Irnerio
Irnerio non fu, sicuramente, il primo ad applicarsi allo studio dei testi del diritto romano giustinianeo (integranti quello che in seguito sarà detto Corpus iuris civilis), ma per primo nell’affrontarli usò in modo sistematico i metodi della scolastica, apponendo a essi glosse e manipolandoli per studiarli e renderli accessibili a un indefinito pubblico d’utenti; il suo nome fu ben presto riconosciuto dunque come quello d’un vero caposcuola, con l’appellativo di 'lucerna del diritto', eletto a simbolo di quella rinascita giuridica della fine dell’11° sec. che determinò il contemporaneo formarsi dell’inedita scientia iuris e della figura del suo interprete (legisdoctor, iurisperitus) per mezzo di un’entità educativa conosciuta poi come Università (Studium).
Appare impossibile scindere la vicenda biografica di Irnerio dall’operato di esegeta-divulgatore dello ius civile, determinante la sua importanza storica in assoluto. Per secoli, a disegnarne il mito è stata la tradizione universitaria bolognese, grazie principalmente a Odofredo Denari (m. 1265), secondo il quale i libri legum da Roma giunsero a Ravenna e poi a Bologna; un certo dominus Pepo cominciò a far lezione su essi, ma senza lasciare duratura traccia in confronto al primo vero docente, il dominus Irnerio, già magister in artibus, che iniziò a spiegare le leggi romane, in modo profondo, tanto da essere riconosciuto come primus illuminator scientie nostre.
Ignoti i dati biografici essenziali; in varie epoche solo sulla base di induzioni sono state formulate proposte – spesso condizionate dalla visuale del fenomeno 'origine dello Studium bolognese' accettata dal proponente di turno – di date e luoghi di nascita e di morte, di status personale. Gli studiosi concordano nell’identificare il territorio e il periodo che una volta si dicevano ‘di fioritura’, cioè Bologna, ultimo ventennio dell'11° sec. e primo del seguente; per il resto, possediamo elementi divisibili in tre classi: sicuri, probabili e oggetto di discussione, del tutto leggendari.
La figura storica di Irnerio ci viene proposta da una serie di documenti, quattordici, appartenenti agli anni compresi tra il 1112 e il 1125 (sono atti giudiziari, una donazione privata, privilegi concessi dall’imperatore Enrico V), nei quali egli compare come causidicus e iudex bononiensis; nonché dalle vicende romane del 1118, quando magister Guarnerius de Bononia et plures legisperiti appaiono coinvolti nell’elezione dell’antipapa Maurizio Burdino, arcivescovo di Braga (Portogallo); che precedettero ma forse non furono la causa diretta della scomunica fulminata nel 1119 dal Concilio di Reims nei confronti dell’imperatore e dei suoi fautori, compreso Irnerio (Mazzanti 2000, pp. 120-25).
Irnerius è forma tarda, della fine del 12° secolo. Prima, il nome compare in varie forme, da Warnerius e Wernerius a Guarnerius, Vuarnerius e Gernerius; il mutamento si spiega con l’interazione con gli usi dei parlanti il volgare in partibus Lombardie (Padovani 2006, pp. 1087-93), e probabilmente con la confusione di lingue regnante nell’ambiente internazionale dell’universitas scholarium bolognese. Collegato, il problema della sigla con cui viene indicato nelle glosse. Meno frequenti quelle firmate o attribuite in modo chiaro, come 'War.' o 'Varn.' e simili; moltissime appaiono siglate con l’iniziale 'Y', sicuramente a lui riferibile, per la quale si sono tentate varie spiegazioni. Importante appare la rivendicazione al grande maestro delle sigle 'J' e 'I', finora attribuite all’allievo Iacopo (Padovani 2006, pp. 1093-109).
Discussa appare l’origine nazionale perché, nonostante la qualifica di bononiensis prevalente nei documenti, esiste una tradizione che lo designa come theutonicus; in qualche modo connessa è l’identificazione, di proposta antica o recente, con persone dello stesso nome documentate in vari luoghi, tra le quali un Guarnerius presbiter nel 1101, de Brigey nel 1106 a Briey in Lotaringia (Mazzanti 2000, pp. 154-62; Cortese 2004, p. 600). Una delle leggende più note lo vuole scegliere il proprio successore tra gli allievi (detti quatuor doctores) Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo.
