Ireneo di Lione e Tertulliano: la difesa della fede cristiana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ireneo di Lione e Tertulliano, a partire dal confronto polemico con varie dottrine eretiche (gnostiche in particolare), hanno incentrato la loro riflessione teologica e antropologica sul tema del rapporto che lega uomo e Dio, missione del semplice credente e disegno del Creatore.
Attivo nella seconda metà del II secolo, il vescovo Ireneo di Lione sviluppa il suo pensiero teologico attorno a due nuclei concettuali fondamentali: la verità della fede cristiana e la comprensione del mistero di Dio. Secondo Ireneo, l’uomo è costitutivamente chiamato alla comprensione della verità rivelata, che rappresenta la condizione imprescindibile per acquisire la conoscenza di Dio. In una delle sue opere più importanti, l’Adversus haereses, Ireneo afferma che il compito di manifestare la verità su Dio si può esaurire soltanto se ci si impegna parallelamente nella confutazione delle dottrine che non sono conformi a ciò che è rivelato dalle Sacre Scritture. Entro questo progetto di difesa della verità cristiana gioca indubbiamente un ruolo rilevante la critica contro lo gnosticismo (cfr. AA.VV., La foi et la gnose hier et aujourd’hui: Irénée de Lyon, 1985).
Nel I secolo la gnosi viene identificata con il miraggio di una conoscenza rivelata perfetta, posseduta e trasmessa da iniziati, con la pretesa di offrire una spiegazione totale del mondo e del mistero dell’esistenza su base dualistica (contrapponendo cioè mondo del bene e mondo del male), e di indicare la via verso la salvezza dello spirito. Nel II secolo Alessandria si afferma come centro di uno “gnosticismo cristiano” in cui il maestro più influente è Valentino.
Un primo aspetto della polemica di Ireneo contro gli gnostici riguarda la conoscibilità di Dio. Secondo il pensiero gnostico, Dio non si può conoscere perché è troppo grande e supera immensamente la nostra misera esistenza; proprio perché misero, l’uomo non avverte la necessità di conoscere quel Dio che è al di sopra di tutto e dal quale tutto proviene; e la radicale alterità di Dio produce una netta separazione tra il Dio supremo e il mondo creato. Dio risulta pertanto sconosciuto e incomprensibile. Tra gli gnostici maggiormente contestati da Ireneo figurano certamente i valentiniani, che ritengono che Dio sia inconoscibile e che la percezione che l’uomo ha del Creatore, tramite l’osservazione del cosmo e delle realtà concrete, non debba essere confusa con la conoscenza del Principio originario. A loro avviso, la realtà suprema e sovracosmica, direttamente associata al Principio del tutto, sta nel Pleroma, che, privo di contatti con la realtà creata, è al di là di tutto ciò che è materiale.
Pur senza sminuire l’alterità e trascendenza di Dio e affermando la radicale differenza che separa Dio, increato e creatore, dall’uomo, creatura fallibile, che tutto riceve da colui che l’ha creata, Ireneo smonta le argomentazioni gnostiche affermando che l’uomo può conoscere Dio e che questa possibilità è una diretta conseguenza dell’amore di Dio per l’uomo. Nella storia umana si compie inoltre una progressiva rivelazione di Dio che ne procura una conoscenza reale e sostanziale. Per comprendere il senso di questa affermazione occorre ricordare che è centrale nella teologia di Ireneo la riflessione sul cosiddetto “ritmo trinitario della verità”. Questa espressione viene utilizzata da Ireneo per sostenere che la rivelazione di Dio e la storia dell’uomo sono segnate dal dinamismo del rapporto tra le persone della Trinità. La rivelazione è concepita da Ireneo come un percorso formativo all’interno del quale l’amore di Dio si pone come condizione e principio propulsore per la sua conoscenza e per la comprensione dei misteri rivelati. Senza l’agape divina, secondo Ireneo, sarebbe impossibile conoscere Dio e persino vederlo (cfr. Bart Benats, Il ritmo trinitario della verità. La teologia di Ireneo di Lione, Città Nuova, 2006). A partire da queste premesse Ireneo evidenzia la stoltezza e contraddittorietà delle conclusioni gnostiche riguardo alla conoscibilità di Dio e all’interpretazione dei concetti di “trascendenza” e “rivelazione”. Egli afferma che Dio è incommensurabilmente al di sopra delle possibilità conoscitive umane (non possiamo conoscere Dio senza l’aiuto di Dio), ma ricorda che Dio si fa conoscere tramite il Verbo. A suo avviso, per approfondire il mistero rivelato, l’uomo deve dunque affrontare un percorso di crescita: rispetto a Colui che lo ha creato, egli si trova in una condizione di “giovinezza” e deve progressivamente maturare verso l’acquisizione della piena conoscenza.
