SFORZA, Isabella
– Figlia naturale di Giovanni, signore di Pesaro e Gradara, nacque nel 1503 a Mantova, dove fu tenuta a battesimo da Cecilia Gallerani.
Il padre la riconobbe nel suo testamento (24 luglio 1510), assegnandole una dote di 3000 ducati. Con breve del 18 agosto 1520 Leone X impose al governatore pontificio del Ducato di Urbino (dopo la morte di Lorenzo de’ Medici, nel 1519, era Roberto Boschetti) di maritarla a Cipriano Sernigi, ricco mercante dell’arte della lana, di provata lealtà medicea. Le nozze vennero celebrate per procura a Pesaro, in presenza delle autorità cittadine, nella chiesa di S. Maria Maddalena davanti a notaio. Le difficili trattative per la dote, documentate nei verbali consiliari, si arenarono presto tra vincoli giuridici sull’eredità sforzesca e diritti concessi alla città di Pesaro nel 1519. Solo nel 1525 venne raggiunto un accordo definitivo con il duca di Urbino, obbligando il dazio della grascia.
Nell’estate del 1524 Isabella era a Cremona quando Ginevra Bentivoglio, vedova in prime nozze di Galeazzo Sforza, dettò il suo testamento, con il quale accordò alla nipote acquisita il diritto agli alimenti, secondo il suo rango, nel palazzo di città. Per l’erede, il figlio di Ginevra in seconde nozze (con Manfredo Pallavicini), Sforza Pallavicini e i suoi tutori, un’inaccettabile trasmissione femminile, fonte di conflittualità per decenni.
Durante l’assedio imperiale al castello di Milano, nel 1526, Isabella fece parte della cerchia ristretta degli informatori nel campo dei confederati e si trovò a fronteggiare missioni rischiose – come trasmettere missive diplomatiche cifrate – di cui fu chiamata a rendere conto davanti ad Alfonso d’Avalos, comandante dell’esercito imperiale.
Francesco Sforza dimostrò grande liberalità verso Isabella. Nel 1527 vincolò sui beni della Sforzesca di Castell’Arquato, appartenuta a Sforzino Sforza di Santa Fiora, un usufrutto di 200 scudi d’oro annui. L’anno dopo Isabella fu iscritta nel registro dei provisionati della Tesoreria ducale e nel 1532 le venne assegnato un vitalizio sulle entrate del dazio del vino al minuto di Cremona.
A causa dei contrasti con i Pallavicini (per la ‘convivenza’ nel palazzo di Cremona e, probabilmente, anche per la sua fedeltà pro-Sforza non certo condivisa da tutti i Pallavicini) e con un matrimonio già naufragato definitivamente quando Sernigi (nel 1527) venne messo al bando da Firenze a causa dei debiti, nel 1528 si vide negare il diritto di vivere nel palazzo di Cremona, commutato con un credito annuo di 150 scudi sull’eredità di Ginevra Bentivoglio, lasciando così intatto il patrimonio familiare dei Pallavicini.
Ai primi di agosto del 1532, durante una lite, il marito venne assassinato a Parma, in sua presenza, da Ottaviano Lampugnano, da molti anni suo procuratore, che riuscì a dileguarsi. Fortemente compromessa, Isabella venne arrestata e condotta nel convento di S. Caterina, che avrebbe lasciato solo su cauzione, grazie alla mediazione degli inviati ducali. Protestò la propria innocenza, volle essere interrogata e il caso, alla fine del mese, fu chiuso.
Nel gennaio del 1534 fu allontanata dalla corte e dal ducato, come risulta da due lettere al duca Francesco II Sforza nelle quali respinse come false le voci fatte circolare sul suo conto. Le fu concesso di tornare nel ducato solo otto mesi dopo. Sul finire dell’anno, con il consenso del duca, sposò Francesco Bergamini, figlio di Cecilia Gallerani. Durante la quaresima non venne assolta in confessione e il matrimonio, contratto in violazione delle norme canoniche – il divieto di contrarre nozze con il figlio della madrina, suo fratello spirituale – fu dichiarato nullo. Ottenne una dispensa dalla Penitenzieria apostolica, ma dopo la morte del duca (1° novembre 1535) il matrimonio non venne più celebrato.
Quanto fragile fosse improvvisamente la sua condizione di vedova senza agnazione paterna lo dimostra una lunga serie di atti notarili. Molte sono le procure, lungo gli anni, per Ottaviano Lampugnano. Già nel 1536 si aprì un contenzioso con Costanza Farnese, decisa a rivendicare tutti i diritti sulla Sforzesca. E Sforza Pallavicini, cessata la tutela, avrebbe ridimensionato il legato testamentario della madre.
