ISHTAR
− Nome semitico della sumerica Innin, Inanna (da Ninanna(k) "signora del cielo"). I. era la più importante divinità femminile mesopotamica, la cui natura e i cui attributi variarono a seconda del tempo e del luogo.
Centro del suo culto era la città di Uruk, dove la dea aveva un tempio famoso, l'é-anna ("casa del cielo"), ma in seguito il suo culto si diffuse in tutta la Mesopotamia. Intorno al 3000 a. C. la dea di Uruk era venerata come fecondatrice delle greggi, insieme al suo compagno Dumuzi (più tardi Tammuz): col riaffermarsi dell'economia agricola, il concetto di fecondità fu applicato all'agricoltura: Inanna era la dea della vegetazione e Dumuzi, il dio che muore e risorge, ne raffigurava il periodico appassire e rifiorire. La natura guerriera di I. comparve verso la metà del III millennio a. C., mentre assai più tardo fu il processo di astralizzazione che la dea, al pari di altre divinità, subì per probabile influsso semitico. L'originario carattere naturalistico di Inanna, del quale il simbolo che la rappresenta (il fascio di canne che corona superiormente l'ovile) è eloquente segno, non si spiega facilmente col nome della dea, né chiaro è il rapporto che unisce questa col dio del cielo An, il cui nome è contenuto in quello della dea e che nella medesima città di Uruk godeva di un favore quasi pari a quello di Inanna. È possibile, come in un recente studio afferma T. Jacobsen (Zeitschrift f. Assyriologie, 1957, p. 108), che la parola an vada intesa in un senso diverso da quello usuale (per Jacobsen "grappolo di datteri"); certamente il problema dell'origine di questa divinità femminile, che non è possibile identificare con la "grande madre" preistorica e che ultimamente si è voluta sdoppiare, almeno nel nome, in Innin e Inanna (I. J. Gelb, in Journal of Near Eastern Studies, 1960, pp. 72-79), permane tuttora assai complesso e in definitiva insoluto.
I diversi caratteri di Inanna-I., quali sono stati delineati, corrispondono all'evoluzione subita dal tipo iconografico della dea; occorre tuttavia precisare, a questo punto, che una netta caratterizzazione di questa, specialmente per l'epoca più antica, oltre che praticamente impossibile a farsi, non si può giustificare storicamente, poiché l'acquisizione di caratteri specifici si attuò progressivamente (e mai in maniera completa) a mano a mano che il pensiero teologico della religione ufficiale (non sempre corrispondente a quella effettivamente seguita dal popolo) cercava di coordinare in una visione unitaria il pantheon e le concezioni relative alle singole divinità. In secondo luogo non sempre è possibile stabilire con esattezza l'identità di una determinata raffigurazione, perché anche altre divinità femminili, quali Nisaba, Nana e Ninkhursag, ancorché meno diffuse, condividevano con manna-I. attributi e iconografia: in altri termini, erano altre personificazioni dello stesso concetto che ad Uruk era personificato da Inanna. Dal punto di vista iconografico ciò ha tuttavia un'importanza relativa, dato che esisteva un'iconografia specifica non per ogni singola divinità; bensì per ogni aspetto religioso, aspetto che poteva essere presentato anche da divinità nominalmente diverse.
Nella letteratura mitologica Inanna-I. compare largamente in due componimenti: nel Poema di Gilgamesh ella chiede all'eroe di divenire suo sposo, ed al rifiuto avutone manda contro di lui il "toro celeste" che viene ucciso; nella Discesa di Inanna agli inferi si narra la visita che la dea fa alla sorella Ereshkigal, regina dell'Oltretomba, alla cui presenza giunge dopo essersi progressivamente spogliata: la dea cade quindi morta, e solo per intercessione del dio Enki ottiene di ritornare, viva, sulla terra (la redazione semitica di questo testo presenta delle varianti).
