̔Irāq
di Albertina Migliaccio
Stato dell'Asia sud-occidentale. La situazione politica estremamente incerta in cui versa il Paese, occupato da una forza internazionale sotto il comando degli Stati Uniti, non consente di disporre di dati significativi sulla popolazione, sull'economia e sul contesto sociale. Le ultime stime demografiche di una certa attendibilità risalgono al 2003, quando all'I. veniva attribuita una popolazione di 24.200.000 abitanti. In quegli anni gli indicatori sociali mostravano una situazione demografica particolarmente deteriorata soprattutto in seguito al lungo periodo di embargo che era stato imposto dalla comunità internazionale nei confronti dell'esportazione di prodotti petroliferi (soltanto in parte attenuato dal programma ONU Oil-for-Food, "cibo in cambio di petrolio"), e delle conseguenti ripercussioni sulle condizioni di vita della popolazione.
L'economia è bloccata e la disoccupazione molto elevata: secondo stime della Banca mondiale, nel 2004 circa la metà della popolazione era senza lavoro o viveva di espedienti; del rimanente, il 30% circa era costituito da dipendenti dello Stato o di aziende pubbliche, mentre la restante parte si occupava delle attività più propriamente produttive. Il processo di privatizzazione delle imprese statali iniziato con la cessazione delle ostilità è stato bloccato dalla Banca mondiale per evitare un ulteriore abbattimento dell'occupazione e con nuovi effetti negativi sulla stabilità sociale. La situazione produttiva è allo stallo e una quota elevata della popolazione sopravvive grazie ai sussidi erogati dallo Stato e da organismi internazionali. Il petrolio rimane la principale risorsa del Paese e la Banca mondiale (ott. 2003) stimava che qualora la produzione fosse ritornata ai livelli precedenti al conflitto, il reddito derivante sarebbe stato quasi completamente assorbito dal pagamento dei salari e dei sussidi, mentre soltanto una parte trascurabile si sarebbe resa disponibile per gli investimenti necessari al rilancio economico. Al termine delle operazioni militari gran parte delle infrastrutture e dell'apparato produttivo del Paese erano distrutte o gravemente danneggiate e la ricostruzione procede con grandi difficoltà.
Un importante vincolo alla ripresa economica dell'I. è rappresentato dall'entità del debito estero che è stato contratto ai tempi della guerra con l'Irān: le nuove autorità irachene ne hanno richiesto la cancellazione, tuttavia una sua rinegoziazione appare più probabile.
di Ciro lo Muzio
Isolato dalla comunità internazionale e duramente provato dalle sanzioni economiche in vigore dall'agosto 1990, il Paese me-diorientale entrava nel 21° sec. in un clima di grave incertezza politica. Nonostante le pressioni diplomatiche, il protrarsi degli attacchi militari - anche dopo la conclusione dell'operazione Desert fox (dicembre 1998) - e le drammatiche conseguenze dell'embargo, ṣ. ḥusayn era riuscito a rimanere al potere, traendo grande vantaggio dalle profonde divergenze presenti nella comunità internazionale e alternando atteggiamenti di apertura e repentina chiusura alle richieste dell'ONU, in particolare quelle concernenti le ispezioni sugli arsenali militari. Sempre più numerose, inoltre, si levavano le proteste internazionali per le immani conseguenze umanitarie dell'embargo, che, oltre tutto, non aveva raggiunto il suo scopo primario, ossia la destituzione del leader iracheno 'dall'interno'. In segno di protesta contro il regime delle sanzioni si dimisero dai loro incarichi D. Halliday (1998), coordinatore delle operazioni umanitarie dell'ONU in ̔I. e responsabile del programma Oil-for-Food e, nel febbraio 2000, il suo successore, H. von Sponeck, e la signora J. Burghardt, capo del World Food Programme in ̔Irāq. L'operato dell'ONU veniva inoltre delegittimato dalle accuse di spionaggio mosse ad alcuni membri britannici e statunitensi dell'UNSCOM (United Nations Special Commission on Iraq), l'organismo preposto alle verifiche sul disarmo iracheno, che fu di conseguenza (dic. 1999) sostituito dall'UNMOVIC (United Nations Monitoring, Verification and Inspection Commission), diretto da H. Blix. Sempre più screditato appariva anche il programma Oil-for-Food, varato nel 1995 (operativo da ott. 1997 a nov. 2003) per alleviare le condizioni della popolazione irachena, ma anche per attenuare la disapprovazione internazionale nei confronti di Stati Uniti e Regno Unito, principali fautori delle sanzioni contro l'Irāq. Divenne infatti palese la sua precipua finalità, quella cioè di assicurare alla comunità internazionale, in primo luogo agli Stati Uniti, il controllo del greggio iracheno, e a quasi esclusivo vantaggio di compagnie statunitensi; indagini avviate nel 2004 da una commissione dell'ONU (Independent Inquiry Committee) avrebbero inoltre messo in luce l'estesa corruzione che aveva caratterizzato le transazioni.