Al celebre glossatore, Hermann Kantorowicz nel 1938 attribuiva, pubblicandoli, lavori introduttivi al Codex e alle Institutiones, staccando definitivamente la comoda etichetta 'Irnerio' dalla decina d’opere più o meno anepigrafe cui era stata, specie nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, attaccata da alacri e peraltro benemeriti ricercatori (Hermann H. Fitting, Augusto Gaudenzi, Giovanni Battista Palmieri); le Questiones de iuris subtilitatibus, la Summa Codicis, le Exceptiones Petri, il Formularium tabellionum, e altri scritti antichi e notevoli, dovevano ritenersi prodotti di epoca e ambiente diversi e successivi. Restavano le molte glosse, edite sotto il nome d’Irnerio in vari tempi, riprese, discusse e rielaborate dagli epigoni; e proprio queste, che presentano spesso caratteristiche particolari, quali la capacità di risolvere con un colpo di genio grosse difficoltà gnoseologiche o quella di sintetizzare ardui problemi, dobbiamo eleggere a guida fondamentale per ricostruire il profilo intellettuale del maestro, cercando di accordare le indicazioni ricavabili da tale produzione con quanto risulta dai documenti sicuri e con le tradizioni storiografiche antiche.
I placiti e gli altri atti documentari (ripubblicati in Spagnesi 1970), dei quali solo l’ultimo appare di dubbia autenticità (Mazzanti 2009), presentano quasi tutti un legame con i territori ‘matildici’, vale a dire appartenenti a, o governati da, Matilde di Canossa, e poi entrati alla di lei morte nel 1115 in una questione ereditaria assai complessa, con strascichi ideologici fino al 1700, e forse anche oltre. Irnerio accompagna Enrico V nella ‘discesa’ del 1116-1118, fatta dall’imperatore anche per prendere possesso dell’eredità di Matilde, in parte come superiore feudale, in parte come cugino, parente più prossimo in mancanza d’altri eredi. Una faccenda eminentemente politica, ben concordante con il sostegno all’Impero accordato da una delle più celebri glosse irneriane, dove si dicono passati dal popolo al sovrano, tramite la cosiddetta lex regia, i poteri di governo. Due le controprove: la firma aggiunta da Irnerio a quella dell’arcivescovo e cancelliere – strano evento, per la diplomatica – al privilegio dell’imperatore, del 15 maggio 1116, con il quale si proteggono «le persone di tutti i cittadini bolognesi, i loro beni mobili e immobili, presenti e futuri». Come se si volesse riconoscere al giurista di aver svolto una specie di mediazione in una vicenda importante per lo sviluppo del Comune (Spagnesi 1970, pp. 154-59); e soprattutto l’elezione dell’antipapa nel 1118 – che prese il nome di Gregorio VIII, a significare sia la convinzione di essere il papa ‘autentico’, sia la volontà di continuare in qualche modo la grande opera del ‘matildico’ Gregorio VII opponendosi a Gelasio II, eletto regolarmente ma fuori di Roma, a Gaeta, per non sottostare alle pressioni del popolo. I giuristi, tra i quali Irnerio, convocarono la cittadinanza facendo illustrare da quidam expeditus lector alcuni decreta pontificum – verosimilmente quelli non autentici (Cortese 1995, 1° vol., pp. 359-60; 2° vol., pp. 69-74) – de substituendo papa.
Altro tipo di problema, ma collegato, il ruolo del giurista nel riconoscimento dell’autenticità dei testi giustinianei. Dietro le leggende raccolte da Odofredo vi sono certo verità che hanno segnato la scuola, specie sul ritrovamento e il recupero ‘a pezzi’ del Digesto (Vetus, Infortiatum, Novum) con l’attribuzione a Irnerio del nome Infortiatum – dove il racconto copre un evento fortuito a noi sconosciuto causante la strana divisione – e sulla vicenda del Liber authenticorum. Irnerio dapprima l’avrebbe giudicato una falsificazione operata «a quodam monacho», cambiando opinione prestamente per ricavarne le autentiche apposte in luoghi opportuni del Corpus. Aneddoto, questo, chiaramente originato da una glossa irneriana (al § 4 della costituzione Cordi, ove Giustiniano annuncia novellae constitutiones), importante come rivelatrice del metodo: lì si trovano critiche molto nette al Liber authenticorum, considerato appunto nella sua essenza e fisionomia giuridica di ‘libro’; mentre tale non è perché: a) il suo stile non concorda con quello delle altre costituzioni imperiali; b) nella collezione non sono presenti né un principio, né una fine (vale a dire: clausole ‘di stile’ usate per tali eventualità), né un ordine; c) le nuove costituzioni promesse nella Cordi dovrebbero riguardare solo ‘nuovi negozi’, non, come si nota nell’Authenticum, casi già regolati e soltanto corretti nel loro disciplinamento (E. Spagnesi, Iurisprudentia, stilus, au(c)toritas, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di Luigi Prosdocimi, a cura di C. Alzati, 2° vol., 2000, pp. 153-54).
