IPPOLITO, antipapa, santo
I. viene definito il primo antipapa, in opposizione a Callisto, nella storia della Chiesa, secondo la ricostruzione biografica accreditata dagli studi condotti in area tedesca nell'Ottocento. Tale ricostruzione si basa su un'interpretazione delle fonti antiche di notevole intelligenza, ma ormai sottoposta da più parti a varie revisioni critiche. Oggi si può affermare che ci fu certamente un aperto antagonista di Callisto nell'ambito della Chiesa romana durante il periodo dell'episcopato di questo, un antagonista di notevole levatura intellettuale e di autorevole presenza, ma i contorni della sua identità, a partire dal nome stesso, rimangono per molti versi oscuri e la qualifica di "antipapa" sembra alquanto anacronistica rispetto alla reale condizione di Roma nei primi decenni del III secolo. È opportuno quindi prendere in esame le fonti più antiche riguardanti il personaggio di nome I., segnalando di volta in volta quanto appare ragionevolmente sicuro e quanto, pur avendo contribuito al processo di formazione dell'immagine storiografica tradizionale, sembra bisognoso di ulteriori approfondimenti. La prima fonte letteraria in ordine cronologico è una notizia data da Eusebio di Cesarea, secondo il quale I. fu "a capo di una qualche chiesa" (Historia ecclesiastica VI, 20, 1-2), senza nessuna ulteriore specificazione. Rufino, nella sua versione dell'Historia ecclesiastica, tradurrà questa dizione con "episcopus", ma per quanto riguarda Eusebio, pur constatando che egli a volte utilizza il termine "proestòs" per indicare un vescovo, non si può essere sicuri che in questo caso intendesse effettivamente riferirsi alla dignità episcopale. Eusebio (ibid. VI, 22) menziona di I. un computo pasquale, basato su un ciclo di sedici anni e regolato al primo anno dell'imperatore Alessandro Severo (222-235), e una lista dei seguenti titoli: Sull'Esamerone, Su ciò che segue l'Esamerone, Contro Marcione, Sul Cantico, Su parti di Ezechiele, Sulla Pasqua, Contro tutte le eresie. Eusebio non sa dare o non si cura di dare l'elenco completo degli scritti ippolitei, definiti con il termine generico di "hypomnémata"; eppure afferma che sono facilmente reperibili presso molti. Da ciò che dice, da ciò che non dice, e dal modo di presentarlo si deduce che Eusebio considera I. uno scrittore autorevole, quasi pari a Origene, cui lo accosta almeno per la cronologia, ma appartenente ad altra tradizione rispetto a quella alessandrina. In ordine cronologico dopo Eusebio si collocano due testimonianze agiografiche contenute nel Cronografo dell'anno 354, provenienti quindi da Roma, che parlano di un I. presbitero e martire: il Catalogo Liberiano afferma che il vescovo Ponziano e il presbitero I. furono deportati nel 235 in Sardegna; la Depositio martyrum (nr. 12 del Cronografo) ricorda che il giorno 13 agosto, non si sa di che anno, I. fu sepolto sulla Tiburtina e Ponziano nel cimitero di Callisto. Il martire della Depositio e il presbitero di nome I. del Catalogo Liberiano sembrano senz'altro da identificare. Ancora di area romana è la tradizione orale riportata da papa Damaso in un epigramma sulla tomba della Tiburtina di I. (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, VII, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1980, nr. 19932) secondo il quale questi, presbitero aderente allo scisma di Novaziano, si sarebbe ravveduto prima di morire. È da notare che la menzione di Novaziano riporta per la morte di I. a data assai posteriore al 235, anno della deportazione secondo il Catalogo Liberiano, alla quale evidentemente il martire non poteva essere sopravvissuto di molto. Quindi le due fonti, cioè il Catalogo Liberiano e Damaso, ancorché entrambe locali rispetto al martire, presentano dati reciprocamente contraddittori quanto