Il più antico tipo iconografico di Inanna è quello testimoniato a Uruk intorno al 3000 a. C.: la dea, indossante una lunga veste e con la tiara a corni sul capo, è raffigurata in atto di andare incontro a Dumuzi (sigillo del British Museum, 116721 = Frankfort, Seals, v, g) ovvero di ricevere l'offerta recatale da sacerdoti in nudità rituale: la scena si svolge apparentemente dinanzi al tempio, ma si tratta di una convenzione iconografica per cui viene proiettata all'esterno la scena che ha luogo all'interno (vaso rituale all'Iraq Museum di Bagdad). Ben presto l'aspetto pastorale di Inanna, già sottolineato dalla frequenza con cui il suo simbolo più antico (il fascio di canne) compare in connessione con le greggi, cede il posto ad una più generica concezione della fecondità: la dea che compare raffigurata sui sigilli del periodo protodinastico (intorno alla metà del III millennio a. C.), vestita di un lungo abito e seduta in compagnia di una divinità maschile, verosimilmente Dumuzi (che si tratti di divinità e non di figure umane come qualche studioso ha sostenuto è dimostrato dal fatto che, poco tempo dopo, lo stesso schema iconografico è ripetuto per figure divine, come ad esempio il dio Enki, chiaramente identificabili), anche se non è possibile attribuirle con certezza il nome di Inanna, rappresenta comunque un nuovo tipo iconografico (quello della figura seduta) pertinente alla dea della fecondità. Nello schema della coppia divina seduta, si può individuare il banchetto sacro che aveva luogo durante la festa del Nuovo Anno (akītu), ma non mancano, già nello stesso periodo protodinastico, raffigurazioni di Inanna seduta, senza alcun rapporto col banchetto sacro. Questo tipo iconografico sembra prevalere nella scultura monumentale a tutto tondo, come mostrano ad esempio una bella statua acefala del Louvre, rinvenuta a Susa (da notare la presenza del leone come motivo decorativo sul fianco dello sgabellotrono su cui la dea è seduta; si tratta forse della più antica attestazione in Mesopotamia di questo animale come attributo di Inanna-I.; in Anatolia il leone accompagnerà regolarmente la Grande Madre), e la statua con pòlos rinvenuta nel tempio di I. a Mari; su quest'ultima rappresentazione la dea tiene in mano, come in coevi rilievi mesopotamici, un grappolo di datteri (cfr. A. Parrot, Le temple d'Ishtar, Parigi 1956, pp. 84-102, tavv. 36-37).
Intorno alla metà del III millennio, compaiono nuovi tipi iconografici di Inanna-I. in relazione ai nuovi caratteri specifici che la dea assume. L'aspetto agricolo e quello guerriero della dea si manifestano nella comparsa di attributi che l'accompagnano sia quando è raffigurata in piedi sia quando è seduta. Nella sua qualità di dea della fertilità, Inanna appare con ciuffi di canne e spighe di grano che le spuntano dalle spalle; talvolta, come nel bassorilievo del vaso di Entemena, Inanna ha in mano un grappolo di datteri; come dea guerriera Inanna ha sulle spalle, invece, delle armi, mazze e hòrpai. In questo periodo tuttavia le raffigurazioni della dea guerriera sono ancora piuttosto rare; più frequenti si fanno nel periodo accadico (2350-2150 a. C.), al quale si data il rilievo del re Anubanini, inciso su una roccia a Zohab sui monti dello Zagros: esso raffigura la dea guerriera che tiene due prigionieri al guinzaglio. In questo periodo perdurano tutti i tipi iconografici del periodo precedente: su un sigillo (Frankfort, Seals, xx, e) si vedono addirittura affiancate la dea guerriera e quella agricola; nello schema della figura seduta, gli elementi vegetali che spuntano dalle spalle sono assai frequenti, anche nelle scene di banchetto (come si è precedentemente accennato, in alcuni casi la divinità maschile che siede di fronte alla dea è certamente identificabile con Enki); Inanna-I. seduta compare inoltre in atto di ricevere omaggio da parte di fedeli ovvero, come su un sigillo con Etana (v.), come semplice riempitivo. Come altre figure divine o semplicemente mitiche, anche Inanna-I. viene raffigurata nel periodo accadico in scene riferentisi ad episodi mitologici, non facilmente interpretabili: ella appare così, in piedi o seduta, in una barca col dio solare, su una montagna, resa schematicamente, dalla quale emerge un dio che vi era imprigionato, e seduta dinanzi ad una porta alata (l'aurora ?) con accanto un toro inginocchiato (in questo è forse possibile ravvisare il "toro celeste" del Poema di Gilgamesh). In quattro sigilli la scena col dio che esce dalla montagna presenta la dea Inanna-I. munita di ali; poiché nei casi in cui la provenienza dei sigilli è nota si tratta sempre della regione del fiume Diyala, a E del Tigri, si può supporre che la variante della dea armata e alata costituisca un fenomeno isolato e localizzato in quella regione periferica. A questo proposito si può ricordare che una stele di Susa presenta un'altra raffigurazione inusuale: la dea, in piedi, con una gamba su un leone ed un lungo giglio in mano.
