PIZZETTI, Ippolito
PIZZETTI, Ippolito. – Nacque a Milano il 30 gennaio 1926 da Ildebrando, musicista e compositore, e da Irene Campiglio. Nella seconda metà degli anni Trenta si trasferì a Roma, dove nel 1936 il padre assunse l’incarico di docente del corso di alto perfezionamento in composizione presso l’Accademia nazionale di S. Cecilia e nel 1939 divenne accademico d’Italia.
Compiuti gli studi liceali, Ippolito Pizzetti si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Roma. Qui nel 1952 si laureò in letteratura italiana con Natalino Sapegno, discutendo una tesi su Cesare Pavese e ottenendo il massimo dei voti.
Nel 1959 sposò Andreola Vettori e l’anno successivo nacque la figlia Uliva. Visse a Roma tutta la vita.
I suoi interessi spaziavano dalla letteratura al teatro e alla musica. Ma dopo la laurea due furono per lui le attività prevalenti: le traduzioni e la progettazione di giardini. Lavorò come traduttore, in particolare dal tedesco (lingua che aveva appreso in famiglia, ancora bambino), collaborando con diverse case editrici. Rese in italiano Il Vicario di Rolf Hochbuth (Milano 1964, con prefazione di Carlo Bo), andando anche lui incontro alla scomunica vaticana che colpì il dramma dell’autore tedesco. Seguirono la traduzione de Il mio nome sia Gantenbein di Max Frisch (Milano 1965) e di due testi teatrali di Peter Weiss: La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat (Torino 1967) e Discorso sulla preistoria e lo svolgimento della interminabile guerra di liberazione nel Vietnam (Torino 1968). Negli anni successivi si dedicò, fra gli altri, a Ingeborg Bachman, della quale tradusse Occhi felici, un racconto compreso nella raccolta Tre sentieri per il lago (Milano 1980), a Bertolt Brecht (Vita di Edoardo II d’Inghilterra, Torino 1982) e a Friedrich Dürenmatt (Radiodrammi, Torino 1982, insieme a Italo Alighiero Chiusano e Aloisio Rendi).
L’attività di progettazione di giardini, presto diventata un impegno professionale, iniziò «poco dopo aver raggiunto i trent’anni», quando decise «di cambiare rotta», come scrisse successivamente in Naturale inclinazione. Divagazioni coerenti di un paesaggista ribelle (Milano 2006, 20112, p. 9). I suoi clienti erano per lo più privati, in Italia «pochi assai, se non pochissimi» (p. 9).
Al 1968 risale la sua prima opera, Il libro dei fiori (Milano), in tre volumi, in seguito pubblicata in uno e poi in due volumi (nel 1998 divenne infine una ‘Garzantina’).
Il testo, scritto insieme a Henry R. Cocker, fu edito su sollecitazione di Pietro Citati, il quale gli aveva sottoposto per un parere un saggio di orticoltura che la casa editrice intendeva tradurre e stampare. Pizzetti lo giudicò «noiosissimo». «Allora scrivilo tu», fu la replica di Citati.
Dal 1974 al 1984 fu incaricato dalla direzione de l’Espresso di tenere una rubrica intitolata Pollice verde, che comparve settimanalmente sul periodico che proprio dal 1974 assunse le dimensioni di un rotocalco. Pollice verde spaziava da un argomento all’altro: si andava dalla risposta al quesito su come e quando innaffiare: «Di solito una simile domanda mi dà la misura dell’inesperienza del mio interlocutore o della mia interlocutrice» (Dell’innaffiare, in l’Espresso, 6 novembre 1977, ora in Pollice verde. Il giardinaggio: un hobby, una filosofia, un’arte, Milano 2006, p. 43), alla manifesta avversione per le regole alle quali credere ciecamente e che dovrebbero valere anche a dispetto dell’osservazione; dalla dettagliata descrizione di una siepe d’alloro e di una camelia, dell’erbacroce e della speronella, del papavero della California e dell’elleboro, al racconto della figura di Libereso Guglielmi, il giardiniere della famiglia Calvino, ritratto dallo scrittore in Un pomeriggio, Adamo (1947).
La sua scrittura era assai mossa. Per restare al gergo giornalistico, possedeva l’andatura di un elzeviro. Si organizzava per frammenti, senza sistematicità. La prosa era lieve. Il punto di partenza veniva presto abbandonato in un procedimento ondivago. Da un particolare scientifico scaturivano una memoria, un’analogia, una meditazione. Il pensiero di che cosa fosse un giardino era però chiaro: «Se è vero che deve essere armonicamente inserito nell’ambiente che circonda (il giardino giapponese a Fregene o a Frascati è altrettanto assurdo e offensivo quanto i nanetti di Biancaneve in coccio colorato) è, allo stesso tempo, per il fatto stesso di essere un giardino, una creazione artificiale, un’opera dell’uomo, qualcosa di staccato, di diverso, che non può assolutamente identificarsi con l’ambiente come era “prima”: prima di quando, di che cosa?» (da Le siepi d’alloro, in l’Espresso, 7 novembre 1976, ora in Pollice verde..., cit., p. 14). Il giardino come artificio, dunque, come paesaggio culturale. Ma anche il giardino «come un’entità organica: non il prato, non le piante, non i cespugli, gli uccelli, i rettili, gli insetti che l’abitano e lo compongono: ma il giardino in sé». Un’entità organica, dunque «una creatura vivente non autosufficiente» (Il giardino autosufficiente non esiste, in l’Espresso, 14 agosto 1977, ora in Pollice verde..., cit., p. 28).