alla datazione, e la preferenza deve essere accordata alla maggior solidità della notizia del Catalogo Liberiano. Non sono invece incompatibili per quanto riguarda la possibilità che il martire sia stato uno scismatico (sia pure da retrodatare rispetto a quanto dice Damaso) perché tale circostanza ne avrebbe accresciuto la visibilità esponendolo, sotto Massimino, alla cattura, anche se per quest'ultima ci possono essere altre spiegazioni. In nessuna delle fonti romane viene detto che il martire fu anche scrittore, ma l'assenza potrebbe spiegarsi con lo specifico genere letterario delle fonti medesime. Ancora una notazione: è a partire da Damaso, la cui testimonianza, come si è appena visto, presenta quantomeno inesattezze cronologiche, che si sviluppa una tradizione agiografica complessa e contraddittoria circa il martire I., sulla quale si tornerà più avanti. Dalle fonti romane si passa a Girolamo, che per un periodo fu anche a Roma e collaborò con Damaso. Egli, secondo la comune opinione degli studiosi, sembra riprendere ed enfatizzare in De viris illustribus 61 i dati eusebiani, per esempio quando afferma di non essere riuscito a scoprire la città di cui I. era vescovo. Tuttavia dispone anche di fonte propria, e forse non è in torto chi pensa che possa aver attinto direttamente a una fonte comune con Eusebio (cfr., facendo astrazione dalle conclusioni discutibili, J.-P. Bouhot, pp. 137-64). Girolamo allunga la lista di opere ippolitee aggiungendo: In Exodum, In Genesim, In Zachariam, De Psalmis, In Esaiam, De Daniele, De Apocalypsi, De Proverbiis, De Ecclesiaste, De Saul et pytonissa, De antichristo, De resurrectione e una omelia In laudem Domini Salvatoris che sarebbe stata pronunciata alla presenza di Origene. Altrove (ep. 36, 16 e prefazione all'In Matthaeum, in P.L., XXVI, col. 20) Girolamo ricorda due volte un I. martire, prerogativa che Eusebio ignora per lo scrittore I. e che lo stesso Girolamo non menziona nel De viris illustribus e in altre occasioni in cui nomina Ippolito. Nell'epistola 36 ne riferisce una complessa interpretazione sulla benedizione di Isacco a Giacobbe (Genesi 27), non coincidente con quella conservata nel trattato sulle benedizioni di I., presa da un'opera di cui non riporta il titolo (ma che potrebbe anche essere l'In Genesim della lista geronimiana), mentre nella prefazione all'In Matthaeum parla di uno scritto, peraltro non meglio individuabile, di I. martire su questo vangelo, inserendolo in una lista di opuscula di vari autori sull'argomento. C'è spazio per insinuare che Girolamo potrebbe non aver identificato l'I. di cui parla nella lista del De viris illustribus con il martire I., ma l'obiezione risulta indebolita dal fatto che l'epistola 36 precede la composizione del De viris illustribus: dato lo sforzo di completezza proclamato in quest'opera da Girolamo, che arriva a deridere chi gli possa segnalare eventuali omissioni di autori, in quanto comunque potrebbe trattarsi di personalità non significative, pare strano che egli si sia dimenticato di nominare un altro autore da lui direttamente conosciuto e citato in una lettera precedente indirizzata a papa Damaso, se effettivamente l'avesse reputato un personaggio diverso da quello registrato nell'opera. Risulta comunque quasi altrettanto strano che Girolamo abbia omesso la qualifica di martire per I. nella notizia del De viris illustribus: l'omissione si può spiegare solo pensando che egli si sia sul momento dimenticato della circostanza, o non l'abbia voluta menzionare, essendo tutto preso in questa notizia più che altrove dalla falsariga della notizia di Eusebio o, come anche si potrebbe ammettere, di una fonte comune a entrambi. Resta assodato che Girolamo conosce un I. martire che considera scrittore, o, se si preferisce, uno scrittore I. che