Ischemia
Si definisce ischemia (dal greco ἴσχω, "trattenere, arrestare", e αἶμα, "sangue") il deficiente apporto di sangue in un distretto più o meno limitato dell'organismo, per diminuzione del normale afflusso o per mancato adeguamento a momentanee necessità funzionali. L'ischemia, una delle cui principali cause è rappresentata dalle lesioni aterosclerotiche delle arterie, determina una sofferenza dei tessuti colpiti, di entità proporzionale al grado e alla natura del deficit nell'irrorazione e alla vulnerabilità del tessuto stesso.
Il termine ischemia è stato adottato in medicina per identificare situazioni in cui un determinato tessuto, o un organo, o una parte di un organo, ricevono da parte delle arterie un rifornimento di sangue inferiore al fabbisogno. Ciò può verificarsi in condizioni basali nei riguardi del normale funzionamento di tale organo o tessuto, oppure solo in occasione di una particolare domanda legata alla necessità di un'attività più intensa. Questa carenza può intervenire in forma acuta, subacuta o cronica e si accompagna ad alterazioni dapprima funzionali e poi anche anatomiche del tessuto interessato, fino, in casi estremi, alla possibile morte cellulare. Le cause dell'ischemia devono usualmente essere ricercate in una lesione o alterazione di un'arteria o di più arterie che riforniscono il tessuto interessato. Le conseguenze riguardano generalmente soltanto una parte dell'organo nutrito dall'arteria, in quanto di solito esso è servito da più arterie (che inoltre sono spesso collegate tra di loro da vasi collaterali). Per quanto si possa usare il termine ischemia in senso lato, più comunemente si parla di malattie ischemiche dovute a loro volta a malattie o lesioni sistematiche delle arterie. La condizione arteriosa più comune associata a fenomeni ischemici è l'arteriosclerosi (v.), o aterosclerosi, il cui effetto netto è costituito da un restringimento del lume dell'arteria in sedi irregolari e multiple, per lo sviluppo delle cosiddette placche aterosclerotiche o ateromasiche. Già in questa circostanza, in occasione di una domanda di ossigeno in eccesso (per es. per uno sforzo da parte del cuore o da parte di un muscolo delle gambe) può manifestarsi la conseguenza acuta dell'ischemia. Successivamente la placca può rompersi, produrre un embolo che va a occludere l'arteria in una sede a valle, oppure può complicarsi con lo sviluppo di un trombo che chiude il lume nella sede della placca stessa. Questa chiusura dell'arteria, specialmente quando avviene in modo rapido, determina non soltanto ischemia ma anche necrosi del tessuto usualmente irrorato dall'arteria, con danni irreversibili per l'organo servito dall'arteria stessa. Gli organi che subiscono maggiormente le conseguenze dell'arteriosclerosi e dell'ischemia che ne consegue sono il cuore (per lesioni delle arterie coronarie), l'encefalo (per lesioni delle arterie cerebrali extra- e intracraniche) e i muscoli delle gambe (per lesioni dell'aorta, delle arterie iliache, femorali, poplitee e altre poste distalmente). Anche il rene può subire danni legati ad aterosclerosi delle arterie renali. Inoltre, l'aorta può essere seriamente e diffusamente compromessa dall'aterosclerosi con esiti che nei casi più gravi si configurano in aneurismi, costituiti da una dilatazione di tratti di parete che hanno perso parte delle loro componenti. In termini clinici le manifestazioni a carico del cuore sono rappresentate dall'angina pectoris (con le sue varianti), dall'infarto miocardico (con le sue varianti), dalla morte improvvisa e talora dallo scompenso cardiaco; possono inoltre prodursi gravi aritmie e blocchi cardiaci. Tutte queste manifestazioni, a eccezione dell'angina pectoris, possono essere letali; nel loro complesso, esse prendono comunemente il nome di cardiopatia coronarica o cardiopatia ischemica. Le manifestazioni a carico del cervello sono gli attacchi ischemici transitori (TIA, Transitory ischemic attacks) e la trombosi cerebrale, complessivamente conosciuti come accidenti cerebrovascolari (v. ictus), dizione che incorpora anche le emorragie cerebrali che fino a qualche anno fa erano difficilmente distinguibili, in termini diagnostici, dalle altre forme. Tuttora non è sempre agevole, specie dal punto di vista statistico collettivo, distinguere queste due componenti. Anche tali condizioni, a eccezione dei TIA, possono essere altamente letali. Le manifestazioni a carico delle arterie degli arti inferiori sono la cosiddetta claudicatio intermittens e le gangrene delle estremità inferiori. Il termine più usato per identificare queste patologie è quello di arteriopatie periferiche (o degli arti inferiori).