Un secondo aspetto rilevante della polemica antignostica di Ireneo concerne l’interpretazione della creazione.
Secondo i valentiniani, la creazione è la degradazione dal Pleroma originario e il Dio dell’Antico Testamento coincide con il Demiurgo, che, proclamato signore della creazione, opera a partire da una materia preesistente alla quale si adegua. Da questa valutazione negativa del creato gli gnostici ricavano la tesi secondo cui la creazione non sarebbe in rapporto diretto con Dio: sostanzialmente separato dal Padre, da lui non voluto, il creato è decaduto. Preoccupato per le pericolose implicazioni antropologiche di questa tesi, Ireneo confuta gli gnostici affermando che il creato non è frutto del caso ma è l’esito della libera iniziativa di Dio. Principio assoluto di tutto ciò che esiste, Dio è volontà e materia da cui tutto trae origine. Nel processo creativo, come nella storia, si manifesta il dinamismo trinitario: infatti, secondo Ireneo, Dio crea da se stesso, assistito dal Figlio e dallo Spirito Santo (che sono le “mani” di Dio).
Reagendo contro l’idea che la perfetta gnosi (penetrazione intellettuale della fede in tutta la sua ampiezza) consista nell’apprendere che il Padre è inafferrabile e incomprensibile, nell’Adversus haereses, Ireneo afferma che fare theologia significa penetrare nel mistero di Dio, che ci dà vita e conoscenza. La storia rappresenta lo scenario ideale in cui Dio si fa conoscere instaurando con l’uomo un legame sempre più intenso. La verità cui attingere attraverso il confronto con i misteri divini si identifica ovviamente con la fede cristiana e viene diffusa dalla Chiesa, che l’ha ricevuta direttamente da Dio. Luogo della verità, la Chiesa è frutto dell’azione rivelativa di Dio e rende possibile all’uomo percepire Dio in modo adeguato. La comunione con Cristo e la presenza dello Spirito Santo fanno della Chiesa il luogo in cui si attualizza nella storia il rapporto con Dio.
Secondo Ireneo, per conoscere la rivelazione e comprenderne i misteri, sono essenziali alcuni principi complementari: oltre che dalla tradizione apostolica, vescovile e presbiteriale, il credente deve farsi guidare dalla cosiddetta “regola della verità”, che assicura la stabilità della fede e costituisce un valido strumento per la demolizione sistematica delle tesi gnostiche. Ireneo offre questa formulazione della “regola della verità”: “vi è un solo Dio onnipotente, che con il suo Verbo ha modellato o formato dal non esistente tutto ciò che esiste”. Questa verità è stata diffusa dagli apostoli, è stata manifestata a tutto il mondo e collega la Chiesa alla sua storia e a Dio. Chiave di interpretazione della Sacra Scrittura, la regola è espressione della verità originale che la Chiesa conserva e offre ai credenti la possibilità di riconoscere e confutare tutte le dottrine eretiche. Se le argomentazioni illogiche e macchinose degli eretici sono prive di corrispondenza con il dettato scritturale, la regola invece è al centro di ogni teologia e dà coerenza e consistenza ai misteri divini consegnati alla Sacra Scrittura. Una e assoluta, la regola si pone come criterio di verità. In polemica contro gli gnostici, Ireneo dichiara di volere una “obbedienza semplice” alla Sacra Scrittura e alla regola di fede: mentre gli eretici divulgano bizzarre fantasie, i credenti devono accostarsi alla fede con una sana comprensione, circospetta e pia.