considera martire. Il dato assente da tutte le citazioni geronimiane, sia le due contenenti la qualifica di martire sia le altre, è la localizzazione spaziale di Ippolito. Riassumendo: Eusebio conosce un I. scrittore e personaggio eminente, forse vescovo, di luogo sconosciuto; le fonti romane conoscono un I. presbitero e martire, e una di esse (Damaso) lo qualifica come ex-scismatico; Girolamo conosce un I. martire, scrittore e vescovo di luogo sconosciuto. Le fonti letterarie esaminate appartengono tutte al IV secolo. A epoca precedente (prima metà del III secolo) risale invece un'importante testimonianza epigrafica. Si tratta delle incisioni su una statua rinvenuta molto mutila nel 1551 a Roma, probabilmente nell'area del Verano, raffigurante un personaggio seduto su un trono, attualmente posta all'ingresso della Biblioteca Apostolica Vaticana. Reca sul basamento un computo pasquale a partire dal primo anno di Alessandro Severo che fu subito identificato con quello attribuito a I. da Eusebio. Sul montante destro del trono è incisa una serie di titoli, alcuni dei quali coincidono con titoli ippolitei delle antiche liste: di conseguenza tutti i titoli della statua vennero riportati a I. e la statua stessa venne restaurata da Pirro Ligorio come fosse di Ippolito. I primi due titoli sono illeggibili, poi seguono: Sui Salmi, Sulla ventriloqua, In difesa del Vangelo di Giovanni e dell'Apocalisse, Sui carismi tradizione apostolica, Cronache, Contro i greci, contro Platone e sull'universo, Protrettico a Severina, Dimostrazione dei tempi di Pasqua e ciò che è nella tavola, Odi su tutte le scritture, Su Dio e la resurrezione della carne, Sul bene e donde viene il male. Si noti che i titoli della statua aggiungono argomenti prettamente filosofici alla lista delle opere ippolitee, che, in base ai dati di Eusebio e Girolamo, hanno tutte carattere esegetico e antieretico. Nel 1842 venne ritrovata un'opera di confutazione antieretica in dieci libri mancante dei primi tre. Nel manoscritto veniva attribuita a Origene. Fu pubblicata nel 1851, con l'aggiunta del primo libro ritrovato nel frattempo. Nella prima riga l'opera è definita dall'autore "Confutazione di tutte le eresie" (d'ora in poi Èlenchos, corrispettivo greco del primo termine, ma anche nota come Refutatio omnium haeresium o Philosophoumena). Scartata subito l'attribuzione a Origene, manifestamente errata, venne proposto il nome di I., che acquistò sempre maggior credito, fino ad essere imposto da I. von Döllinger (Hippolytus und Kallistus) e A. von Harnack (Geschi-chte der altchristlichen Literatur bis Eusebius, II, 2, Leipzig 1897, pp. 209-55, in partic. p. 211). Decisivo per l'attribuzione fu il fatto che l'autore dell'Èlenchos faceva riferimento ad altre sue opere, fra cui una di carattere cronologico e un Sull'essenza dell'universo, che vennero identificate con due titoli presenti sulla statua (precisamente Cronache e Contro i greci, contro Platone e sull'universo). Della prima, giunta anonima e intitolata nei manoscritti Compendio dei tempi (nota anche come Chronicon), il testo è praticamente tutto conservato; della seconda restano frammenti significativi. A questo punto, assegnato un autore, I., all'Èlenchos, quest'opera a sua volta restituiva una personalità a I., fino ad allora sfuggente come personaggio storico: l'autore dell'Èlenchos infatti, pur non dichiarando mai il suo nome, mette volentieri in scena se stesso, considerandosi legittima guida della Chiesa di Roma, attestando la sua accanita e pubblica opposizione al vescovo Callisto, tacciato di eresia e settarismo, e al predecessore Zefirino, mostrando di appartenere alla corrente dottrinale della teologia del Logos e di avere una concezione rigorista della comunità cristiana. Tutte le circostanze storiche apprese dall'Èlenchos