Oltre che a l’Espresso, collaborò al Corriere della sera e a La Stampa. Successivamente scrisse su Il Messaggero e, dal 1994, sul neonato quotidiano La Voce, diretto da Indro Montanelli. Suoi articoli comparvero anche in Casabella, Spazio e Società, Ville e Giardini, Abitare, Acer folia. Dal 1975 al 1986 diresse la collana L’Ornitorinco per l’editore Rizzoli, nella quale uscirono quarantatré volumi, inaugurati con Del giardino di Vita Sackville-West, con una sua introduzione e tradotto da sua moglie, Andreola Vettori. La collana comprese testi, oltre che sul giardinaggio, sul paesaggio, sulla fauna e opere letterarie su questi stessi argomenti. Per l’editore Arcana curò la collana di viaggi Aritroso e per Franco Muzzio la collana Il Corvo e la Colomba. Dal 1989 fu tra i principali animatori della Fondazione Benetton, presso la quale si occupò in particolare del premio Carlo Scarpa per i giardini (alla Fondazione Benetton ha donato la propria biblioteca).
Dal 1982 intraprese la carriera accademica come professore a contratto in diverse università. Iniziò alla facoltà di architettura di Roma, dove insegnò arte dei giardini. Insegnò la stessa disciplina a Palermo fra il 1983 e il 1986 e poi, dal 1986 al 1989, all’Istituto universitario di architettura di Venezia (IUAV) presso la cattedra di composizione tenuta da Gino Valle. Dal 1995 si trasferì alla facoltà di architettura di Ferrara, dove rimase per circa dieci anni e dove, nel 2004, fu insignito della laurea honoris causa.
Nel 1998 pubblicò Robinson in città. Vita privata di un giardiniere matto (Milano), appunti di un diario in cui mise a fuoco un particolare sguardo sul modo in cui la natura riesce a manifestarsi anche nel cuore di una città.
Contemporaneamente a queste, si svolsero le sue attività di progettista di parchi e giardini per committenti sia privati sia pubblici, per affidamento diretto o per concorso. Più che per l’allestimento geometrico di uno spazio, per il disegno di una superficie, mostrò interesse per la composizione degli elementi vegetali e la sistemazione delle piante. «Nel giardino che progetto», ha scritto, «voglio che si realizzi uno spettacolo continuamente in evoluzione, in quattro parti che convergono l’una dentro l’altra, chiamateli pure quattro atti: primavera, estate, autunno, inverno» (Naturale inclinazione..., cit., pp. 10 s.).
La lista è assai lunga. Fra i più importanti lavori si possono segnalare: nel 1983 la ristrutturazione delle aree ex Montecatini a Castelfiorentino (con Giancarlo De Carlo); nel 1984 la progettazione del parco urbano fuori le mura di Ferrara; nel 1985 il concorso per l’ex Manifattura Tabacchi a Bologna (con Ludovico Quaroni); sempre nel 1985 lo studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale di Roma (con Leonardo Benevolo, Vittorio Gregotti, Francesco Scoppola e altri); nel 1987 il concorso per un parco pubblico nel quartiere della 167 di Secondigliano, a Napoli; nel 1991 il concorso per la Potsdamer Platz di Berlino (con Vittorio Gregotti); nel 1995 il concorso per l’ampliamento del Museo del Prado a Madrid (con Aldo Aymonino); nel 1998 il progetto di restauro dei giardini della reggia di Venaria Reale.
Morì a Roma, nella sua casa di via Ronciglione, a pochi passi da Corso di Francia, il 16 agosto 2007.
Opere. Oltre a quelle citate: Piccoli giardini, Milano 1986; L’addizione verde. Leggere e progettare il paesaggio per il parco urbano a Ferrara, Ferrara 1997.
Fonti e Bibl.: Opere di Pizzetti e bibliografia su di lui sono indicate nel sito della Fondazione Benetton, alla pagina http://www.fbsr.it/media/ 2011/pizzettiprincipaliscritti_1055_ 1316520798. pdf. Sulla sua donazione della biblioteca alla stessa fondazione, v. M.G. Raffaele, Lascio i miei libri a Treviso. Donazione di I. P. alla Fondazione Benetton. In Veneto l’inestimabile patrimonio culturale dell’inventore di Pollice verde, in La Tribuna di Treviso, 11 gennaio 1992. Si veda inoltre C. Bertelli, Addio a I. P., l’architetto dei giardini e delle idee, in Corriere della sera, 17 agosto 2007; M. Cunico, Ciao Ippolito, in Architettura del paesaggio, ottobre-dicembre 2007, n. 17 (con interventi di M. Di Giovine, V. Gregotti, D. Luciani, F. Marzotto Caotorta, C. Bruschi, G. Oneto, G. Ferrara); F. Erbani, I. P., i giardini e la storia, in La Repubblica, 17 agosto 2007; P. Pera, Giardiniere metropolitano, in Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2012; Gli Ornitorinchi di I. P.: come una collana editoriale è stata capace di divulgare la conoscenza e l’amore per la natura, Bologna 2013 (con i testi delle bandelle e le copertine dei volumi della collana); P. Pera, Tra i nidi di ragno nel giardino di Calvino, in Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2014; I. P.: un poeta, un artista, un giardiniere, http://www. compagniadelgiardinaggio.it/ippolito-pizzetti (20 settembre 2015).