Come si è visto, Ireneo difende una concezione dinamica della storia, che reputa contraddistinta da un ritmo trinitario. Gesù compie la sua attività nella storia servendo il Padre, al quale è legato da un rapporto sostanziale: nel Figlio fattosi uomo si rende presente, e quindi si può conoscere e vedere, il Padre, che è apparentemente invisibile. La rivelazione del Padre e quella del Figlio non possono avvenire l’una senza l’altra.
Ireneo ritiene che l’esperienza di Dio nei vari momenti della storia sia scandita da tre tappe fondamentali:
(1) la rivelazione di Dio attraverso la creazione e l’azione universale del Verbo nel cosmo;
(2) nel tempo dell’antica alleanza: la manifestazione profetica attraverso lo Spirito;
(3) l’incarnazione del Figlio e il tempo della Chiesa: manifestazione nel modo di adozione mediante il Figlio.
Solo alla fine dei tempi, compiuta la propria manifestazione, Dio permette all’uomo di godere di una visione “secondo la paternità”.
Polemizzando contro le mitologie gnostiche, Ireneo propone una teologia della storia della salvezza che non si realizza fuori del nostro spazio e del nostro tempo, pur compiendosi appieno solo in contesto escatologico. Introdotta per rimarcare la profonda interazione tra rivelazione divina e storia umana, l’espressione “a ricapitolazione di tutto nel Cristo”, secondo Ireneo, indica che Cristo compie la salvezza ricapitolando (riassumendo) in se stesso il genere umano e la sua storia. Per spiegare come Cristo contribuisca a rendere l’uomo partecipe della gloria di Dio Ireneo si serve dell’espressione “la gloria di Dio è l’uomo vivente”, che significa che la gloria di Dio coincide con la massima affermazione dell’uomo: Dio vuole la realizzazione dell’uomo in quanto uomo, ma una simile realizzazione totale si trova solo nella comunione con Dio.
Questa affermazione ha importanti implicazioni sull’antropologia di Ireneo, che presenta l’uomo come:
(1) essere creato da Dio (contro il panteismo disincarnato e l’angelismo);
(2) essere creato perché viva: la salvezza porta a compimento nell’uomo sia l’immagine sia la somiglianza secondo cui è stato creato;
(3) essere in divenire: sarà perfetto solo alla fine della sua storia (perché il tempo e la storia sono il luogo di maturazione in cui si compie il disegno divino);
(4) essere libero e responsabile: l’azione di Dio nei confronti dell’uomo libero è una lenta educazione dell’umanità (compare qui il tema della “pedagogia divina”, classico nei Padri della Chiesa, che combina l’iniziativa divina con il totale rispetto della libertà della creatura).
Ireneo di Lione
La “regola di fede” formulata da Ireneo
Dimostrazione della predicazione apostolica
Ecco l’ordine della nostra fede, il fondamento dell’edificio e la base della nostra condotta: Dio Padre, increato, incircoscritto, invisibile, unico Dio, creatore dell’universo. Tale è il primo e principale articolo della nostra fede. Il secondo è: il Verbo di Dio, figlio di Dio, Gesù Cristo nostro Signore, è apparso ai profeti secondo il disegno della loro profezia e secondo il modo disposto dal Padre; per suo mezzo è stato creato l’universo. Inoltre “alla fine dei tempi” per ricapitolare ogni cosa si è fatto uomo tra gli uomini, visibile e tangibile, per debellare la morte, far risplendere la vita e ristabilire la comunione di Dio e dell’uomo. Come terzo articolo: lo Spirito Santo, per virtù del quale i profeti hanno pronunciato le loro profezie e i padri hanno appreso ciò che riguarda Dio e i giusti sono stati condotti per la via della giustizia; alla fine dei tempi è stato effuso in modo nuovo sull’umanità per tutta la terra innovando l’uomo per Dio.
