BELLARMATI, Ippolito
Nacque a Siena nel 1465, da una famiglia, tra le principali della città, appartenente al Monte dei Nove e legata da vincoli di parentela ai Piccolomini, ai Borghese e ai Petrucci. Lo stesso B., che esercitò agiatamente la mercatura, rafforzò tali prestigiosi legami sposando Margherita Piccolomini, della famiglia del pontefice Pio III.
Sebbene il ruolo, politico di primo piano assunto dal B. nell'ultimo periodo della sua vita induca a credere che anche in precedenza egli avesse una parte notevole nella politica della sua fazione, ben poco si sa sulla sua partecipazione alla vita pubblica, specialmente durante i lunghi anni in cui il governo di Siena fu di fatto esercitato da Pandolfo Petrucci impossibile del resto che, come molti altri esponenti noveschi, anche egli preferisse limitarsi alle proprie attività mercantili finché gli interessi politici ed economici della sua famiglia furono garantiti dalla protezione che Pandolfo accordava ai suoi congiunti e clienti: comunque, il solo ufficio che risulti da lui esercitato in questo periodo fu quello di capitano del castello di Radicofani, nel 1499.
Dopo la morte di Pandolfo il B. fu tra i partigiani del figlio di lui, Borghese, e quindi tra gli avversari del vescovo di Grosseto Raffaello Petrucci, quando questo, nel 1516, con il sostegno di Leone X, si sostituì al cugino nel governo della città: è anzi in questa occasione che egli emerge pubblicamente per la prima volta come uno dei principali esponenti degli interessi noveschi nell'opposizione al tentativo del priore Bartolomeo Tantucci di attribuire pieni e incondizionati poteri signorili al vescovo di Grosseto. Nel compromesso che seguì tra il Petrucci ed i noveschi toccò al B., probabilmente proprio in virtù del suo iniziale atteggiamento di opposizione, di esercitare alcune delle cariche che il nuovo modus vivendi, riservava al Monte dei Nove: tra queste di primaria importanza quella di gonfaloniere, dal gennaio al giugno del 1520, e quella di camerlengo della Biccherna, l'anno successivo.
Nella confusa situazione seguita in Siena alla morte di Raffaello Petrucci, nel dicembre 1522, quando la stessa fazione, novesca si divise tra i sostenitori di Fabio e quelli di Francesco Petrucci, preoccupati i primi di garantire alla città l'appoggio mediceo di cui sembrava godere l'ultimo figlio di Pandolfo, i secondi di rinnovare, al di là di ogni considerazione della difficile situazione internazionale, il predominio delle vecchie consorterie del quale Francesco si faceva mallevadore, il B. fu tra i principali animatori di quest'ultimo partito e forse addirittura il principale, se, come pare, fu proprio lui a tenere le fila del governo senese durante l'effimera signoria di Francesco. La consumata arte dell'intrigo che lo aveva portato a questa emmente posizione politica non gli valse però a parare l'astuta manovra con cui Clemente VII, appena eletto al pontificato alla fine del 1523, decise di ripagarsi dello smacco subìto a Siena dai Medici l'anno precedente: convocato a Roma dal papa, Francesco Petrucci accondiscese ingenuamente all'invito, e il B. non poté evitare che Fabio Petrucci, col sostegno dei Fiorentini, si introducesse in Siena durante l'assenza di lui e se ne proclamasse signore. Del resto la situazione di Fabio in città apparve in breve non più solida di quella del suo predecessore: già nel settembre del 1524, infatti, un accordo tra i popolari e i partigiani di Francesco, al quale assai probabilmente il B. non fu estraneo, costrinse Fabio ed i suoi fautori ad abbandonare Siena. Ma ormai era divenuto impossibile, anche per la miope consorteria novesca che il B. autorevolmente rappresentava, continuare a porre il problema senese in termini esclusivamente cittadini, prescindendo cioè dal conflitto tra Francesi e Imperiali nel quale appariva sempre più necessario prendere posizione se non si voleva essere scavalcati dagli avvenimenti. La rinunzia fatta da Clemente VII alla candidatura di Fabio Petrucci in favore di Alessandro Bichi rese possibile un nuovo accordo tra le fazioni per il quale anche il B. poté aderire alla fazione filomedicea.
Ma neanche la tutela del papa, alla quale si aggiunse il sostegno dell'armata francese calata in Italia al comando del duca d'Albany, poté garantire la stabilità politica del nuovo regime; bastò la sconfitta dei Francesi a Pavia perché le divisioni faziose riacquistassero tutta la loro forza: ucciso il Bichi dai popolari il 6 apr. 1525, gli esponenti noveschi compromessi con il partito franco-mediceo furono costretti ad abbandonare Siena.