Mentre gli Stati Uniti si mostravano inclini verso una strategia diretta a rovesciare ḥusayn anche grazie al sostegno, in termini sia finanziari sia di legittimazione politica, a sette gruppi d'opposizione, designati dall'Iraq liberation act (ott. 1998), le tensioni che attraversavano il Paese si aggravavano e la spaccatura tra il regime e le minoranze sia religiose sia etniche si faceva sempre più profonda. L'assassinio dell'āyatollāh M.S. al-ṣadr (febbr. 1999), capo della comunità sciita irachena, provocò manifestazioni popolari a Baghdād e in altre città, represse dalla Guardia repubblicana. Agli inizi del 2000 veniva sventato un piano per assassinare il presidente; circa 40 membri della Guardia repubblicana, implicati nel complotto, furono passati per le armi. Alle elezioni per l'Assemblea nazionale (marzo), il partito al governo, al-Ba̔ṯ, conquistò 165 su 220 seggi, mentre ai candidati indipendenti furono assegnati sia i rimanenti 55 seggi sia i 30 seggi originariamente destinati ai rappresentanti della comunità curda. Al figlio maggiore di ḥusayn, Uday, toccò la guida dell'assemblea legislativa; l'anno suc-cessivo il secondo figlio, Quṣay, erede alla presidenza in pectore, assunse il comando dei servizi di sicurezza e della Guardia repubblicana.
Se agli inizi del 2001 G.W. Bush ribadiva il mantenimento delle sanzioni finché le richieste della risoluzione 1284 del Consiglio di si-curezza dell'ONU non fossero state pienamente soddisfatte, conclusa l'operazione militare in Afghānistān (autunno 2001), la politica sta-tunitense nei confronti dell'I. subì un ulteriore irrigidimento. Bush indicò nella destituzione del presidente iracheno un passo indispensabile nella 'guerra al terrore'. Accusato di sviluppare armi di distruzione di massa, l'I. fu annoverato tra gli Stati costituenti l''asse del male', insieme con l'Irān e la Corea del Nord; veniva inoltre denunciato il supporto fornito dal Paese alle attività terroristiche di militanti di al-Qā̔ida, che tuttavia le autorità irachene smentirono recisamente.
Nel 2002 le possibilità di una mediazione diplomatica della crisi apparivano sempre più deboli. Mentre in ̔I. un referendum (15 ott. 2002) dall'esito plebiscitario (100% dei voti, secondo le fonti ufficiali) confermava il presidente nella sua carica per altri sette anni, gli Stati Uniti, con l'appoggio del Regno Unito, sostenevano con crescente determinazione la necessità di un intervento militare per attuare l'auspicato 'cambio di regime', anche in assenza della ratifica delle Nazioni Unite. Sulla prospettiva di un attacco all'I. la comunità internazionale risultava divisa, mentre in diverse capitali europee e del mondo islamico cominciavano a levarsi le proteste contro l'intervento militare. Questa opzione, tuttavia, ricevette il sostegno di 48 Paesi (oltre agli Stati Uniti), 19 dei quali disponibili a prendere parte attiva alle operazioni; in Europa, oltre al Regno Unito, principale sostenitore della Casa Bianca, diedero il loro consenso Italia, Spagna, Portogallo, Danimarca, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca. La posizione sta-tunitense fu invece fortemente avversata da Francia, Germania, Russia e Cina, favorevoli al proseguimento dell'azione diplomatica; altrettanto ferma fu l'opposizione espressa dal Vaticano.