Per questo il battesimo che ci fa nascere di nuovo passa attraverso questi tre articoli e ci consente di rinascere a Dio Padre tramite suo Figlio e nello Spirito Santo. Perciò coloro che portano lo Spirito di Dio sono condotti al Verbo, cioè al Figlio, che li accoglie e li presenta al Padre e il Padre dona loro l’incorruttibilità. Senza lo Spirito Santo non si può vedere il Verbo di Dio e senza il Figlio nessuno si può accostare al Padre, perché il Figlio è la conoscenza del Padre e la conoscenza del Figlio avviene per mezzo dello Spirito Santo. Ma il Figlio, secondo la benevolenza del Padre, dispensa come ministro lo Spirito a chi lo vuole e come il Padre vuole.
Ireneo di Lione, “Dimostrazione della predicazione apostolica” , in Ireneo di Lione. Epideixis. Antico catechismo degli adulti, a cura di E. Peretto, Roma, Borla, 1981
Ireneo di Lione
La gloria di Dio è l’uomo
Contro le eresie, Libro IV, 20, 27
Dunque, il Figlio è rivelatore del Padre fin dall’inizio, perché è con il Padre fin dall’inizio ed ha mostrato al genere umano, nel tempo giusto e per il suo vantaggio, le visioni profetiche, le diversità dei doni, i suoi ministeri e la glorificazione del Padre, alla maniera di una melodia ben composta e armoniosa. Dove c’è composizione, lì c’è melodia; dove c’è melodia, lì c’è tempo giusto; dove c’è tempo giusto, lì c’è vantaggio. Perciò il Verbo divenne dispensatore della grazia paterna a vantaggio degli uomini, per i quali ha stabilito così grandi economie, mostrando Dio agli uomini e presentando l’uomo a Dio: salvaguardando l’invisibilità del Padre affinché l’uomo non divenisse disprezzatore di Dio e avesse sempre un punto verso il quale progredire, ma nello stesso tempo mostrando Dio visibile agli uomini per mezzo delle molte economie, affinché l’uomo, privo totalmente di Dio, non cessasse di esistere. Infatti la gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la manifestazione di Dio. Ora se la manifestazione di Dio che avviene attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, molto più la manifestazione del Padre mediante il Verbo dà la vita a coloro che vedono Dio.
