COREGLIA, Isabetta (Elisabetta)
Quasi nulla sappiamo della nascita, della attività e delle vicende esterne di questa scrittrice. I frontespizi delle sue opere la dicono lucchese: nacque probabilmente nei primissimi anni del Seicento (non, comunque, dopo il 1605 poiché tra le Rime del 1628, p. 41, è accolto un madrigale composto in occasione del ventitreesimo compleanno). Anche le voci bibliografiche che elenchiamo in fine - tranne il breve ma concreto contributo del Biondi - altro non offrono che la menzione delle opere o sono, come quella del Modugno, elusive e generiche. Pure scarse sono le notizie fornite dalle Memorie degli scrittori lucchesi di A. P. Berti (ms. 33 della Bibl. governativa di Lucca).
Le Rime spirituali e morali (Pistoia 1628) dedicate al p. Antonio Bendinelli, del quale l'autrice si dice nipote, priore di S. Bartolomeo in Pistoia, sono testimonianza di un esercizio poetico esteso e vario anche se non sempre sicuro: lo stampatore vi preannuncia l'imminente pubblicazione di altre poesie (sonetti, idilli, egloghe e una pastorale) che confluiranno poi in un ampio zibaldone (Raccolta di varie composizioni della sig.ra Isabetta Coreglia), rimasto inedito nella Bibl. governativa di Lucca, ms. 205.
Nelle Rime spirituali largamente domina la materia devota: rime di preghiera, celebrative di ricorrenze liturgiche, di meditazione sullo stato religioso, come per la sorella Ippolita, monaca. Anche le numerose rime di corrispondenza, pur quando fanno intravvedere le tracce di un sentimento amoroso, offrono sempre dell'amore un'immagine spiritualizzata. Quasi indecifrabili risultano le allusioni all'esperienza privata: la C. insiste spesso sulla propria "poca capacità" e "maligna fortuna" e su un'inerzia di fondo ("Nulla, nulla facc'io, nient'opro, il veggio...", p. 47) accompagnata peraltro da un acceso desiderio di gloria e da una "naturale vaghezza di Poesia". Alcune allusioni del citato madrigale natalizio ("Né mi vale il mio canto, / A far men crudo e rio / Il veglio frettoloso, e l'incostante / Donna audace e arrogante...") parrebbero rinviare al padre e alla madre, ai quali però son dedicate altre rime affettuose. Il soprannome di Nerina, che figura nel frontespizio dell'opera, sarà maschera letteraria piuttosto che nome d'arte connesso con un'attività musicale o teatrale a cui potrebbe far pensare qualche vago accenno all'esercizio del "canto", intorno alla quale però non abbiamo nessuna testimonianza effettiva.
Nei primi mesi del 1634 si trovava in Venafro, non sappiamo per quali ragioni né per quanto tempo. Probabilmente il soggiorno napoletano non fu breve: la C. fu allora in relazione con varie accademie locali e in particolare con quella degli Incauti. Numerosi verseggiatori di questo ambiente, da Giovan Leonardo Bovaro a Mario Rota a Orazio Comite a Onofrio Ricci ad Andrea Quaranta, ebbero per lei (nelle pagine introduttive della Dori) parole di alta e talora anche iperbolica lode. Degna di menzione è la corrispondenza col maggior poeta napoletano del tempo, Girolamo Fontanella, che la chiamò "Saffo seconda" e con lei corrispose amichevolmente (cfr. B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, II, Bari 1954, p. 164).
Durante il soggiorno napoletano pubblicò la favola pastorale Dori (Napoli 1634).
La scena è posta in Sesto, villa del Lucchese. La pastorella Dori ama l'ingrato Gradisco, infaticabile cacciatore alieno dall'amore: nel corso di un gioco Dori ha dichiarato il suo sentimento al giovane, che ora la sfugge. Dori è amata da Aristeo, che poi risulterà essere suo padre, e la vicenda amorosa s'interseca con quella di altri personaggi, secondo una logica della iterazione e del rovesciamento speculare largamente praticata nel genere pastorale e nel romanzo. Non manca infatti un vero e proprio inserto romanzesco, come il racconto finale che Dori fa della sua "historia intera" dopo che la lenta sofferenza d'amore, e anzi morte apparente (vera manifestazione di isteria), ha piegato la ritrosia di Gradisco. Il lieto fine che gratifica i due protagonisti reca necessariamente con sé tutta una serie di felici scioglimenti.