Dati numerici relativi all'entità del problema, utili soprattutto a fini comparativi, sono quasi solo quelli prodotti da studi multicentrici collaborativi. Le grandezze impiegate (prevalenza, incidenza, attack rate, mortalità, letalità) sono tutte espresse come rapporto tra il numero di casi rilevati (malati o deceduti), a numeratore, e il numero totale (popolazione esaminata), a denominatore, normalizzato a 100, 1000, 10.000 o 100.000 a seconda dei casi. La prevalenza è la proporzione di soggetti portatori di una malattia in una popolazione in un momento preciso del tempo; l'incidenza è la proporzione di soggetti che in una popolazione sviluppa la malattia in un arco definito di tempo (di solito un anno), a partire dalla condizione di esserne esenti all'inizio del periodo di osservazione; l'attack rate corrisponde all'incidenza, ma comprende anche le recidive degli eventi acuti e il denominatore comprende anche i soggetti già malati (per definizione l'attack rate è maggiore dell'incidenza); la mortalità è la proporzione di soggetti che muoiono in un arco di tempo definito (di solito un anno) nella popolazione generale che comprende sani e malati; la letalità è la proporzione di soggetti che muore in un arco di tempo definito, a partire da coloro che sono malati o che hanno sviluppato un evento acuto. Va sottolineato che le ultime quattro grandezze hanno senso solo se il tempo di osservazione è esattamente definito. La prevalenza di malattie cardiovascolari ad altissima letalità precoce, come la cardiopatia coronarica (infarto, morte improvvisa) e gli accidenti cerebrovascolari (emorragie e trombosi cerebrali), essendo una misura infida, legata all'incidenza e alla letalità, è di scarso valore scientifico, ma ha un certo interesse sanitario perché rappresenta il carico di condizioni croniche per i servizi sanitari. L'incidenza è sicuramente la misura più importante perché comprende tutti i casi che si verificano in un certo arco di tempo, compresi quelli rapidamente letali. Nel Seven countries study, condotto su uomini fra i 40 e i 59 anni in 16 campioni di 7 paesi, fu dimostrata per la prima volta, nel 1970, l'esistenza di reali differenze di incidenza coronarica in popolazioni diverse sulla base di un follow up di 5 anni. Tale situazione è stata confermata con un follow up di 10 anni (incidenza e mortalità) e di 15, 20 e 25 anni (sola mortalità). In ogni caso l'incidenza coronarica è risultata più elevata nei paesi dell'Europa settentrionale (Finlandia, Olanda) e degli Stati Uniti rispetto a quelli dell'Europa meridionale (Italia, Iugoslavia, Grecia) e al Giappone. Nell'ambito di questo stesso studio la mortalità per accidenti cerebrovascolari è risultata più elevata in Giappone ed Europa meridionale, rispetto all'Europa settentrionale e agli Stati Uniti. Tali livelli bilanciano parzialmente, ma mai completamente, la mortalità dovuta a cardiopatia coronarica che ha un trend geografico inverso. Il progetto MONICA (monitoraggio malattie cardiovascolari), lanciato dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) tra il 1981 e il 1985, che riguarda l'arco di tempo compreso fino al 2000, è il più estensivo studio internazionale eseguito in tempi recenti. Comprende circa 40 aree in 27 diversi paesi e si prefigge, attraverso l'installazione di sistemi di registrazione delle malattie cardiovascolari, la conduzione di screening di popolazione per la misura dei fattori di rischio e la registrazione delle tendenze terapeutiche, di documentare l'esistenza di reali trend di mortalità e morbosità e di spiegarli con i trend dei loro determinanti primari (fattori di rischio) e secondari (terapia). I dati sull'attack rate annuale per eventi coronarici maggiori, derivati dai primi 3 anni di osservazione, forniscono un'idea sulla grandezza del fenomeno in soggetti adulti, in vari paesi e nei due sessi. Alcuni paesi dell'Europa settentrionale presentano ancora i quozienti più elevati, mentre quelli più bassi riguardano la Cina e i paesi dell'Europa meridionale, compresa l'Italia. Gli Stati Uniti si trovano in una posizione intermedia, dopo che per varie decadi avevano occupato alcune delle prime posizioni. La letalità a 28 giorni dall'evento acuto è molto elevata e in media è attorno al 50%; tuttavia non è molto correlata con l'attack rate perché dipende in buona misura dalla distribuzione e dall'efficienza dei servizi sanitari. L'attack rate nelle donne è circa 1/4 di quello osservato tra gli uomini della stessa età. Orientativamente, in Italia, in soggetti di età media e di sesso maschile l'incidenza di eventi coronarici maggiori (morte coronarica o infarto miocardico sicuro) oscilla tra lo 0,3 e lo 0,6% annuo. Essa peraltro cresce rapidamente con l'avanzare dell'età e con la durata del periodo di osservazione. Stime estese a tutta la popolazione e costruite per estrapolazione di dati derivati da studi più limitati indicano che l'attack rate per eventi coronarici maggiori (come sopra indicati) dovrebbe essere attualmente di un ordine di grandezza non superiore ai 100.000 casi all'anno (di cui 1/5 costituito da recidive), mentre stime eseguite 20-25 anni orsono suggerivano valori decisamente maggiori. Secondo i dati forniti dal Ministero della Sanità, le ospedalizzazioni per infarto in Italia sono circa 67.000 all'anno. Poiché in base alle informazioni del progetto MONICA 1/5 circa dei casi muore prima di raggiungere l'ospedale, la stima di 90.000 non dovrebbe essere molto lontana dalla realtà. Tutto ciò lascia supporre che l'incidenza coronarica sia diminuita in Italia contemporaneamente alla mortalità. L'incidenza per accidenti cerebrovascolari in soggetti di età media è inferiore di circa la metà, rispetto a quella degli eventi coronarici, mentre diventa assai simile a quella degli eventi coronarici dopo i 70 anni. Stime complessive, derivate dall'area latina del progetto MONICA, indicano un numero di casi abbastanza simile a quello degli eventi coronarici maggiori, anche se con una distribuzione per età molto diversa.
