ironia
Consiste nel dissimulare un pensiero attraverso un'espressione che ne capovolge apparentemente il senso. L'intenzione nascosta dietro la forma ironica del discorso si rivelava, secondo la retorica classica, per mezzo dell'inflessione della voce, con cui l'oratore pronunciava le sue parole. Nella Commedia l'i. è ovviamente affidata, in genere, a certe forme enfatiche e iperboliche che ne accentuano l'effetto mettendone in evidenza il senso, specie in relazione con gl'intenti satirici del poema.
Tipica è l'i. di certe famose invettive, come quella di If XXVI 1 ss. (Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande), dove la vastità della fama, che dal cielo giunge all'Inferno, nasconde l'‛ infamia ' della corrotta città. Una serie di espressioni ironiche sostanzia l'invettiva di Pg VI. Accanto alle esclamazioni, in cui l'i. è scopertissima (Vieni a veder la gente quanto s'ama!, v. 115), si legge un passo, in cui l'i. diventa più complessa ed elaborata (vv. 127-144 Fiorenza mia, ben puoi esser contenta / di questa disgression che non ti tocca) e che si conclude con l'uso ambiguo e ironico dell'aggettivo ‛ sottile '. In un'altra invettiva, quella di Pg XX, il poeta incalza con un modulo ironico simile per sottolineare l'instancabile attività malefica della monarchia franca: per far conoscer meglio e sé e ' suoi (v. 72), dove l'i. scaturisce ovviamente dal fatto che una tale intenzione dovrebbe presupporre un'opera moralmente positiva; perché men paia il mal futuro e 'l fatto (v. 85), dove l'i, scaturisce invece dalla simulazione di un'incredibile ragione che avrebbe condotto il re di Francia a compiere la più recente empietà. L'i. può nascondersi anche nell'interrogazione retorica (v.), quando quest'ultima pone un'inconcepibile domanda, come in If XIX 90 92 (Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / nostro Segnore in prima da san Pietro... ?). Inserita ancora in un'invettiva, l'i. si smorza in questo caso per il sopravvenire della forma cruda e precettiva del discorso morale.
Un'interrogazione retorica è la forma che assume l'i. in Pg XX 116-117 Crasso, / dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?. Sebbene anche in questo caso la formulazione ironica non sia che il modo per alludere con una variatio a un esempio (v.) a tutti noto, il carattere di scherno che assume l'i. nei confronti del peccatore è ben più evidente. Altrove, anzi, lo scherno umiliante si affida a una formula più sottile: il poeta finge con un tono che ha tutta l'apparenza di scaturire dalla compassione per il dannato, di augurargli il sollievo della pena, e intanto gli ricorda che il suo sforzo di trovar sollievo sarà eterno, quanto vano: se l'unghia ti basti / etternalmente a cotesto lavoro (If XXIX 89), dove lo stesso eufemismo (v.) di ‛ cotesto lavoro ' concorre all'effetto ironico.
Affini all'i, sono l'antifrasi (v.) e la litote (v.), collegate con la medesima tematica.