parvero spiegare le incertezze delle fonti a proposito di I., soprattutto per quanto riguarda la sua sede episcopale: il martirio e il volontario rientro nella Chiesa avevano dato una conclusione gloriosa alla sua vicenda terrena e quindi una comprensibile reticenza aveva velato gli aspetti più discutibili del suo operato, soprattutto il suo essersi autodichiarato capo della Chiesa romana. In effetti su questo punto s'è visto che le fonti più antiche tacciono: solo nel lemma di una catena esegetica (A. Mai, Scriptorum Veterum Nova Collectio, I, 2, Romae 1825, p. 173) Apollinare di Laodicea, autore del IV secolo, chiama I. "santissimo vescovo di Roma", ma l'effettiva attribuzione della dicitura ad Apollinare è quanto mai dubbia. Perciò, a eccezione di questa insicura testimonianza, sino a tutto il V secolo I. non è mai menzionato come vescovo di Roma, e le prime attestazioni in tal senso risalgono al VI secolo. Ma questo silenzio, di per sé, com'è ovvio, può avere diversi significati: in altri termini, non costituisce prova a favore della tesi sopra esposta. Ricostruita nel modo suddetto la vicenda, anche l'edizione finora più completa delle opere di I., sia intere sia frammentarie, rappresentata dal corpus di Berlino, soggiace a questa interpretazione di fondo. Guardando nelle linee generali le opere attribuitegli, I. appare un autore poliedrico per interessi e prolifico, una figura di statura comparabile a quella di Origene, secondo un parallelo che, come s'è visto, lo stesso Eusebio di Cesarea sembra autorizzare. Questa ricostruzione, è bene specificarlo subito, è ancora compatibile con le successive analisi delle fonti storiche, agiografiche ed epigrafiche sopra menzionate. Se è stata messa in crisi, ciò è avvenuto esclusivamente, come si vedrà, su base filologica, esaminando i dati interni al complesso delle opere attribuite a Ippolito. Per quanto infatti riguarda le fonti per così dire "esterne", neppure la scoperta dell'originario carattere femminile della statua, di grande importanza per la storia dell'iconografia, fatta da M. Guarducci (La statua di "Sant'Ippolito", in Ricerche su Ippolito, Roma 1977, pp. 17-30), inficia la ricostruzione vulgata, perché comunque l'elenco delle opere, che venne inciso a qualche distanza di tempo sulla statua, rimane connesso a I. per caratteristiche intrinseche e per il ritrovamento nell'area cimiteriale di s. Ippolito. E neppure gli ulteriori dubbi della Guarducci medesima (La "Statua di Sant'Ippolito" e la sua provenienza, in Nuove ricerche su Ippolito, Roma 1989, pp. 61-74) sul luogo effettivo del ritrovamento, che non sarebbe più da identificare con la zona fra Tiburtina e Verano, ammesso che abbiano un reale fondamento, spostano di per sé in modo decisivo la situazione: certo, è possibile, a questo punto, che i titoli della statua non siano tutti di I., e che individuino una serie di opere di autori vari, incise per finalità diversa da quella celebrativa, ma, comunque, è ben difficile non ammettere che almeno il computo pasquale, richiamato anche dal titolo inciso sul montante Dimostrazione dei tempi di Pasqua e ciò che è nella tavola, non sia quello che Eusebio individua come di I.: e se almeno il computo è ippoliteo, bisogna presupporre che qualcuno dei titoli sulla statua lo sia pure. Dunque, se i dati della statua non possono essere di per sé presi come attestazioni incontrovertibili di opere ippolitee, neppure possono essere eliminati dal contesto della questione. Si esaminino ora le fasi del ripensamento critico avvenuto. Bisogna innanzitutto ricordare che in Italia due studiosi, A. Donini (Ippolito di Roma. Polemiche teologiche e controversie disciplinari nella chiesa di Roma agli inizi del III secolo, Roma 1925) e S. Mazzarino (L'impero romano, II, Roma-Bari 1973, pp. 470 