Tradizionalmente la mortalità per malattie ischemiche era maggiore nei paesi occidentali più ricchi e decisamente inferiore nei paesi mediterranei e in quelli in via di sviluppo. Nei paesi in cui tali malattie dominavano la scena epidemiologica, esse costituivano circa il 90% o più della mortalità cardiovascolare, la quale a sua volta rappresentava circa la metà della mortalità per tutte le cause. Alla fine degli anni Sessanta del 20° secolo, negli Stati Uniti e successivamente in alcuni altri paesi industrializzati (Australia, Nuova Zelanda, Finlandia ecc.) si è cominciato a osservare un cospicuo declino della mortalità cardiovascolare riguardante soprattutto le malattie ischemiche di origine arteriosclerotica. Di fatto un lieve ma netto declino della mortalità cerebro-vascolare era iniziato alcuni anni prima, mentre quello della mortalità per cardiopatia coronarica rappresentava una novità, dopo che per anni si era osservato un incremento continuo fino al raggiungimento di un plateau (negli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta). In quel paese, in particolare, il fenomeno è proseguito fino agli anni Novanta coinvolgendo, sia pure in misura leggermente diversa, i vari stati, i due sessi, le varie età e le varie razze. Nel 1978 una conferenza del NIH (National institute of health), stabilendo la realtà e la non artificiosità del fenomeno, ne tentava le prime interpretazioni. Successivamente, specie da parte dell'OMS è stata prestata molta attenzione allo studio dei trend di mortalità mediante una serie di analisi sistematiche, limitate peraltro a un piccolo numero di paesi (inferiore a 30), i cui dati di mortalità sono minimamente attendibili. Uno dei fenomeni più interessanti, tra quelli osservati in questo contesto, è che la mortalità per cardiopatia coronarica, ma anche quella per accidenti cerebrovascolari sono diminuite in alcuni paesi (specie quelli più ricchi e industrializzati del mondo occidentale), sono rimaste quasi stabili in altri (come per es. l'Italia fino alla fine degli anni Settanta) e sono risultate in forte aumento in altri ancora (in prevalenza quelli dell'Europa orientale). Questo complesso fenomeno ha, almeno in parte, rivoluzionato la 'classifica' mondiale per mortalità cardiovascolare, acuendo l'interesse per possibili conferme e spiegazioni. La tab. 1 documenta questo fenomeno, riportando dati relativamente recenti, dell'inizio degli anni Novanta, per il complesso delle malattie cardiovascolari. I primi posti della 'classifica' sono infatti occupati dalla Federazione Russa e dai paesi dell'Europa orientale. La spiegazione del fenomeno, laddove si siano verificate delle consistenti riduzioni di mortalità, non è stata semplice. La riduzione della mortalità, infatti, può dipendere da una riduzione dell'incidenza (cioè del verificarsi di nuovi casi) e quindi essere legata alla prevenzione, oppure da una riduzione della letalità, nel qual caso il merito prevalente è da attribuirsi alla terapia. È logico ammettere che si sia verificata una combinazione dei due fenomeni, anche se è difficile attribuire i meriti relativi all'uno e all'altro. Riferendosi agli Stati Uniti, paese per il quale il fenomeno è stato più evidente e per il quale si dispone di più dati, le modificazioni avvenute in 15-20 anni nelle abitudini alimentari, nel consumo di sigarette e nel controllo dell'ipertensione arteriosa giustificano in gran parte le riduzioni di mortalità osservate. Stime eseguite nell'ambito di studi condotti ad hoc negli Stati Uniti suggeriscono che la prevenzione primaria dovrebbe essere responsabile dei 2/3 della riduzione di mortalità, la terapia del terzo rimanente. Gli straordinari incrementi di mortalità