Nei periodi neo-sumerico e babilonese vengono meno molti tipi iconografici: scompaiono le scene mitologiche e tutte le altre si fanno più rare; solo le raffigurazioni della dea guerriera permangono numerose. Le terrecotte a rilievo testimoniano però il perdurare di una religiosità popolare fondata sul culto della coppia arcaica Inanna-Dumuzi; in alcune le due divinità appaiono in piedi, abbracciate, in altre si vede la dea sola, variamente atteggiata. L'importanza del periodo babilonese per l'iconografia di I. si rivela nella comparsa di un nuovo tipo iconografico il quale, per essere assente nella precedente tradizione mesopotamica e per essere invece attestato fin dalla metà del III millennio in Siria (come rivela una conchiglia incisa da Mari), va considerato un apporto dall'esterno in concomitanza con l'avvento, sul piano politico, delle dinastie semitiche dette "amorree" o "occidentali": si tratta della dea nuda, con chioma hathorica. La tipologia di questa raffigurazione divina, che in Mesopotamia non ebbe grande importanza fino all'epoca ellenistica − infatti nella glittica babilonese la dea nuda è usata come una specie di riempitivo, giustificandò l'opinione del Frankfort che non volle riconoscere in essa una divinità −, va studiata sul materiale occidentale, cioè siro-anatolico, nel quale è nota convenzionalmente col nome fenicio di I., cioè Astarte (v.). Un elemento che è estraneo all' usuale tipologia dell'Astarte è quello del velo che la dea apre dinanzi a sé, aprendolo fino a fargli assumere l'aspetto di un paio di ali. È difficile ammettere, come pure è stato fatto, che queste ultime derivino dalla schematica rappresentazione del velo aperto: a parte la diversità tipologica, non vi è corrispondenza tra le aree di diffusione della dea nuda alata e la dea che si spoglia; quest'ultima resta limitata all'area siriana settentrionale (si trova però, insieme ad altri motivi siriani, anche sulla coppa aurea da Hasanlu, del X-IX sec. a. C.), mentre l'altra giunge in Anatolia e, in una forma che ora esamineremo, in Mesopotamia. Altrettanto difficile è spiegare il significato della dea in atto di aprirsi il velo: il ricorso dell'episodio mitologico della discesa di Inanna-I. agli Inferi è invalidato dalla considerazione che un mito mesopotamico non sarebbe rappresentato in Mesopotamia mentre lo sarebbe in Siria, a parte il fatto dell'incertezza circa l'identificazione tra il gesto della dea, che sembra voler mostrare la propria nudità, e il significato, totalmente diverso, che il gesto assume nel mito. La dea che si spoglia sembra in definitiva rappresentare una esplicita manifestazione del concetto della fecondità più connesso alla Grande Madre anatolica (o meglio asianica) che all'I. mesopotamica. Vi sono comunque in Mesopotamia delle raffigurazioni di una dea alata, nuda: si tratta di rilievi in terracotta, di cui il più noto è la cosiddetta lastra Burney, di probabile natura cultuale, nei quali la dea ha sul capo la tiara a corni mentre le estremità inferiori sono costituite dagli artigli di un rapace. È possibile che si tratti di una manifestazione ancora diversa della dea I. nel suo aspetto di desiderio insoddisfatto (in questo caso i testi parlano del demone Lilit); è certo comunque che non vi è nessun rapporto tra questa figura e la dea nuda siriana.