L'opera della C. è agile e abile, e bene vi si scorge la sicura assuefazione ai modi della melica e della lirica contemporanee, soprattutto nei palesi debiti tassiani e guariniani, e nelle riprese del descrittivismo mariniano. Tenui e sfumati sono i riferimenti alla realtà, ma non tanto che non si possano vedere nella pastorale i valori e i modi di vita di una società elegante, stilizzati con una notevole abilità ed evocati in forme indirette e allusive. Robusta è anche, seppure studiosamente occultata, la sotterranea vena erotica del racconto, oscillante tra l'aspirazione a cogliere i momenti effimeri del piacere e le riserve di un'etica borghese che corregge l'immagine dell'amore con la regolarità del matrimonio e con una savia coscienza della fugacità della bellezza; dichiarazioni, queste, di registro moralistico affidate per lo più all'intervento del coro.
Dello, stesso anno della Dori sarebbe un'altra operetta (Lo sposalizio spirituale di S. Caterina vergine e martire con Cristo, con un Dialogo de' Ss. Sacramenti, Napoli 1634) menzionata dallo Sforza, della quale non resta altra notizia. Posteriore al soggiorno napoletano dovrebbe essere la citata Raccolta di varie composizioni, dove si rileva una grande varietà tematica e un mestiere esperto che fa supporre diretti contatti con la scaltrita lirica meridionale.
Le relazioni amichevoli col mondo napoletano dovettero comunque continuare a lungo se anche una seconda favola pastorale, Erindo il fido, pubblicata a Pistoia nel 1650, fu dedicata ai conservatori dell'Accademia degli Incauti.
Ancora una volta la scena si figura in un luogo del Lucchese, Lugneta di Castiglione. Erindo, pastore di Moriano, che crede Menalippo padre suo, interviene di nascosto alla festa di Venere in Castiglione e s'innamora di Rosalba figlia di Gilandro. La ninfa, seguace di Diana, non cura le sue parole, e in vendetta di tanto disprezzo Amore vuole che Rosalba, a guisa di un altro Narciso, si innamori di se stessa, sino a diventarne forsennata. Erindo tenta di uccidersi: lo salvano il pietoso Clizio e la stessa Rosalba. Alla felicità dei due giovani non manca che l'assenso di Gilandro, ma si scopre che Erindo è in realtà Logisto, figlio di Gilandro e fratello dunque di Rosalba. Gli amanti sconsolati ritrovano vita nell'apprendere da Eupisto, balio della creduta Rosalba, che la giovane è invece Lucilla ed è figlia di Menalippo. Rispetto alla Dori la nuova pastorale appare più greve, meno ariosa e meno ricca di motivi.
Nella prefazione dell'Erindo è rammentato l'Absalon, "opera Sacra e Tragica", che fu probabilmente un lavoro abbozzato e interrotto, del quale, in ogni caso, non resta traccia. Pure nessuna notizia rimane sugli ultimi anni e sulla morte della Coreglia.
Bibl.: F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, V, Milano 1744, pp. 417, 421; VII, ibid. 1752, p. 242; L. Allacci, Drammaturgia, Venezia 1755. coll. 263, 300; P. Napoli Signorelli, Storia critica de' teatri, IV, Napoli 1789, p. 138; C. Lucchesini, Memorie e docum. per servire all'istoria del ducato di Lucca, VI, Lucca 1825, p. 46; P. L. Ferri, Bibliotecafemminile ital., Padova 1842, p. 129; G. Sforza, F. M. Fiorentini ed i suoi contemp. lucchesi, Firenze 1879, pp. 43 s.; O. Modugno, Glorielucchesi, s. l. né d. [ma Lucca 1907], pp. 45-49; A. Biondi, E. C., poetessa lucchese del sec. XVII, in Riv. di archeol., storia, econ., costume, III (1975), 4, pp. 36-41.