coronarica (ma anche cerebrovascolare e per tutte le cause) osservati nello stesso periodo di tempo nei paesi dell'Europa orientale vengono ipoteticamente attribuiti al raggiungimento, in quei paesi, di livelli di benessere di massa accompagnati dall'acquisizione di uno stile di vita che favorisce l'aumento nei livelli medi dei più comuni fattori di rischio (v. oltre): alimentazione ricca, alcol, fumo, sedentarietà e forse stress rappresentano i possibili, ma non completamente documentati, colpevoli di questa evoluzione sfavorevole che peraltro i paesi del mondo occidentale avevano avuto modo di sperimentare già alcuni decenni prima. In Italia, la mortalità cardiovascolare è continuamente cresciuta fino alla prima parte degli anni Settanta; dopo un plateau raggiunto a metà di quegli anni, è iniziato un chiaro declino nella mortalità per cardiopatia coronarica e per altre manifestazioni dell'arteriosclerosi. Il fenomeno è ancora in corso a distanza di oltre 20 anni dall'inizio e ha raggiunto una consistenza non molto diversa da quella osservata negli altri paesi sopra citati, dove era iniziato alla fine degli anni Sessanta. Il declino dei quozienti di mortalità in Italia si è verificato nei due sessi, in tutte le classi di età e in tutte le regioni, anche se è stato molto più vistoso al Nord e al centro del paese che al Sud e nelle isole. L'entità di tale declino è dell'ordine del 50% tra gli anni di picco (1970-75) e il 1993. Analisi effettuate su una serie di studi di popolazione, condotti negli anni Settanta e Ottanta, hanno permesso di stimare l'effetto sull'andamento della mortalità delle modificazioni dei livelli medi di alcuni fattori di rischio nella popolazione generale. In particolare, si sono verificate riduzioni della pressione arteriosa sistolica e diastolica nei due sessi, dell'indice di massa corporea tra le donne, dell'abitudine al fumo tra gli uomini, mentre la colesterolemia è risultata sostanzialmente stabile, anche se modeste riduzioni al Nord e al centro del paese erano di fatto bilanciate da modesti incrementi nel Sud e nelle isole. Utilizzando modelli matematici per lo studio del rischio per la patologia coronarica, per quella cerebrovascolare e per il complesso delle malattie cardiovascolari, è stato possibile stimare le variazioni attese di mortalità coronarica in funzione delle modificazioni dei fattori di rischio e di confrontare le stime con le variazioni osservate. L'analisi ha indicato che anche in Italia circa i 2/3 della riduzione di mortalità coronarica, cerebrovascolare e cardiovascolare, che si è verificata nell'ultima parte degli anni Ottanta, sono statisticamente attribuibili (e biologicamente coerenti) alle variazioni favorevoli di alcuni fattori di rischio verificatesi durante gli anni precedenti.
La prognosi delle condizioni assimilabili alle malattie ischemiche è molto variabile perché dipende dalle manifestazioni cliniche, che possono essere di varia gravità, e dall'età in cui compaiono. Tutte queste manifestazioni, comunque, sono associate a una riduzione della speranza di vita. In modo molto orientativo, per eventi di tipo maggiore corrispondenti alla diagnosi di infarto miocardico o di accidente cerebrovascolare, si può affermare che la letalità è di circa il 50% nel corso del primo mese successivo alla comparsa dell'evento. Circa 1/4 del totale (metà dei sopravvissuti) va incontro a un'invalidità permanente e a problemi di carattere cronico. Nella fase acuta la letalità legata a infarto miocardico è attualmente di almeno il 20% nelle prime ore dopo l'inizio dei sintomi (morte improvvisa coronarica). L'invalidità a lungo termine risulta invece assai più comune nel caso degli accidenti cerebrovascolari.