Ireneo di Lione, “Contro le eresie”, in Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di M. Simonetti, Milano, Mondadori, 1993
Ireneo di Lione
La crescita dell’uomo
Contro le eresie, Libro IV, 38
Se qui si obiettasse: E che? Non avrebbe potuto Dio creare l’uomo perfetto fin dal principio? – si sappia che a Dio, che è sempre identico a se stesso ed è increato, per quanto riguarda lui, tutto era possibile; ma gli esseri creati, in quanto hanno avuto in seguito un principio di esistenza loro proprio, erano necessariamente inferiori a colui che li ha fatti. Infatti, non era possibile che fossero increati, essendo stati creati da poco. Ora non essendo increati, sono al di sotto della perfezione; essendo venuti all’esistenza da poco, sono infanti, ed essendo infanti non sono abituati ed esercitati al comportamento perfetto. Infatti, come la madre può certo dare all’infante un nutrimento perfetto, ma questo non è ancora in grado di ricevere un nutrimento superiore alla sua età, così anche Dio poteva dare all’uomo la perfezione fin dal principio, ma l’uomo non sarebbe stato capace di riceverla, perché era infante. Per questo anche il nostro Signore è venuto a noi negli ultimi tempi, per ricapitolare in se stesso tutte le cose, non come poteva lui ma come noi potevano vederlo. Egli, infatti, poteva venire a noi nella sua gloria inesprimibile, ma noi non potevamo ancora portare la grandezza della sua gloria […]. Dunque attraverso quest’ordine, tali ritmi e tale movimento l’uomo creato e plasmato diviene ad immagine e somiglianza di Dio increato: il Padre decide benevolmente e comanda, il Figlio esegue e plasma, lo Spirito nutre e accresce, e l’uomo a poco a poco progredisce e si eleva alla perfezione, cioè si avvicina all’Increato; perché solo l’Increato è perfetto, e questo è Dio. Infatti bisognava che l’uomo prima fosse creato, poi, dopo essere stato creato, crescesse, dopo essere cresciuto, divenisse adulto, dopo essere divenuto adulto, si moltiplicasse, dopo essersi moltiplicato, divenisse forte, dopo essere divenuto forte fosse glorificato e dopo essere stato glorificato, vedesse il suo Signore. Perché Dio è colui che deve essere visto, la visione di Dio procura l’incorruttibilità e “l’incorruttibilità fa essere vicino a Dio”.
Ireneo di Lione, “Contro le eresie”, in Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di M. Simonetti, Milano, Mondadori, 1993
Primo dei Padri latini, Tertulliano è autore di vari scritti di circostanza (De oratione, De cultu feminarum, De virginibus velandis, Ad uxorem, De monogamia, De idolatria), stesi con stile personale e molto denso. Vive a Cartagine, è attivo tra 197 e 200 e si nutre della cultura classica dell’epoca. Conosce il greco e può leggere gli apologisti cristiani del II secolo e Ireneo di Lione. Ha inoltre una solida cultura filosofico-giuridica.
Come Ireneo di Lione, anche Tertulliano si prefigge quale obiettivo prioritario quello di difendere la verità della fede dagli attacchi degli eretici. Nell’Apologetico Tertulliano assume un atteggiamento di sostanziale rifiuto della cultura pagana, che è comune anche a molti scritti coevi di eresiografia. Come noto, nei primi secoli dell’età cristiana la storia dei contatti tra filosofia e cristianesimo è inizialmente soprattutto la storia di una reciproca incomprensione. Il caso di Tertulliano è particolarmente significativo per approfondire le motivazioni di questa marcata presa di distanza dalla filosofia. Egli per primo ha utilizzato il tema della contrapposizione tra Atene e Gerusalemme come punto di partenza del confronto tra la filosofia pagana (simbolicamente rappresentata da Atene, ovvero il mondo greco) e la fede cristiana (il cui simbolo è Gerusalemme, ovvero il mondo giudaico-cristiano, fondato sulla tradizione e sulla Sacra Scrittura). Reagendo contro il paganesimo antico, Tertulliano mette in ridicolo le dottrine dei filosofi che, a suo avviso, spesso giungono a conclusioni in odore di eresia. Egli prosegue la polemica di Ireneo di Lione contro la gnosi e il marcionismo, dedicando ampie sezioni dei suoi scritti cristologici (cfr. Raniero Cantalamessa, La cristologia di Tertulliano, Ed. Universitaires, 1962) alla confutazione del dualismo gnostico e del docetismo marcionita. Nell’opera Contro Marcione, il suo scritto teologico più voluminoso, Tertulliano tenta una confutazione di tutte le eresie, mentre nel trattato Prescrizione degli eretici sviluppa una riflessione molto puntuale circa la trasmissione viva della fede apostolica in seno alla tradizione ecclesiale.