Nel periodo assiro (primi secoli dal I millennio a. C.) l'iconografia di I. si cristallizza nella figura della I. di Arbela: la dea, in piedi e di profilo, reca sulle spalle l'arco e la faretra, con armi nelle mani; così ella compare in un rilievo da Tell Ahmar (antica Till Barsip) e su numerosi sigilli, dove è accompagnata talvolta dal leone e sempre dal suo simbolo astrale, la stella a otto punte, derivato dalla rosetta che nel 3000 a. C. accompagnava Dumuzi e Inanna, simboleggiando le fronde che nutrivano le greggi. Un aspetto leggermente diverso, senza arco e con l'abito rivestito di ampie zone sul davanti, presenta la dea raffigurata sul rilievo di Shamash-resh-usur da Mari. Accanto a queste raffigurazioni, alcuni rilievi assiri ci hanno tramandato l'immagine di statue cultuali in cui la dea appare seduta: così nel rilievo rupestre di Maltaya e in uno di Tiglatpileser III, in cui si vedono due divinità, entrambe con la rosetta sopra la tiara: una col viso di fronte, l'altra col viso di profilo; si tratta forse di due diverse personificazioni della stessa dea.
Bibl.: A. Deimel, Pantheon Babylonicum, Roma 1914, pp. 150-152; E. Dhorme, Les religions de Babylonie et d'Assyrie, Parigi 1945, pp. 67-78; S. Langdon, Tammuz and Ishtar, Oxford 1914; J. Plessis, Étude sur les textes concernant Istar-Astarté, Parigi 1921; K. Frank, Bilder und Symbole babylonisch-assyrischer Götter, Lipsia 1906, pp. 17-19; G. Contenau, La déesse nue babylonienne, Parigi 1914; M. − T. Barrelet, À propos d'une plaquette trouvée à Mari (AO. 18692), in Syria, XXIX, 1952, pp. 285-93; id., Les déesses armées et ailées, in Syria, XXXII, 1955, pp. 222-60. Iconografia di Inanna-I. nella glittica: W. H. Ward, The Seal Cylinders of Western Asia, Washington 1910, passim; H. Frankfort, Cylinder Seals, Londra 1939, passim; E. Douglas Van Buren, Representations of Fertility Gods in Glyptic Art, in Orientalia, XXIV, 1955, pp. 345-76. Iconografia nelle terrecotte: E. Douglas Van Buren, Clay Figurines of Babylonia and Assyria, New Haven 1930, passim. Lastra Burney: D. Opitz, Die vogelfüssige Göttin auf den Löwen, in Archiv für Orientforschung, XI, 1936-37, pp. 350-53; E. Douglas Van Buren, A Further Note on the Terracotta Relief, ibidem, pp. 354-57; E. G. Kraeling, A Unique Babylonian Relief, in Bulletin of the American Schools of Oriental Research, LXVII, 1937, pp. 16-18; H. Frankfort, The Burney Relief, in Archiv für Orientforschung, XII, 1937-38, pp. 128-35. Simboli: E. Douglas Van Buren, Symbols of the Gods in Mesopotamian Art, Roma 1945, passim; id., The Rosette in Mesopotamian Art, in Zeitschrift für Assyriologie, N. F. XI, 1939, pp. 99-107; H. Frankfort, Ishtar at Troy, in Journal of Near Eastern Studies, VIII, 1949, pp. 194-200.