La dimostrazione dell'esistenza dei fattori di rischio è ormai acquisita da molti anni e il relativo concetto è diventato abbastanza comune. L'idea è stata sviluppata dapprima per la cardiopatia coronarica, successivamente anche per gli accidenti cerebrovascolari e per altre malattie cardiovascolari e infine anche per ogni tipo di patologia cronico-degenerativa. Nel corso della seconda metà del 20° secolo vanno segnalati quattro sviluppi importanti nello studio dei fattori di rischio e quindi della possibile causalità delle malattie che essi predicono. Il primo sviluppo riguarda il tentativo di sistematizzare la classificazione dei vari fattori. Il loro ruolo, in effetti, può essere quello di iniziatori della lesione arteriosclerotica, di promotori e aggravatori della lesione o di precipitatori degli eventi. In verità, alcuni fattori hanno ruoli multipli e perciò non è sempre così facile identificare un solo ruolo per ciascuno di essi. Un altro modo per razionalizzare la classificazione dei fattori può essere quello di separare i fattori genetici in senso stretto, da quelli comportamentali e ambientali, da quelli chimicamente o fisicamente misurabili nell'individuo e che rappresentano di solito la risultanza delle tre componenti. La classificazione dei fattori in queste varie categorie aiuta, almeno concettualmente, a comprenderne la sequenza logica e temporale e a meglio caratterizzarne il significato. Così, per es., il livello di attività fisica è un fattore comportamentale, mentre la physical fitness (definita da uno o più parametri) è il corrispondente fattore misurabile. Allo stesso modo il consumo di sigarette è un fattore comportamentale mentre la tiocianatemia è un indicatore misurabile nel sangue, seppure indiretto, del consumo di tabacco. Un secondo aspetto fondamentale è costituito dalla diffusione, a partire dall'inizio degli anni Settanta, dell'uso di modelli matematici di analisi multivariata (v. oltre) che hanno notevolmente favorito lo studio delle relazioni tra fattori di rischio ed eventi morbosi successivi. La regressione lineare multipla, la relativa funzione discriminante, la funzione logistica multipla e il modello proportional hazards hanno straordinariamente contribuito a fornire dati quantitativi relativamente al potere predittivo dei fattori di rischio e a far migliorare la discriminazione tra casi e non casi. Un terzo elemento di sviluppo è rappresentato dall'affermarsi di una nuova concezione di rischio, diversa da quella tradizionale, con la quale tuttavia non è in contrasto ma della quale è probabilmente complementare. Tradizionalmente, dal punto di vista sia clinico sia epidemiologico, è stato utile, per vari motivi, considerare la malattia coronarica e quella cerebrovascolare come un fatto dicotomico (presente-assente) e seguire quindi nel tempo una popolazione esente da manifestazioni cliniche in attesa che qualcuno sviluppi eventi inoppugnabili e drammatici come un infarto miocardico, una morte improvvisa, una trombosi cerebrale ecc. In effetti, è noto che la malattia aterosclerotica e le sue manifestazioni d'organo sono un continuo di gravità, sia pure passibile di improvvisi picchi acuti come gli eventi sopra indicati. Recentemente tale continuo di gravità, anche a livello della lesione arteriosa, ha potuto essere correlato in forma significativa con i livelli dei tradizionali fattori di rischio in relazione alla disponibilità di dati angiografici, soprattutto coronarici, e di dati ecografici per altre sedi arteriose, come le arterie carotidi e quelle iliache. Un quarto aspetto di interesse è costituito dall'emergere, negli ultimi anni, di alcuni nuovi fattori di rischio che potrebbero tra breve contribuire a migliorare la predizione complessiva della patologia alla quale si sono collegati. Ci si riferisce in particolare ad alcuni fattori genetici, a quelli psicosociali, ai fattori della coagulazione e della trombosi, alle apolipoproteine e agli agenti antiossidanti, all'infezione da Chlamydia pneumoniae, alla carenza di estrogeni, all'omociteninemia, agli indicatori di infiammazione. Una variante al concetto di fattori di rischio è quella dei fattori epidemiogeni. Questi ultimi riescono a spiegare almeno in parte le differenze di incidenza e mortalità tra popolazioni diverse. Nel settore della cardiopatia coronarica questo concetto è applicabile al livello medio della colesterolemia, al consumo di grassi saturi nella dieta e al livello della pressione sistolica. Nel Seven countries study, per es., la correlazione lineare di tali valori con la mortalità coronarica in 15 anni è stata di 0,80, 0,84 e 0,65 rispettivamente, spiegando quindi, in termini matematici, quote del 66%, 68% e 40% delle differenze osservate. Non è stato invece possibile identificare tale ruolo epidemiogeno analizzando il consumo di sigarette o altre caratteristiche individuali tra quelle che vengono comunemente riconosciute come fattori di rischio coronarico. Per quanto riguarda invece gli accidenti cerebrovascolari, l'unico fattore epidemiogeno è verosimilmente costituito dalla pressione arteriosa anche se non tutti, tra i pochi studi