ironia
Nella filosofia antica è l’interrogare (dal gr. εἴρων «interrogante») fingendo di non sapere, o almeno esagerando, per reazione o per modestia, il proprio non sapere, e si esercita in partic. contro quella che Aristotele dice il contrario dell’i., la millanteria (ἀλαζονεία), ossia contro coloro che credono o vogliono far credere di sapere. Il carattere dell’i. contraddistingue anzitutto il procedere speculativo di Socrate, che dichiarandosi ignorante chiede lume all’altrui sapienza, per mostrare come quest’ultima si riveli in effetti inferiore al suo stesso sapere di non sapere; e poi compenetra anche il pensiero platonico, per lo meno negli aspetti polemici, onde esso non solo riprende e descrive la stessa i. socratica, ma anche (per es., nel Parmenide) combatte dottrine altrui fingendo di assumerle come vere e deducendone con simulata serietà l’assurdo: generando cioè la παιδεία dalla παιδιά, l’insegnamento dallo scherzo ironico. Differisce, invece, dall’i. socratica (che non è simulazione ma dubbio metodico e illuminata coscienza), quell’i. che è esaminata a più riprese nei libri morali di Aristotele e che è stata raffigurata, nell’aspetto e nel tipo dell’ironico, dal primo dei Caratteri di Teofrasto: essa viene infatti equiparata alla simulazione; e sullo stesso concetto di simulazione, ormai indipendente dall’i. socratica, si fonda la figura retorica dell’i. («un discorso che dice il contrario di quel che le parole significano»), la quale tende a distinguersi da quella, peraltro affine, del sarcasmo. Il concetto di i. torna ad assumere valore filosofico nel primo romanticismo tedesco, e soprattutto in Schlegel, esprimendo l’atteggiamento di superiorità dello spirito rispetto a ogni realtà per cui esso abbia avuto interesse, e quindi lo scarto tra l’infinità e la finitezza. Si comprende quindi come l’i. sia stata considerata costitutiva dell’arte (in cui appunto si sperimenta tale assoluta catarsi e autosufficienza), specialmente in sistemi estetici come quello di Solger, influenzati dalla concezione schellinghiana dell’arte come organo dell’assoluto, solo capace di comprendere, pur restando superiore e indifferente, l’estrema dualità dialettica del reale. Criticata da Hegel in quanto vacua manifestazione della soggettività, che pretende di porsi come assoluto negando ogni realtà finita, la concezione romantica dell’i. è stata in parte ripresa dall’esistenzialismo di Kierkegaard, dove costituisce un momento fondamentale dell’esistenza, consentendo all’uomo di distaccarsi dal mondo in cui è immerso l’esteta e di avviarsi verso lo stadio etico.