Qui, al di là dell’amplificazione odofrediana, sono adombrate grosse questioni relative alla trasmissione e conoscenza in Occidente delle Novellae raccolte nella collezione detta appunto Authenticum, che sostituì l’Epitome Iuliani proprio con l’avvento della scuola di Bologna. Alcuni manoscritti testimoniano la circolazione congiunta dei due testi per un uso didattico, volto alla migliore comprensione delle Novellae – nell’Autentico in versione latina – attraverso l’Epitome (L. Loschiavo, Il codex graecus e le origini del Liber authenticorum, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 2010, 127, pp. 115-71, in partic. p. 147).
Nel suo complesso, l’attività di riconoscimento, di sistemazione e d’interpretazione-divulgazione dei testi va considerata fondamentale per stabilire un ‘ordine’ ove il diritto assumeva le valenze da allora caratterizzanti la civiltà occidentale (P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, 1995). Avvertenza utile ad affrontare gli altri autori (oltre Odofredo) cui Irnerio apparve personaggio eccezionale o eroico. Si tratta di Roberto di Torigni (m. 1186), abate del monastero normanno di Mont Saint Michel, che parlando di Lanfranco di Pavia (poi passato a Bec e infine a Canterbury dove fu arcivescovo dal 1070 per morirvi nel 1089) asserisce che Lanfranco e Guarnerio suo allievo, trovate a Bologna le leggi romane, s'erano dedicate a insegnarle, collocando l’episodio nel 1032; di Radulfus Niger (Rodolfo il Nero), teologo, storico e letterato inglese di educazione parigina, che in uno scritto databile tra il 1179 e il 1189 esalta Pepo per aver fatto trionfare giusti principi in un processo per l’uccisione di un servo, facendo applicare norme tratte dal diritto romano contro inique leggi longobarde; lo designa come «aurora iuris civilis», mentre da lui Irnerio è presentato come colui che riuscì a far accettare il diritto romano dalla curia di Roma, determinando la fortuna universale di esso; e di Burcardo di Biberach (m. dopo il 1231), il cui Chronicon urspergense cita Irnerio in un brano diviso in due parti: nella prima si dice ch’egli
libros legum, qui dudum neglecti fuerant nec quisquam in eis studuerat, ad petitionem Mathilde comitisse renovavit et secundum quod a dive recordationis imperatore Iustiniano compilati fuerant, paucis forte verbis alicubi interpositis, eos distinxit; (rinnovò, a richiesta della contessa Matilde, i libri delle leggi, che fino ad allora erano stati neglietti, e nessuno li aveva studiati; e li ripartì sistematicamnete secondo le indicazionidel loro compilatore, l'imperatore Giustiniano di divina memoria, solo interponendovi qua e là poche parole)
nella seconda parte si descrive il contenuto dei testi giustinianei.
Vanno considerati l’ottica e gli scopi degli autori menzionati: le parole del cronista Roberto, rifiutate in genere perché considerate risultato di un’informazione confusa e fuorviante, è stato dimostrato (Padovani 2007) come siano collegate al fervido ambiente anglo-normanno nel quale si svilupparono correnti di studio teologico e giuridico dalle caratteristiche assolutamente peculiari, anche grazie all’opera di un glossatore lombardo, Vacario, cui è dovuto l’inizio dell’insegnamento del diritto romano in Inghilterra, in particolare a Oxford, autore di un’opera conosciuta come Liber pauperum, di grandissima influenza e valore per le sorti della compilazione giustinianea. Nel brano del teologo inglese si tratteggia la posizione reciproca dei due maestri, che Rodolfo differenzia nei ruoli e anche per la conoscenza dei Digesta. Pepo riuscì a imporsi sulle leggi barbariche in giudizio davanti all’imperatore – essendo peraltro baiulus soltanto delle Institutiones e del Codex e ignorando completamente le Pandette; mentre il secondo, magister Guarnerius, avrebbe avuto il merito di far accettare alla curia romana lo ius civile, presentandolo religioso scemate, cioè secondo uno schema a essa gradito.