disponibili, hanno confermato questa idea. Una trattazione sistematica sui fattori di rischio (tab. 2) sarebbe necessariamente molto lunga. In questa sede è sufficiente limitarsi solo ad alcuni fattori studiati quali predittori delle complicanze d'organo dell'arteriosclerosi, specie in sede cardiaca e cerebrale. a) Fattori genetici. Il ruolo della genetica è scontato, ma non ancora definibile in termini quantitativi. Gli studi sulla familiarità risultano spesso insoddisfacenti, per motivi metodologici, e quindi si rimane in attesa di risultati derivanti dalle biotecnologie avanzate che identificano i polimorfismi genetici e caratterizzano la genetica individuale. Sono stati identificati solo pochi geni che codificano alterazioni importanti del metabolismo lipidico, ma per il momento tali acquisizioni non possono ancora essere trasferite alla valutazione di intere popolazioni. b) Dieta (categoria dei fattori comportamentali). Esiste una larga base dottrinale secondo la quale una dieta ricca, abbondante cioè in calorie, grassi, specialmente grassi saturi e colesterolo, e quindi sale, zuccheri semplici e alcol, e al contrario povera di fibre alimentari e forse di certe vitamine, rappresenta uno dei maggiori determinanti dell'arteriosclerosi, specie coronarica. L'elemento più tipico è costituito dalla quota dei grassi saturi, che a sua volta rappresenta il maggiore determinante esogeno assieme al rapporto P/S (grassi poliinsaturi/grassi saturi) che è protettivo, e dal livello di colesterolemia totale e di colesterolemia-LDL (v. colesterolo). Le documentazioni sulle relazioni tra le abitudini alimentari e l'incidenza coronarica a livello individuale sono sempre state di difficile valutazione per le grandi difficoltà di caratterizzare la dieta individuale, essendo possibile che la variabilità intraindividuale superi quella interindividuale. Da alcune analisi, inoltre, quando si considera l'interdipendenza tra i vari nutrienti, emerge l'impressione che prevalga l'importanza di elevati livelli di consumo di carboidrati, di fibre e di grassi monoinsaturi (quali fattori protettivi) sull'eccesso di grassi saturi quale fattore di rischio. Alcune altre componenti delle abitudini alimentari sono, a loro volta, correlate con altri fattori misurabili: è il caso delle calorie totali per l'obesità e del consumo di sale e di alcol per l'ipertensione ecc. Un interesse particolare è stato suscitato negli ultimi due decenni del 20° secolo dal possibile ruolo protettivo degli acidi poliinsaturi del tipo omega-3, particolarmente abbondanti nel pesce. In generale, tuttavia, il ruolo della dieta sembra andare al di là delle influenze svolte sulla colesterolemia e su altri fattori noti. In modo un po' grossolano si può affermare che una dieta ricca in prodotti animali tende a essere aterogena, mentre il contrario vale per una dieta ricca in prodotti vegetali e pesce. c) Attività fisica (categoria dei fattori comportamentali). Dopo anni di incertezze sembra chiarito che una certa quota di attività fisica rappresenti un fattore protettivo per l'arteriosclerosi e la cardiopatia coronarica in particolare e che, viceversa, la sedentarietà sia un fattore di rischio. Tali comportamenti, legati all'attività sia lavorativa sia extralavorativa, trovano il loro corrispondente in fattori misurabili quali espressione della physical fitness (v. oltre) e di certi aspetti metabolici. d) Fumo di sigaretta (categoria dei fattori comportamentali). La documentazione su questo comportamento è talmente abbondante e conclusiva che non merita particolari commenti. Gli sforzi più recenti si sono diretti verso il tentativo di misurare nel plasma i prodotti di combustione del tabacco, come il tiocianato, o dei metaboliti della nicotina, quali fattori obiettivi. e) Tipo comportamentale A-B (categoria dei fattori comportamentali). È difficile escludere una forte componente geneticamente determinata dei tipi comportamentali A e B, descritti da R.H. Rosenman, M. Friedman, C.D. Jenkins e R.W. Bortner, ma per semplicità questa variabile viene considerata un comportamento. Il tipo comportamentale A, caratterizzato da pressione del tempo, reazioni rapide, attivismo lavorativo, talora atteggiamento ostile, rappresenterebbe un fattore di rischio. Il tipo B, che presenta caratteri opposti, è apparentemente protettivo. Il ruolo predittivo indipendente del tipo A è stato ormai confermato da vari studi, di cui almeno uno europeo, nonostante la difficoltà di adattare tale tipologia, originariamente sviluppata negli Stati Uniti, alle popolazioni europee. Non è ancora ben chiara la relazione tra tipo comportamentale A-B e stress anche se è ipotizzabile una maggiore reattività a stimoli esterni da parte del tipo A. Il problema dello stress acuto o cronico come tale, in relazione alla difficoltà di misura epidemiologica obiettiva, è ancora irrisolto, per lo meno di fronte al tentativo di quantizzarne il ruolo predittivo. f) Classe socioeconomica (categoria dei fattori comportamentali). Una serie di studi recenti ha suggerito che attualmente, al contrario di quanto avveniva negli anni Settanta-Ottanta, le classi