Il nuovo governo senese, formato dai tre "monti" del Popolo, dei Gentiluomini e dei Riformatori, bandì i noveschi e con una successiva deliberazione impose al B. ed ai suoi figli Girolamo, Marcantonio, Giulio e Scipione l'esilio ad Ancona. Ben lontano dal rassegnarsi alla sconfitta e al bando il B., che trovò ospitalità e protezione nello Stato pontificio, fu tra i principali promotori dei reiterati tentativi noveschi per rientrare in Siena, il più serio dei quali fu quello del 26 luglio 1525. Formatasi infatti la nuova lega antimperiale tra Clemente VII, Francesco Sforza e Venezia, i fuorusciti senesi ottennero dal papa, cui il controllo di Siena appariva di rilevante importanza strategica, un soccorso di 7.000 fanti e di 600 cavalli con i quali i noveschi attaccarono Siena, mentre una squadra pontificia al comando di Andrea Doria si impadroniva di Talamone e Porto d'Ercole. L'energica reazione dei Senesi fece fallire il tentativo: i fuorusciti furono sanguinosamente respinti e due figli del B., Giulio e Scipione, rifugiatisi con altri fuggiaschi in Castelnuovo Berardenga, vi vennero attaccati dalle milizie cittadine, catturati e giustiziati. Contro il B, il senato rinnovò il bando dell'anno precedente, inasprendolo col decretare lecita e meritoria la sua uccisione da parte di chiunque; furono inoltre sequestrati i suoi cospicui beni, che nel 1527 vennero devoluti alla Sapienza.
La morte dei suoi due figli, le nuove drastiche misure prese contro di lui dal governo senese, la sfavorevole situazione seguita al sacco di Roma, che privava i fuorusciti noveschi dell'appoggio pontificio, non scoraggiarono il B.: lo indussero anzi a rinnovare in accordo con Francesco Petrucci i progetti di un colpo di mano contro Siena; l'esiguità delle forze di cui egli e i suoi compagni potevano ora disporre, tanto minori di quelle del pur sfortunato tentativo dell'anno precedente, mostra come le circostanze avverse spingessero ora i noveschi alle più disperate risoluzioni. Al comando del B. e di Francesco, Petrucci, alla fine di ottobre del 1527, 1.000 fanti e 150 cavalli si accamparono a Montebenichi, ai confini dello Stato senese, ma in territorio fiorentino: di qui il 2 novembre tentarono un improvviso assalto contro una delle porte della città, fiduciosi a quanto pare anche in aiuti interni; anche questa volta furono respinti, essendo stato il governo senese messo in guardia da un delatore, Giovanni Damiani. Mentre le milizie si disperdevano il B. e altri pochi fuorusciti ripararono nuovamente a Montebenichi e qui, quattro giorni dopo, furono assaliti e presi prigionieri dopo un'aspra resistenza dalle soldatesche inviate contro di loro dal governo senese, incurante, pur di sbarazzarsi del B. e dei suoi, dei rischi che comportava lo sconfinamento.
Trascinato a Siena, il B. fu torturato, sottoposto al pubblico ludibrio con l'esposizione nella piazza del Campo e infine condannato a morte. Oltre all'accusa di aver levato le armi contro la patria fu portata contro di lui quella di aver approfittato del denaro pubblico durante il suo camerlengato del 1521. Il governo senese lo accusò infatti di aver falsificato, alla morte di Raffaello Petrucci d'accordo con il notaio Annibale Rovarelli, un documento nel quale il Petrucci dichiarava di aver ricevuto da lui per le occorrenze dello Stato una grossa somma del Monte del Sale. Un'ultima possibilità di salvezza si offrì al B. quando il senato gli promise la libertà in cambio di un riscatto di 1.000 ducati: ma il B., ormai stanco e preoccupato di conservare per i suoi eredi quanto rimaneva del patrimonio familiare, rifiutò. Fu decapitato il 5 dic. 1527.
Bibl.: G. A. Pecci, Memorie storico-critiche della città di Siena..., II, Siena 1755, p. 200; III, ibid. 1758, pp. 14 ss.; V. Buonsignori, Storia della Repubblica di Siena, II, Siena 1856, pp. 174, 194; R. Herval, Girolamo Bellarmati et la création du Havre, in Etudes normandes, XL, 3 (1961), pp. 33 s.