Ma è il passo della cronaca urspergense a offrire le maggiori possibilità di comprensione del lavoro di Irnerio. Attrasse l’attenzione la notizia del rinnovamento dei libri legali a richiesta della contessa Matilde. Si giunse a spiegare quelle parole con un ‘incarico ufficiale d’insegnamento’ conferito al giurista, anche in virtù di un preteso ‘vicariato italico’ di Matilde. Rigettata l’ipotesi, oggi s’insiste sulla richiesta d’una specie di edizione critica delle opere giustinianee, in conformità della preparazione in artibus e della vocazione filologica d’Irnerio (Cortese 1995, 2° vol., pp. 61-64; Cortese 2004, p. 602).
In realtà occorre percorrere altra strada. L’accostamento tra il magister Gratianus e il doctor Wernerius – proposto dal cronista e talvolta ritenuto dalla storiografia giustificato dalla nuova disciplina fondata, per il rispettivo campo, dai due capiscuola – deve collegarsi strettamente al tipo di operazioni fatte dai due maestri e al risultato del loro lavoro, situando la somiglianza a un livello quasi fisico, tra il Decretum grazianeo, e un’opera irneriana che non ci è pervenuta. Importante stabilire la fonte delle notizie date dal cronista Burcardo: quelle su Graziano le aveva reperite nelle Summae dei ‘decretisti’, per Irnerio, analogamente, in una materia operis civilistica, come si vede dalla seconda parte del brano, che non è una copiatura senza valore di un celebre passo di Paolo Diacono, ma un adattamento dovuto a un esperto del lavoro fatto sui libri di diritto, con cambiamenti significativi dovuti all’intento di adeguarne la sequenza a una visuale precisa di natura propriamente logico giuridica. Ciò induce a ritenere che la prima parte del brano fosse tratta da un prodotto dello stesso genere, vale a dire un proemio-dedica (accessus ad auctorem o exordium operis): le due sezioni del passo della cronaca si completavano a vicenda, conservando, se lette insieme, il ricordo dell’approccio prescritto dalle regole della scolastica alle ‘opere’ e agli ‘autori’. La contessa Matilde doveva essere soltanto la dedicataria di un lavoro specifico (così come successe per Donizone, cantore dei Canossa, il cui poema si conserva nell’originale con tanto di lettera di dedica in testimone unico), il che spiega perché si parli di petitio, termine molte volte impiegato come topos retorico giustificante il prodotto presentato in omaggio (Spagnesi 2006).
La ricostruzione concorda con quanto desumibile dal Liber divinarum sententiarum, opera basata sugli scritti di sant’Agostino, attribuita a certo «Guarnerio giurisperitissimo», la cui paternità irneriana, respinta, all’epoca della scoperta, come impossibile, in seguito generalmente non riconsiderata, da poco è stata invece riproposta come estremamente probabile (Mazzanti 1999; Spagnesi 2001); essa ci propone una fattiva ‘specializzazione’ nel ‘magistero delle arti’ del famoso giurista, e indirizza verso la vicenda, analoga, del Liber pauperum definito dall’autore Vacario un ‘compendio’ del Codice giustinaneo e del Digesto, con inserzione delle ‘autentiche’, che integravano o modificavano i testi ‘principali’ di questa grande composizione ‘a mosaico’, destinata a sopperire i mezzi necessari per risolvere gl’infiniti casi pratici offerti dalla vita quotidiana.