Largamente documentate sono le sue crescenti difficoltà finanziarie nei primi anni Quaranta, quando visse a Piacenza e fu costretta a ricorrere al pegno di gioielli e preziosi arredi e forse a prestiti dissimulati. Si acuirono nel 1543, quando Sforza Pallavicini cercò di estrometterla dalle proprietà rurali nel territorio di Cortemaggiore, precedentemente accordatele. Fu allora che, in forza di un atto notarile, rivendicò il diritto al nome Pallavicini dell’erede-debitore: la formale protesta al podestà è infatti presentata a nome di Isabella Sforza Pallavicini. La vicenda si concluse solo nel 1546, dopo l’avvento di Pier Luigi Farnese.
Negli ambienti letterari piacentini fu elogiata soprattutto per l’esemplarità delle sue scelte religiose, orientate su un modello di raffinato spiritualismo. È molto probabile che accordasse protezione a Ortensio Lando, propagandista della Riforma, anche se le testimonianze in proposito sono dello stesso Lando. Sotto il nome di Isabella uscì a Venezia nel 1544, per i tipi di Paolo e Aldo Manuzio il Giovane, il trattato Della vera tranquillità dell’animo, munito di doppio privilegio di stampa di Paolo III e della signoria. Con lo pseudonimo di Tranquillo, Lando firmò la lettera dedicatoria a Otto Truchsess, vescovo di Augusta.
Il trattato è articolato nella tensione tra il concetto filosofico della tranquillità dell’animo – l’insegnamento degli antichi, dal quale può scaturire una riforma morale della vita e della società cristiana – e la vera quiete dell’animo del cristiano, riconciliato con Dio non per propri meriti, ma per il sacrificio di Cristo. Riproposta negli anni cruciali del conflitto religioso, è una riflessione sul tema del peccato e della grazia, fondata interamente su citazioni scritturali e patristiche, presentata con la concretezza di una personale esperienza di fede, narrata in prima persona dall’autrice.
Alla sua fama di letterata contribuì la raccolta di Lettere di molte valorose donne nelle quali chiaramente appare non esser né di eloquentia né di dottrina alli huomini inferiori (Venezia, G. Giolito, 1548 e 1549), la cui attribuzione a Lando è dagli studiosi largamente condivisa, mentre rimane l’interrogativo sul valore dei nomi nella finzione epistolare.
Nella raccolta sono a suo nome lettere sulle responsabilità di una sovrana cristiana e l’urgenza di tornare a una predicazione evangelica, sull’esortazione alle donne a perseverare nello studio delle Scritture, un galateo per bambini (tratto dal De civilitate morum puerilium di Erasmo da Rotterdam, 1530) e un temerario elogio della poesia ricorrendo alle Scritture. È anche destinataria di lettere che non nascondono come fosse ormai indifferente alle tesi sostenute alcuni anni prima.
Isabella tornò a Pesaro nel 1548. Davanti al monastero di S. Maria Maddalena costituì suo procuratore Giovanni Pacini, medico e familiare del cardinale Ranuccio Farnese, per definire le quietanze definitive della dote con Guidubaldo Della Rovere. Commissionò per la chiesa la lapide commemorativa della dinastia pesarese degli Sforza d’Aragona, ora in palazzo Almerici.
Dal 1550 visse a Roma; su questo periodo le notizie si fanno molto frammentarie. Risulta il pagamento di un censo di 1000 ducati tra i mandati della Camera apostolica, mentre sono andati perduti il suo testamento e un successivo codicillo rogato dal notaio di fiducia di Ranuccio Farnese.
Fu citata a comparire davanti al tribunale romano del S. Uffizio; il procedimento inquisitoriale è documentato solo nei Decreta, dove è rubricato come «causa Isabella Sforza Pallavicini». Nella congregazione del 25 gennaio 1560, presieduta da Michele Ghislieri, la prima dopo l’elezione di Pio IV, le fu proibito di abbandonare la città, ma non si conoscono gli elementi acquisiti dal S. Uffizio né l’identità del testimone d’accusa. Il 3 aprile 1560, dopo la lettura del processo, i giudici della fede si pronunciarono per l’assoluzione.
Isabella morì il 22 gennaio 1561. Una lapide commemorativa fu apposta nell’antico Portico leoniano della basilica di S. Giovanni in Laterano, di cui Ranuccio Farnese era arciprete. Il bassorilievo marmoreo, con un ritratto di profilo, è ora collocato nel corridoio della sacrestia: Isabella vi è ricordata per prudentia e pietas.
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