socioeconomiche relativamente povere dei paesi industrializzati sono più colpite, specie per quanto riguarda la cardiopatia coronarica, di quelle relativamente più ricche. Il grande equivoco che è alla base di questo problema è legato al fatto di non considerare che negli ultimi anni le classi più ricche hanno adottato uno stile di vita più salutare e quelle relativamente più povere hanno raggiunto capacità economiche sufficienti a concedersi uno stile di vita che in termini comportamentali (dieta ricca, fumo, sedentarietà) è simile a quello delle classi ricche di un tempo (o di quelle ricche attuali dei paesi in via di sviluppo). Inoltre nelle classi socioeconomiche più povere rimangono comunque più limitate le disponibilità economiche e l'attenzione per la salute. g) Lipidi ematici (categoria dei fattori misurabili). Rappresentano tuttora i fattori più importanti, predittivi e con un ruolo verosimilmente causale. Uno straordinario numero di conferme sono venute sul ruolo predittivo e probabilmente causale della colesterolemia. In tempi recenti sembra essersi conclusa anche la disputa sull'esistenza o meno di una soglia di rischio, con la dimostrazione di un continuo di rischio dai valori più bassi a quelli più elevati. Analisi particolari che confrontano vari studi (metanalisi) hanno chiaramente indicato che la differenza (o variazioni) dell'1% di colesterolemia corrisponde grosso modo al 2% di differenza (o variazioni) di incidenza coronarica. La scomposizione della colesterolemia totale in colesterolemia-HDL (High density lipoproteins), -LDL (Low density lipoproteins) e -VLDL (Very low density lipoproteins) e un gran numero di rapporti tra queste varie componenti hanno da tempo suggerito, nonostante qualche incertezza, il ruolo protettivo della colesterolemia-HDL e quello decisamente aterogeno della colesterolemia-LDL. Il ruolo predittivo della trigliceridemia rimane incerto e, in taluni studi, sembra esistere solo se in associazione con il sesso femminile, con l'obesità e con il diabete. Un ruolo predittivo indipendente della trigliceridemia non può essere sostenuto sulla base dei dati esistenti. Recentemente è aumentato l'interesse per le apolipoproteine e soprattutto per le apoA1, le apoB e le apoE. Studi caso-controllo hanno documentato un'associazione negativa delle apoA1 e positiva delle altre due frazioni con l'arteriosclerosi - coronarica in particolare -, mentre i contributi legati a studi di popolazione, anche se positivi, sono tuttora scarsi. L'elevata correlazione delle apoA1 con la colesterolemia-HDL e delle apoB con la colesterolemia-LDL fa sollevare dei dubbi a priori sulla possibilità di trovare un loro grande contributo, indipendente, alla predizione. Negli ultimi anni è sorto il sospetto che bassi livelli di colesterolemia si associno a un eccesso di mortalità per altre patologie e specialmente per i tumori. La documentazione disponibile è contrastante, ma l'orientamento generale è quello di interpretare tale fenomeno come secondario all'esistenza di un tumore. L'opinione più diffusa, e anche ben documentata, è che i valori desiderabili di colesterolemia totale per gli adulti dovrebbero porsi tra 170 e 200 mg/dl. h) Pressione arteriosa (categoria dei fattori misurabili). Anche per questo fattore di rischio sono state ottenute numerose conferme che ne fanno il fattore maggiore assieme a colesterolemia e fumo. Anche in questo caso il rischio è continuo ed esponenziale dai valori più bassi ai valori più elevati. La disputa sul maggiore ruolo predittivo della pressione sistolica rispetto alla diastolica, o viceversa, continua, con disponibilità di risultati apparentemente contrastanti. Essa ha peraltro poco senso anche perché, per utilizzare l'analisi multivariata, è comunque necessario usare l'una o l'altra in alternativa, oppure una combinazione delle due (per es. la pressione media: diastolica unita a un terzo della differenziale) al fine di evitare i fenomeni di competizione all'interno di tali modelli matematici. Il ruolo predittivo della pressione sistolica sembra comunque superiore a quello della pressione diastolica. Alcune comunicazioni recenti sembrano indicare, paradossalmente, che gli ipertesi grassi hanno un migliore destino degli ipertesi magri. In attesa di conferme, si ha l'impressione che il problema vada inquadrato nelle relazioni paraboliche tra indicatori di obesità e speranza di vita. Spesso l'ipertensione viene trattata come malattia e fenomeno a sé stante, con propria prevalenza, incidenza e fattori di rischio, ma si tratta in gran parte di un artifizio. i) Indicatori di obesità (categoria dei fattori misurabili). Le misure antropometriche, quali il peso e i valori da esso derivati come l'indice di massa corporea, lo spessore delle pliche cutanee e altri continuano a creare problemi interpretativi nei riguardi del loro ruolo di fattori di rischio cardiovascolare. Numerosi studi, ormai, tendono a documentare una relazione parabolica tra questi indicatori e l'incidenza-mortalità, con massimi agli estremi e un minimo a valori relativamente intermedi. Il valore di indice di massa corporea-kg/(m)2 