Critico della sapientia saecularis e della vanitas della filosofia, Tertulliano accusa pesantemente i filosofi, cui non risparmia definizioni infamanti (gloriae animal). A Platone, fiero della sua scienza, Tertulliano oppone un qualunque umile “operaio” cristiano, che, una volta trovato Dio, è in grado di farlo conoscere al suo simile testimoniando la propria fede attraverso la sua stessa vita. Sia nell’Apologetico sia ne La prescrizione degli eretici Tertulliano si impegna nella difesa del cristianesimo evidenziando che i cristiani dimostrano con i fatti la loro fede, mentre i filosofi, gonfi di vanagloria, cercano di persuadere più con la parola che con l’insegnamento. Atene è simbolo della sapienza profana, è la linguata civitas che ospita l’Accademia e i filosofi, ridicoli osti di sapienza, simili agli eretici e ai ciarlatani perché, spinti da una curiosità malsana, si interessano più delle creature che del Creatore. L’attività del filosofare è viziata dalla pretesa di giungere alla verità prescindendo dalla rivelazione, impresa che, secondo Tertulliano, costituisce una minaccia per la fede. Come la critica ha ampiamente dimostrato, benché contrapponga in modo risoluto fede cristiana e filosofia pagana, Tertulliano non va presentato come un cieco irrazionalista: egli non intende ripudiare in assoluto la ragione in quanto inconciliabile con la fede, quanto piuttosto condannare quei filosofi che non sono riusciti a superare il politeismo idolatrico, e quindi a valorizzare la specificità del cristianesimo. Dopo che Cristo, su mandato del Padre, ha conferito ai suoi discepoli l’incarico di insegnare e divulgare il messaggio rivelato, secondo Tertulliano non c’è più spazio per la vana curiositas. Il ragionamento induttivo, proprio della dialettica filosofica, si rivela fallace e il metodo dialettico degli eretici appare privo di rigore, in quanto fondato soltanto su argutiae e subtilitates. Mentre la dialettica fomenta la controversia e non garantisce la possibilità di trarre conclusioni definitive, la ricerca di Dio offre garanzie di veridicità e riesce meglio alle persone semplici, pure di cuore, piuttosto che agli intellettuali. Qualunque cristiano, anche se di umili origini e privo di cultura, conosce Dio meglio dei filosofi. Infatti, se la verità coincide con il patrimonio della rivelazione divina e con il Vangelo, può essere oggetto di ricerca da parte dei filosofi, ma è di fatto e compiutamente posseduta solo dai cristiani.
Nel giudicare il valore della filosofia e il suo rapporto con l’eresia, Tertulliano si attiene alla linea già tracciata da Ireneo di Lione, suo modello e maestro nella polemica antignostica. Nei panni del pastore della Chiesa egli affronta il problema dei rapporti ragione-fede sotto il segno della teologia cristiana e se in quest’ottica insiste sull’incapacità dei filosofi di raggiungere quell’unica verità (appunto, quella cristiana) che assicura la salvezza, non scade tuttavia nel “radicalismo antifilosofico”, né ritiene che l’adesione alla fede cristiana comporti la rinuncia ai diritti della ragione e la negazione dell’attività razionale. Erede del pensiero stoico, Tertulliano si avvale in prima persona di argomenti filosofici ma è sempre attento a denunciare qualsiasi infiltrazione filosofica che alteri la fisionomia originaria del cristianesimo in quanto religione rivelata. Eretici, maghi, ciarlatani, astrologi, filosofi hanno in comune la curiositas, espressione del puntiglio irrequieto nella ricerca, del virtuosismo dialettico, della smania di nuove conoscenze ricavate da sottili discussioni e trasferite all’esegesi biblica. Operando per curiositatem, i filosofi saccheggiano la Sacra Scrittura e sono indotti a scrutare la natura prima di interrogarsi sull’artefice della medesima. Sulla scia di Ireneo di Lione, alla curiositas Tertulliano oppone la simplicitas, quella semplicità della verità cristiana che esclude interpretazioni della Bibbia che si avvalgano arbitrariamente delle suggestioni della retorica e delle sottigliezze della dialettica e che abusino di categorie filosofiche.