Alla fine di gennaio 2003 gli ispettori sul disarmo - M. el-Bara-dei (per l'IAEA, International Atomic Energy Agency) e Blix (per l'UNMOVIC) - concordavano sulla necessità di prolungare le indagini (ricominciate nel nov. 2002), ma le pressioni degli Stati Uniti ebbero la meglio. Scaduto il 17 marzo l'ultimo termine intimato al presidente iracheno per completare il disarmo, il 20 dello stesso mese ebbe inizio l'offensiva (Operation Iraqi Freedom), inizialmente con bombardamenti mirati a siti strategici alla periferia di Baghdād; dopo due giorni la città fu investita da massicci bombardamenti che colpirono anche il centro della città (cioé basi militari, edifici governativi, stazioni televisive); cominciava inoltre l'avanzata delle truppe di terra dal Kuwait e un nuovo fronte veniva aperto nel Nord del Paese, con la cooperazione dei curdi. Il 24 marzo gli Stati della Lega araba (a eccezione del Kuwait) condannarono unanimemente l'attacco all'I., mentre si levavano le proteste per le numerose vittime che l'offensiva stava provocando nella popolazione civile. La reazione dell'esercito iracheno (e dei diversi gruppi di fedayn e volontari di varia provenienza) fu relativamente debole; ancor più sorprendente fu la mancata resistenza da parte della Guardia repubblicana, tanto che il 9 aprile le truppe della coalizione conquistavano indisturbate la capitale. Pochi giorni dopo tutte le città irachene erano in mano agli angloamericani e nel giro di qualche settimana gran parte dei membri di spicco del regime (ma non il presidente) erano stati catturati o si erano consegnati spontaneamente. L'operazione militare fu dichiarata ufficialmente conclusa il 1 maggio. In luglio i due figli di ḥusayn, Quṣay e Uday, venivano uccisi dalle forze speciali statunitensi in un villaggio nei pressi di Mōsul; il pre-sidente, invece, fu catturato solo a dicembre, in un rifugio sotterraneo ad al-Dāwr, presso la natale Takrīt. Imputato per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio, ḥusayn è sotto processo in ̔I. dal giugno 2004; nel novembre 2006 veniva condannato in primo grado alla pena capitale per il massacro di Duǧayl, pena eseguita il 30 dicembre (v. ḥusayn, ṣaddam).
Con la risoluzione 1483 del Consiglio di sicurezza dell'ONU (maggio 2003), il CPA (Coalition Provisional Authority) ricevette pieni poteri per formare il primo governo provvisorio, ossia il Consiglio di governo iracheno (Iraqi Governing Council) che, composto da 25 membri scelti a rappresentare in maniera proporzionale le diverse comunità etniche e religiose, iniziò le sue attività in luglio. La fine delle ostilità e la cattura di gran parte degli esponenti del governo non erano serviti, tuttavia, a riportare la sicurezza nel Paese; al contrario, l'I. era precipitato in uno stato di anarchia. L'agenda politica dell'ONU si scontrò ben presto con la crescente ostilità di diverse formazioni ribelli, interessate a esacerbare le contrapposizioni religiose ed etniche già esistenti nel Paese. Cominciarono gli attacchi di gruppi armati ba̔tisti (Fedayn Ṣaddām) contro le forze della coalizione, ma anche ai danni delle rappresentanze dell'ONU, delle missioni diplomatiche e delle ONG (v.). Gravi attentati colpirono, inoltre, il clero e la comunità sciita; tra i più gravi, nel 2003, quello a Naǧaf (agosto) che causò la morte di M. Baqir al-Hakīm, leader del principale partito sciita - il Consiglio supremo della rivoluzione islamica in ̔Irāq - e di 125 suoi seguaci. Nel corso del 2004 gli atti terroristici si intensificarono, soprattutto nei confronti delle comunità curda e sciita, accusate di collaborazionismo con le forze di occupazione; la paternità di gran parte di questi atti fu attribuita al giordano A.M. al-Zarqawi, strettamente legato ad al-Qā̔ida, e da questa sostenuto finanziariamente.
Nell'aprile dello stesso anno le rivelazioni su maltrattamenti, torture e altri abusi perpetrati da militari statunitensi ai danni di detenuti iracheni nelle carceri di Abū Ghrayb suscitarono lo sdegno inter-nazionale ed esasperarono la già diffusa ostilità della popolazione nei confronti della presenza militare internazionale. Oltre agli attacchi sovversivi, divennero frequenti i sequestri di operatori internazionali, alcuni dei quali furono uccisi. L'immagine delle forze statunitensi fu seriamente danneggiata dall'ammissione da parte dell'amministrazione degli Stati Uniti (nov. 2005) dell'avere utilizzato fosforo bianco (sostanza classificata tra le armi chimiche) in occasione dell'assalto alla città di Falluǧa (apr. 2004). In ottobre, infine, una relazione dell'Iraq Survey Group smentiva definitivamente la presenza di armi di distruzione di massa nonché di prove su un programma di riarmo nucleare da parte del leader iracheno, delegittimando, quindi, una delle motivazioni principali dell'invasione.