desiderabile, da tale punto di vista, sembra essere, per gli uomini di età media, relativamente alto e cioè attorno a 27-28. Tuttavia, sembra anche chiaro che elevati valori di indice di massa corporea sono predittivi di un eccesso di patologia, solo se si accompagnano a incrementi nei livelli di glicemia, colesterolemia e pressione arteriosa. l) Diabete (categoria dei fattori misurabili). Il ruolo del diabete franco, quale fattore di rischio della patologia arteriosclerotica, è confermato. Non altrettanto lo è quello della glicemia per valori inferiori a quelli molto elevati, come indicato da una revisione comparativa tra studi condotti in vari paesi. m) Indicatori di physical fitness. Relazioni positive con il rischio coronarico sono state indicate per la frequenza del polso; relazioni negative per la circonferenza del braccio (quale indicatore di massa muscolare), la capacità vitale, il volume espiratorio e la capacità di lavoro muscolare misurata con un test da sforzo. n) Fattori della coagulazione (categoria dei fattori misurabili). Solo recentemente alcuni componenti della coagulazione, da tempo sospettati quali fattori di rischio, sono emersi con un potere predittivo significativo in studi epidemiologici longitudinali. Al momento solo il fibrinogeno e il fattore VII sono chiaramente documentati in questo ruolo. Gli studi sulle prostacicline, sul trombossano e sull'aggregazione piastrinica sono per ora confinati alle procedure caso-controllo e pertanto non rivestono ancora significato epidemiologico. o) I fattori multipli e l'analisi multivariata. Non vi è studio epidemiologico longitudinale recente che non abbia impiegato l'analisi multivariata per creare funzioni di rischio multivariate o almeno per convalidare il ruolo indipendente di un singolo fattore a parità di altri, già ritenuti o dimostrati tali, cui viene attribuito il ruolo di possibili confondenti. Il vantaggio fondamentale nell'uso della funzione logistica multipla, rispetto alla regressione lineare multipla, consiste nel poter trattare il rischio come una vera probabilità e non come un punteggio. L'avvento del modello proportional hazards ha avuto il merito di poter trattare senza distorsioni, e superando in parte il problema dei rischi in competizione, dati derivati da follow up molto lunghi, basandosi sul meccanismo delle tavole di sopravvivenza, ma esigendo peraltro la conoscenza della data di ogni singolo evento. Il potere discriminante delle funzioni di rischio prodotte da parte di questi modelli è abbastanza ben definito: in genere circa 1/3 dei nuovi eventi si colloca nel decimo superiore della graduatoria del rischio stimato, e circa la metà nei 2 decimi superiori della stessa. Il rischio relativo tra decimi estremi di rischio stimato può essere di 10-20 o più. Non vi sono stati negli ultimi anni progressi sensibili nello sviluppo di modelli che permettano di trattare contemporaneamente, e senza fenomeni di collinearità o confondimento, fattori molto correlati tra di loro. La scarsa significatività di un membro di una coppia di fattori molto correlati, o la sua esclusione con l'uso di procedure stepwise (che configurano rapidamente dei fenomeni di saturazione) rappresentano alcuni inconvenienti che non hanno reso possibile espandere di molto il set di fattori altamente predittivi. D'altra parte, la letteratura non documenta molti tentativi per esplorare contemporaneamente diversi fattori, mentre v'è la tendenza di valutarne uno per volta, apparentemente nuovo, a parità di quei pochi considerati veramente importanti e cioè l'età, la colesterolemia, la pressione arteriosa e il fumo di sigaretta. Un aspetto particolare dell'analisi multivariata consiste nel tentare di valorizzare il contributo predittivo delle variazioni nel tempo dei fattori, quale ulteriore fattore di rischio. È già stato dimostrato che l'inclusione nei modelli di indicatori di variazione nel tempo dei livelli di alcuni fattori, come la colesterolemia, la pressione arteriosa e il consumo di sigarette, contribuisce a migliorare la predizione e la discriminazione tra casi e non casi. I modelli multivariati disponibili hanno consentito di trasformare queste conoscenze in manuali di rischio coronarico, come è avvenuto negli Stati Uniti, in Israele, in Italia, in Germania, in Danimarca, in Gran Bretagna, in Nuova Zelanda e altrove. Una grande aspettativa per migliorare il potere predittivo dei fattori di rischio oggi noti è riposta nell'uso di modelli basati sulle reti neurali, che sono ora in via di sperimentazione. Quanto detto nei riguardi dei fattori di rischio vale sostanzialmente sia per la cardiopatia coronarica sia per gli accidenti cerebrovascolari e per le arteriopatie periferiche. In linea di massima, tuttavia, si può affermare che nella predizione della cardiopatia coronarica il ruolo dominante è quello della colesterolemia e dei lipidi ematici; nella predizione degli accidenti cerebrovascolari tale ruolo è assunto dalla pressione arteriosa; mentre nel caso delle arteriopatie periferiche il fumo di sigaretta sembra essere il fattore principale.
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