PINDEMONTE, Ippolito
Letterato, scrittore e poeta fra i più rappresentativi del Settecento, nato il 13 novembre 1753, da nobile famiglia ricca di tradizioni letterarie, a Verona, ivi morto il 18 novembre 1828. Compiuta la sua educazione nel collegio San Carlo in Modena, ritornò alla città nativa e alternò gli studî coi piaceri e gli svaghi che la sua agiata condizione gli concedeva. Alle nuove correnti di pensiero e alle tendenze letterarie d'oltralpe lo avvicinarono i viaggi che intraprese numerosi, con animo aperto alle più diverse impressioni e con intelletto sensibile a ogni problema di cultura. Agli anni giovanili appartengono Le stanze (1779) che col nome di Polidete Melpomenio recitò in occasione della sua aggregazione all'Arcadia, il poemetto Gibilterra salvata (1782) poi ripudiato, e la Fata Morgana (1784). Dal 1784 dimorò per qualche anno nella sua villa di Avesa, compiacendosi di quel soggiorno propizio alla meditazione e alla contemplazione delle bellezze naturali, che trovarono in lui un delicato se non appassionato cantore. Nelle Poesie campestri (1788) sono descrizioni e fantasie avvolte di languida e sognante malinconia, come nelle Prose, rimaste per lungo tempo inedite e pubblicate solo nel 1817 con le poesie in unico volume, son pagine chiare, pacate, di sicuro disegno e di sobria struttura. Fra il 1788 e il 1791 fu a Parigi, a Londra, a Berlino, a Vienna. Frutto delle osservazioni raccolte e delle esperienze vissute fu un romanzo fra il satirico e l'autobiografico, l'Abaritte (1790), nel quale si rileva accanto all'influenza dello Sterne, del Montesquieu e del Rousseau, quella del Voltaire. In Francia il P. visse in affettuosa consuetudine con l'Alfieri, che lo elesse a revisore dei suoi "duri versacci". Agli albori della Rivoluzione francese, la celebrò nel poemetto La Francia (1789). Dovette presto ricredersi; liberale per convinzione, ma alieno per temperamento e per educazione dai tumultuosi entusiasmi, si chiuse, al cader delle illusioni, in un meditato scetticismo che non gli impedì di avere talvolta accenti di sincero amor patrio. Giustamente si vantò di non aver mai tratto "voce servile" dalla sua cetra, e al dispotismo napoleonico non risparmiò qualche punta di sottile e sommessa ironia. Nel 1805 s'accinse alla traduzione dell'Odissea, di cui diede alla luce, come saggio, (1809), i primi due canti, accolti con favore dal Foscolo nell'articolo famoso sui traduttori d'Omero. Già nel 1807 il Foscolo aveva dedicato i Sepolcri al P., che, certamente lontano dal pensare che quella dedica sarebbe stata più solida base alla propria fama che non la somma di tutte le sue opere, abbandonò l'idea del già disegnato poemetto in quattro canti su I Cimiteri, e rispose con un'epistola non infelice, ma pallida e scialba nelle immagini e nello stile; non molto diversa, per genere e tono, dalle dodici già pubblicate nel 1805. Essendogli stata distrutta dalle truppe francesi la villa d'Avesa, s'era ritirato a Verona, soggiornando però lungamente anche a Venezia, dividendo il suo tempo fra gli studî prediletti e le conversazioni dei salotti aristocratici.
Echi di vita veneziana sono nel nostalgico poemetto Il colpo di martello del campanile di San Marco (1820); poesia stanca, intrisa di rassegnata filosofia, vivo documento del fervore religioso che s'era in lui accentuato con l'avvicinarsi della vecchiaia. Per questo rispetto è interessantissimo il ritratto che in una lettera al Murray ne schizzò G. Byron che lo conobbe sessantenne.
Il P. fu scrittore fecondo e versatile, celebrato ai suoi tempi quasi quanto il Foscolo e il Monti. Oggi è ricordato soprattutto per la traduzione dell'Odissea, corretta, coscienziosa, in qualche parte anche aderente ed efficace, ma nel complesso scolorita in confronto all'originale, ché il Pindemonte traduttore è ben lontano dall'impeto e dal calore del Monti. Le sue poesie peccano di prolissità e spesso s'attardano oziosamente in artificiose esercitazioni letterarie. Piacquero tuttavia, e talune fra le migliori piacciono ancora per il loro accento di soave, pacata mestizia e di blando misticismo. La novità di alcuni motivi lirici, il facile sentimentalismo di alcune novelle in prosa e in versi, i nordici e ossianeschi colori di una tragedia, l'Arminio (1804), incerta fra l'indirizzo shakespeariano e l'alfieriano, avvicinano il P. ai romantici e avvivano d'interesse storico l'opera sua, documento dell'evoluzione morale e artistica operatasi fra Settecento e Ottocento.
Opere: Stanze del cav. I. P. fra gli Arcadi Polidete Melpomenio (Roma 1779); Gibilterra Salvata (Verona 1782); Fata Morgana (Bassano 1784); Volgarizzamento dell'Inno a Cerere con un discorso sul gusto presente delle belle lettere in Italia (Bassano 1785); Poesie campestri (Parma 1788); La Francia (Parigi 1789); Abaritte (Nizza 1790); Novelle di P. Melp. (Napoli 1792); Arminio (Verona 1804); Epistole in versi (Verona 1805); I Sepolcri (Verona 1807); Prose e poesie campestri (Verona 1817); I Sermoni (Verona 1819); Il colpo di martello del campanile di S. Marco (Verona 1820); Odissea (Verona 1822); Elogi di letterati (Verona 1826); I Cimiteri (in Gazzetta letteraria, VI, n. 10, Napoli 1885).
Bibl.: B. Montanari, Della vita e delle opere d'I. P., Brescia 1834; G. Gini, Vita e studio critico delle opere di I. P., Como 1899; M. Scherillo, I. P., Messina 1919; S. Peri, I. P. Studi e ricerche coll'aggiunta della tragedia inedita "Ifigenia in Tauri" e di liriche inedite e rare, Rocca S. Casciano 1905; N. Vaccalluzzo, Fra donne e poeti nel tramonto della Serenissima, Catania 1930; E. Emanuelli, Uomo del 700, Genova 1933; O. Bassi, Fra classicismo e romanticismo. I. P., Milano-Genova 1934.