ss.), esaminando, a distanza di lungo tempo uno dall'altro, le opere attribuite a I., avevano molto sottolineato, sia pur con esiti opposti, la radicalità dell'evoluzione psicologica e letteraria di tale autore. In particolare, i due studiosi erano colpiti dalla contraddizione fra le espressioni antiromane contenute nel De Daniele e alcuni titoli incisi sulla statua che fanno pensare a stretti rapporti con donne della casa imperiale dei Severi. Tuttavia le due indagini, rimaste ai margini rispetto alla coeva storiografia specialistica sul tema (Mazzarino, fra l'altro, non tiene conto delle tesi già espresse da Nautin), si muovono sempre nell'ottica dell'unico autore. Fu P. Nautin (Hippolyte et Josipe. Contribution à l'histoire de la littérature chrétienne du troisième siècle, Paris 1947) a lanciare la sfida alla tesi tradizionale, puntando l'attenzione su divergenze dottrinali fra la parte finale dell'Èlenchos e il Contra Noetum, che era stato trasmesso come un'omelia di I., e su divergenze cronologiche fra l'Èlenchos, il Compendio dei tempi da un lato e il De Daniele, tramandato dai manoscritti come d'I., dall'altro. Nautin divise allora il corpus ippoliteo in due blocchi, uno rappresentato dalle opere segnate sulla statua e dall'Èlenchos, che attribuiva a un Giosepo, sulla base della tradizione manoscritta dei frammenti Sull'essenza dell'universo, e l'altro composto dalle opere tramandate sotto il nome di I., da Nautin considerato posteriore a Giosepo e buon conoscitore di quest'ultimo. L'intervento di Nautin suscitò molte critiche e soprattutto M. Richard si dedicò a smontarne le tesi: sul punto fondamentale delle divergenze teologiche fra Èlenchos e Contra Noetum, Richard ricorse a una soluzione piuttosto discutibile, collocando il Contra Noetum nel IV secolo, e facendone l'opera di uno scrittore dalla scarsa competenza linguistica in greco (Dictionnaire de spiritualité, VII, col. 553). Come s'è detto sopra, nel 1975 M. Guarducci ha scoperto che la statua "di sant'Ippolito" raffigurava in origine una donna: questo fatto costituì per un gruppo di studiosi italiani lo stimolo a riflettere nuovamente sul problema di Ippolito. Le loro proposte, presentate per la prima volta nel 1976 (e raccolte nel volume Ricerche su Ippolito), sono state negli anni successivi rimeditate e riproposte con alcuni aggiustamenti. Il punto di partenza è lo stesso di Nautin: l'inconciliabilità di alcuni dati teologici fra Èlenchos e Contra Noetum (soprattutto, ma non solo, la visione teologica embrionalmente trinitaria del secondo, contrapposta a quella chiaramente binitaria del primo), che sembrano eccedere la possibilità di evoluzione del pensiero di uno stesso autore o le normali differenze di impostazione fra generi letterari diversi, tanto da spiegarsi meglio con una diversa paternità. La divisione in due blocchi nella prima versione della proposta italiana comprendeva da un lato il Contra Noetum e tutte le opere esegetiche trasmesse sotto il nome di I., considerato un vescovo di sede orientale, e dall'altro l'Èlenchos, il Compendio dei tempi e il Sull'essenza dell'universo, nonché i titoli incisi sulla statua, attribuiti a un autore romano, per il quale anche veniva proposto il nome I., il che avrebbe spiegato facilmente la confusione precoce (già in Eusebio di Cesarea) fra i due personaggi. Contrariamente a Nautin, gli italiani erano e restano convinti della priorità cronologica di I. autore del Contra Noetum sull'autore dell'Èlenchos. Tale priorità, ripetutamente affermata da M. Simonetti (cfr., da ultimo, Una nuova proposta su Ippolito, "Augustinianum", 36, 1996, p. 30), è stata confermata di recente da un ampio studio di G. Uríbarri Bilbao. Successivamente al 1977 gli italiani hanno modificato alcuni aspetti della loro proposta, evitando di attribuire in