Possibilmente intitolata Wernerii librorum Iustiniani imperatoris renovatio l’opera, scomparsa – forse perduta per sempre, al pari d’un prodotto funzionale, ‘di consumo’, da non conservare, e comunque ritenuto ‘superato’ dalla scuola – antologizzava excerpta da tutte le quattro parti del corpus iuris, distinti in libri alla maniera scolastica e seguendo la falsariga del Codex, raccordati da dicta d’autore, anche accompagnati da altri passi testuali di spiegazione «in glose locum» (come accade nel Liber pauperum). Ciò spiega la frase riferita dall’Urspergense «solo interponendovi qua e là poche parole (paucis forte verbis alicubi interpositis)», anche questa riconducibile a un’autopresentazione, da parte d’Irnerio, del proprio limitato intervento, e analogamente l’inciso «e nessuno li aveva studiati (nec quisquam in eis [i libri legali] studuerat)» si riferisce al ligio rispetto della metodologia scolastica. Ovviamente tale renovatio non intendeva sostituire i testi originali, considerati libri ‘autentici’ e ordinario oggetto di lectura, cioè di ‘reverente’ esposizione raccolta in prodotti ‘magistrali’, bensì affiancare al recupero e al commento di essi un compendio indispensabile alla penetrazione nel mondo del sapere ‘di base’, ovvero un agilissimo attrezzo di contrasto del diritto barbarico, uno strumento di studio conformato ai metodi scolastici, alla cultura ‘giusnaturalista’ della cristianità, e ai suoi bisogni socioeconomici. L'opera poteva esser classificata unicamente come renovatio, sia perché il materiale è desunto per intero dalla compilazione giustinianea, sia perché valorizzava la figura principale di Giustiniano, generico ‘compilatore’ dei volumi delle leggi, come auctor e promulgator delle costituzioni imperiali (Spagnesi 2006).
Si applicava così al mondo laico il metodo usato dai Padri della Chiesa per i testi biblici, consistente da un lato nell’interpretazione di un testo collegata a quella di altri appartenenti alla stessa materia; dall’altro nel servirsi di un’unica collezione di norme per la soluzione di tutte le controversie (A. Padoa Schioppa, Riflessioni sul modello del diritto canonico medievale, in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, 2003, pp. 183-88).
Un esempio di applicazione pratica dei modelli teorici risultanti è fornito dal confronto tra una glossa di Irnerio, l’architettura quadripartita del Formularium tabellionum (G. Orlandelli, Scritti di paleografia e diplomatica, 1994, pp. 495-526) e la donazione fatta da un conte a una donna il 15 novembre 1116, attuata mediante un instrumentum simplicis donationis (Spagnesi 1970, pp. 79-81), cui presenziò Warnerius iudex, redatto da due notai, Bonando e Angelo, autori del rinnovamento nei moduli grafici dell’epoca poi messo al servizio dello sviluppo dello Studium (Spagnesi 1970, pp. 164-73).
E. Spagnesi, Wernerius bononiensis iudex. La figura storica d’Irnerio, Firenze 1970.
E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, 2 voll., Roma 1995, ad indices.
G. Mazzanti, Introduzione, in Guarnerius iurispertissimus, Liber divinarum sententiarum, a cura di G. Mazzanti, Spoleto 1999.
G. Mazzanti, Irnerio, contributo a una biografia, «Rivista internazionale di diritto comune», 2000, 11, pp. 117-181.
E. Spagnesi, Irnerio teologo, una riscoperta necessaria, «Studi medievali», 2001, 42, 1, pp. 325-79.
E. Cortese, Irnerio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 62° vol., Roma 2004, ad vocem.
A. Padovani, Il titolo "De Summa Trinitate et fide catholica" (C 1.1) nell’esegesi dei glossatori fino ad Azzone. Con tre interludî su Irnerio, in Manoscritti, editoria e biblioteche dal Medioevo all’età contemporanea. Studi offerti a Domenico Maffei per il suo ottantesimo compleanno, a cura di M. Ascheri, G. Colli, 3° vol., Roma 2006, pp. 1076-123.
E. Spagnesi, Magister Gratianus, dominus Wernerius. Le radici d’un antico accostamento, in Proceedings of the XIth congress of Medieval canon law, Città del Vaticano 2006, pp. 205-26.
A. Padovani, Roberto di Torigni, Lanfranco, Irnerio e la scienza giuridica anglo-normanna nell’età di Vacario, «Rivista internazionale di diritto comune», 2007, 18, pp. 71-140.
G. Mazzanti, Un falso irneriano? Riconsiderazioni sul documento del 1125, in Il contributo del monastero S. Benedetto Polirone alla cultura giuridica italiana (secc. XI-XVI), Atti del Convegno, San Benedetto Po (29 settembre 2007), a cura di P. Bonacini, A. Padovani, San Benedetto Po 2009, pp. 39-44.