Nel gennaio 2005 furono eletti i 275 membri dell'Assemblea nazionale di transizione irachena, deputata a redigere la nuova Co-stituzione da sottoporre a referendum popolare. In aprile l'Assemblea nominava J. Talabani (leader dell'Unione patriottica del Kurdistan) presidente del governo di transizione. La formazione del governo fu accompagnata dall'intensificarsi degli attacchi terroristici, mentre appariva chiaro che estese parti del Paese erano ormai fuori del controllo governativo e delle forze della coalizione. La nuova carta costituzionale ebbe una gestazione travagliata, soprattutto per la difficoltà di ottenere il consenso unanime delle diverse fazioni su alcune questioni cruciali (tra queste la futura distribuzione dei proventi del petrolio e il ruolo dell'Islam nella nuova legislazione); tuttavia, il referendum popolare (15 ott.) la approvò con il 78,6% dei voti (sulla base di un'affluenza del 61%). Assecondando le aspirazioni di sciiti e curdi, ma lasciando scontenti i sunniti, la Costituzione conferì all'I. un assetto federale, che garantiva un'ampia autonomia alle regioni riservando al governo centrale solo le questioni concernenti la difesa e la politica estera. Quanto al rapporto tra religione e legislazione, l'articolo 2 definiva l'Islam come religione ufficiale dello Stato e come una (ma non l'unica) fonte fondamentale del diritto; una forma di compromesso che, se in apparenza conciliava le divergenti aspirazioni delle comunità sciita, curda e sunnita, di fatto lasciava la questione irrisolta.
Alle prime elezioni legislative (15 dic. 2005), la Alleanza unita irachena, la più forte formazione sciita, ottenne 128 seggi, che non le garantirono, tuttavia, la maggioranza assoluta al governo; all'Alleanza patriottica democratica del Kurdistan (ampia coalizione che riuniva i due principali partiti curdi, il Partito democratico curdo e l'Unione patriottica del Kurdistan, oltre a numerose liste minori) andavano 53 seggi, e ai due principali partiti sunniti, il Fronte del consenso iracheno e il Fronte del dialogo nazionale iracheno, rispettivamente 44 e 11 seggi; la Lista nazionale irachena, coalizione sciita laica guidata da A. Allawi conquistava 25 seggi, mentre il Congresso nazionale iracheno, il partito sciita laico del vice-primo ministro A. Chalabi, usciva sconfitto dalle consultazioni, non ottenendo seggi. Il 20 maggio 2006 fu approvato il nuovo Consiglio dei ministri e la carica di primo ministro fu affidata allo sciita J. al-Maliki.
Tutto questo avveniva in uno dei periodi più sanguinosi della storia recente del Paese. Con una media giornaliera di 50-60 vittime provocate da guerriglia, attacchi suicidi e altri atti terroristici, in particolare tra sciiti e sunniti, e soprattutto a seguito dell'attacco alla moschea al-Askariya (febbr. 2006), l'I. sembrava avviarsi verso una partizione in-terna su base religiosa ed etnica. Non meno numerose erano le azioni terroristiche a firma di al-Qā̔ida e, in generale, del movimentogihadista, la cui presenza, negli anni successivi all'invasione angloamericana, appariva saldamente radicata in ̔Irāq. E la morte di al-Zarqawi, nel corso di un attacco aereo statunitense in un villaggio ai confini con l'Irān (giugno), non sembrò destabilizzarla, visto che al-Qā̔ida designava prontamente il suo sostituto, l'egiziano š.A.H. al-Muhajir.
Iraq under sanctions. The deadly impact of sanctions and wars, ed. A. Arnove, Cambridge (Mass.) 2000.
J.-M. Benjamin, Obiettivo Iraq, Roma 2002.
P.-J. Luizard, La question irakienne, Paris 2002 (trad. it. Milano 2003).
H. Blix, Disarming Iraq, New York 2004 (trad. it. Torino 2004).
Limes, 2005, 4, nr. monografico: Lost in Iraq; Z. Chehab, Inside the resistance. The Iraqi insurgency and the future of the Middle East, New York 2005 (trad. it. Roma-Bari 2006).