del potere prevalevano sul dato ideologico e dove l’affermazione politica della branca locale di al-Ikhwan almuslimun, sotto la guida di Hasan Abd Allah at-Turabi, e quella del movimento degli Ansar, presentavano caratteristiche ancora differenti. L’appartenenza alla sunna o alla shi a dei membri di tali movimenti non aveva invece grande rilevanza sul piano teorico. Il movimento-partito Amal «Speranza», fondato dall’imam Musa as-Sadr in Libano nei primi anni Settanta, si rivolgeva infatti agli sciiti e intendeva promuoverne gli interessi, ma non qualificare come sciita la sua azione politica. Più complesso appariva invece il rapporto tra nazionalismo e i., se si analizzano quei movimenti che hanno preparato la rivoluzione iraniana, come i mujiahidin (propr. «coloro che combattono il jihad») del popolo, nati nel 1965 circa, in seguito a una frattura in seno al Movimento di liberazione nazionale, che scelsero la lotta armata agli inizi degli anni Settanta. I mujiahidin si ispiravano alle idee dello sciita Ali Shari ati, il quale teorizzava la shi a come un partito-sistema completo e perfetto, il cui spirito era stato tradito dai regimi sciiti che si erano susseguiti in Iran. Proprio ai mujiahidin dobbiamo comunque il primo approccio marxista nell’analisi della realtà. A questo movimento si unirono organizzazioni diverse, sunnite e sciite, che propugnavano strategie e finalità diverse. Il quadro mutò negli ultimi anni del 20° sec. Alle spalle del Fronte islamico internazionale costituito da Bin Laden e al-Zawahiri (1998) c’era il nuovo protagonista dell’i. radicale estremo, al-Qa‛ida (ar. «la base»). Le sue origini vengono fatte risalire alla creazione da parte di Bin Laden di un database (in arabo qa‛ida al-ma‛lumat) contenente i dati dei militanti e delle organizzazioni con cui era entrato in contatto durante la guerra antisovietica in Afghanistan. Attorno a questo nucleo andò quindi costituendosi un’organizzazione, sebbene dai caratteri piuttosto atipici e dalla struttura abbastanza leggera, costituente in una serie di legami e contatti di varo genere, attivati di volta in volta in vista delle singole azioni da effettuarsi; una struttura a rete che ben si adatta all’attuale fase dello sviluppo tecnologico e comunicativo. L’esigenza di visibilità di al-Qa‛ida, e dunque la necessità di realizzare azioni sempre più eclatanti, portarono al clamoroso atto terroristico dell’11 settembre 2001 contro le Torri gemelle di New York. Gli attentati ebbero una risonanza globale, innescando effetti politici internazionali di vasta portata. Ma soprattutto veniva raggiunto uno dei principali scopi dell’azione, ossia la crescita vertiginosa della popolarità di al-Qa‛ida e di Bin Laden. Successivamente le azioni terroristiche proseguirono, sia contro i Paesi occidentali, con gli attentati di Madrid (2004) e di Londra (2005), sia in Paesi musulmani: a Bali (2002), Casablanca (2003) e Istanbul (2003). Questa escalation terroristica non ha però guadagnato al radicalismo islamista fette rilevanti delle società musulmane; queste ultime, d’altra parte, sentendosi minacciate dalla durezza delle reazioni occidentali, hanno sviluppato una notevole diffidenza nei confronti delle riforme imposte dall’esterno. Paradossalmente, ne è derivato dunque un ulteriore rafforzamento dei regimi locali, che hanno potuto intensificare la repressione delle opposizioni islamiste in nome della lotta al terrorismo, rimandando nello stesso tempo le riforme di tipo politico, viste o presentate come subalternità all’Occidente o imposizioni di quest’ultimo. Un ulteriore paradosso è costituito dal fatto che talvolta questi regimi vengono definiti come moderati, solo perché alleati dell’Occidente sul piano economico o geopolitico. Tipico in questo senso il caso dell’Arabia Saudita, la cui casa regnante è fortemente influenzata dalla setta wahhabita e da un fondamentalismo ostile a ogni modernizzazione. Nel mondo islamico è infine in corso un serrato dibattito sul concetto della guerra legittima (jihad). Inteso nell’accezione moderna di lotta armata contro i poteri costituiti, il jihad è stato condannato dai wahhabiti, soprattutto per motivi di opportunità politica, mentre l’i. estremista lo ha riproposto, facendone il centro del suo messaggio.