blocco all'autore romano tutte le opere della statua, che in molti casi restano meri titoli, non insistendo sulla questione del nome dello scrittore romano, e invece facendo forza sulle tre opere, Èlenchos, Compendio dei tempi e Sull'essenza dell'universo, che rivelano stretti legami stilistici e di contenuto e sono accomunate dal fatto di essere state trasmesse o anonime o sotto nomi diversi, come abitualmente avviene quando si vuole salvare la produzione di un autore sospetto (cfr. M. Simonetti, Aggiornamento su Ippolito, in Nuove ricerche su Ippolito, p. 125). La duttilità e la ragionevolezza della posizione degli italiani, che non hanno mai nascosto il carattere non definitivo e le residue zone d'ombra delle loro argomentazioni, hanno finito per raccogliere sempre maggior consenso, a parte l'area tedesca che resta sulle posizioni tradizionali. La proposta italiana è stata il punto di partenza per l'ulteriore ampio lavoro di A. Brent, che, avvantaggiandosi anche del fattore linguistico, si è rapidamente diffuso soprattutto in area anglosassone. Egli propone di vedere nel corpus ippoliteo la presenza di più autori operanti all'interno di una stessa comunità romana, in disaccordo con la comunità di Callisto, e inquadra tutta la vicenda in una Chiesa romana alla quale attribuisce, sino a metà III secolo, un persistente ordinamento presbiterale, cioè un frazionamento in più comunità minori, ciascuna con a capo un presbitero-vescovo, mentre l'opinione prevalente fra gli studiosi considera ormai in atto al tempo di Vittore la svolta verso l'episcopato monarchico. Secondo Brent, I., autore del Contra Noetum, sarebbe subentrato a Roma a capo della comunità dopo la morte dell'autore dell'Èlenchos, e l'avrebbe condotta alla riconciliazione con la Chiesa di Ponziano. La tesi di Brent è discutibile in tutta una serie di dettagli ed è inaccettabile per quanto riguarda l'ipotesi in merito alla struttura gerarchica - anche se il potere episcopale era ancora poco strutturato - perché, ed è solo uno degli argomenti in contrario, la stessa enfasi dell'autore dell'Èlenchos sul problema della leadership nella Chiesa di Roma dimostra che questa esisteva, ma tale tesi potrebbe aiutare a spiegare, appunto tramite la presenza di una "scuola" ippolitea, fenomeni letterari per i quali finora non si è trovata soluzione soddisfacente. Si può citare in proposito la circolazione sotto il nome di I. di due serie di testi di commento alle benedizioni di Genesi 49, di cui uno, benché frammentario, sembra un rifacimento del primo, cioè dell'opera Sulle benedizioni di Isacco, Giacobbe e Mosè, da parte di un autore diverso da I. ma con una spiccata fedeltà di fondo nei suoi confronti, o la presenza di uno scritto Sui Salmi, che rivela caratteri comuni a entrambi i raggruppamenti individuati e che infatti passa, nelle varie proposte, da I. (P. Nautin) all'autore dell'Èlenchos (gli italiani e M.-J. Rondeau). Inoltre, la direzione degli studi condotti dopo Brent sembra muoversi nel senso di ammettere la presenza a Roma, almeno in un certo periodo, anche dell'I. autore dei trattati esegetici e ciò spiegherebbe meglio i contatti, innegabili, fra i due blocchi di opere. È stato proposto da Simonetti, ferma restando la priorità cronologica del Contra Noetum sull'Èlenchos, di accogliere l'idea di un I., nativo d'Oriente, che giunge successivamente a Roma e si pone, dopo l'autore dell'Èlenchos, alla guida della comunità scismatica (Una nuova proposta su Ippolito, p. 45). Sarebbe quindi lui a morire in Sardegna con il vescovo Ponziano. In effetti, l'identità del martire nelle varie versioni "divisive" di I. resta un punto oscuro. La questione, come si deduce da quanto detto sinora, è ancora sub iudice. Manca all'appello, nonostante alcuni tentativi che hanno dato esiti