Come Ireneo di Lione, anche Tertulliano colloca l’uomo al centro del progetto creativo di Dio. L’antropologia di Tertulliano ruota intorno a due temi fondamentali: l’origine dell’uomo e la sorte che attende le anime dopo la morte. Nel trattato De anima (scritto poco dopo il 210) Tertulliano dimostra che le argomentazioni platoniche sull’incorporeità dell’anima sono vane, spiega che l’uomo è un composto di anima e corpo e contesta gli gnostici e i marcioniti, che, negando la resurrezione della carne, non possono che supporre una dimidiata salus, come se l’uomo si salvasse “solo a metà”. Tertulliano ritiene al contrario che anima e corpo non siano due sostanze autonome e separate e che il termine homo si possa correttamente utilizzare solo per indicare la compresenza di queste due sostanze. Non a caso, nella vita ultraterrena, l’anima potrà essere premiata o castigata soltanto quando, dopo la resurrezione, si sarà riunita con il proprio corpo.
Circa la sorte che attende le anime nel periodo che intercorre tra la loro morte individuale e la retribuzione finale, Tertulliano afferma che verso la fine dei tempi Cristo stabilirà sulla terra una Gerusalemme discesa dal Cielo, un regno terreno della durata di mille anni; i giusti risorgeranno per regnare con Cristo, ma la prima resurrezione sarà scaglionata nel corso del millennio, poiché alcuni dovranno scontare le loro colpe residue in un luogo sotterraneo (carcer, deversorium, inferi); alla fine del millennio ci sarà la resurrezione di tutti i morti: i reprobi saranno giudicati e condannati, mentre i giusti saranno trasferiti dal regno terrestre a quello celeste.
Quinto Settimio Fiorente Tertulliano
Apologetico
Che uno adori Dio e un altro Giove: l’uno levi le mani supplici al cielo, l’altro all’altare della dea Fede; l’uno (se voi ritenete faccia ciò) conti le nuvole pregando, l’altro le travi del soffitto; l’uno voti la propria anima al proprio Dio, l’altro a quella di un caprone. Esaminate, poi, se non sia già un’indicazione di irreligiosità il soffocare la libertà di culto e proibire la scelta della divinità, in modo da non permettermi di adorare chi voglio, ma di obbligarmi ad adorare chi non voglio. Nessuno vuole essere adorato suo malgrado, neppure un uomo. […].
Noi per la salvezza degli imperatori invochiamo il Dio eterno, il Dio vero, il Dio dei viventi, che gli stessi imperatori preferiscono più di tutti gli altri di aver favorevole. Essi sanno chi diede loro il supremo comando; sanno, in quanto uomini, chi ha infuso in loro il soffio vitale; sentono che quello solo è Dio, colui al cui potere appartengono, al quale sono secondi, ma primi dopo di lui […]. L’imperatore è grande: perché è inferiore al Cielo; egli infatti appartiene a Colui cui appartengono il Cielo e tutte le creature. Egli è imperatore, perché è stato uomo prima di essere imperatore: di qui il suo potere, di qui il soffio che lo anima […].
Se noi volessimo agire non dico da vendicatori segreti ma da nemici dichiarati, mancheremmo forse della forza dei reparti e delle schiere? […]. Siamo di ieri, ma abbiamo già riempito il mondo e tutti i vostri territori, le città, le isole, le fortezze, i municipi, le borgate, gli stessi accampamenti, le tribù, le decurie, la reggia, il Senato, il Foro. Abbiamo lasciato a voi solo i templi! […]. Avremmo potuto senz’armi e senza ribellione, ma solamente allontanandoci da voi, combattervi con tale odiosa separazione.
Tertulliano, Apologia del Cristianesimo, trad. it. L. Rusca, Milano, Rizzoli, 1984