contraddittori, l'analisi letteraria e stilistica del corpus, resa complicata dal fatto che molte opere sono conservate solo in traduzioni in lingue orientali. Pur con la cautela derivante dal fatto che troppi tasselli debbono ancora trovare giusta collocazione in un nuovo quadro storico, si può ritenere che in tutta la faccenda debba essere considerato punto fermo la non compatibilità dell'Èlenchos con il Contra Noetum e che per quest'ultima opera non possa accogliersi una datazione bassa al IV secolo, in forza delle argomentazioni contrarie di M. Simonetti e G. Uríbarri Bilbao. Si inizia ora l'esame sommario delle opere partendo da quelle attribuite con chiarezza a I. nella tradizione manoscritta e bisogna quindi trattare prima un importante blocco di carattere esegetico. In effetti, una specifica produzione esegetica si era avviata poco tempo prima, a partire da metà del II secolo, con il commento al vangelo di Giovanni dello gnostico Eracleone. Si sa che alcuni autori ortodossi - Rodone, Candido, Apione - scrissero commenti, di cui non si conoscono né la struttura né la lunghezza, all'Esamerone, il racconto della creazione sul quale si incentravano le speculazioni gnostiche e che quindi necessitava di un'interpretazione accurata, ma essi restano soltanto nomi. È quindi I. il primo autore ortodosso di cui siano conservate opere dedicate all'esegesi biblica, e si è in grado anche di seguire, attraverso gli scritti, una certa evoluzione compositiva. Probabilmente il suo scritto più antico, nel quale già Fozio (Bibliotheca 202) rilevava semplicità e arcaicità, è il De Christo et Antichristo, conservato in greco e in traduzioni orientali, collocabile presumibilmente intorno al 200. Non è tanto, nella struttura, opera esegetica, quanto un trattatello storico-dottrinale, incentrato sulla mitica figura dell'Anticristo, nel quale confluiva una serie di tradizioni giudaiche e cristiane, a indicare l'ultimo e più crudele avversario di Dio e dei giusti, prima della fine: egli è infatti il nemico che introduce nei tempi escatologici. Negli autori apocalittici e cristiani aveva assunto il volto dei sovrani profanatori del Tempio o persecutori. Come emerge dall'opera di I. immediatamente successiva, il De Daniele, le contingenze storiche del momento avevano indotto nelle comunità cristiane un clima di grande attesa escatologica: vengono a tal proposito citati da I. due episodi avvenuti in Siria e Ponto (De Daniele IV, 16-20). La novità di I., rispetto allo stesso Ireneo che aveva dato ampio spazio alla trattazione sull'Anticristo nell'ambito del quinto libro dell'Adversus haereses, consiste nell'aver fornito una consistenza storico-politica alla figura dell'Anticristo: questi, nella visione ippolitea, unifica in sé i tratti del restitutore della grandezza all'Impero romano decaduto e del messia giudaico che ridona ai correligionari la loro terra. Soprattutto, l'Anticristo è la perfetta antitesi di Cristo, cosicché, attraverso l'esposizione della anticristologia, si legge in controluce la cristologia di Ippolito. L'esegesi scritturistica praticata nel De Christo et Antichristo, è incentrata intorno a un nucleo tematico e viene governata da un grosso sforzo concordistico. Ciò significa che i dettagli di ognuno dei testi scritturistici esaminati, soprattutto Apocalisse e Daniele, vengono presi in considerazione nella misura in cui sono compatibili l'uno con l'altro, e i dettagli dissonanti sono o taciuti o forzati. Con il De Daniele, immediatamente successivo, nel quale viene richiamata l'opera precedente, I. passa all'interpretazione monografica di un libro della Scrittura, Daniele appunto, la cui dimensione escatologica, subito rilevata dai cristiani, presentava però difficoltà riguardo soprattutto al senso da dare alle settanta settimane di Daniele 9. L'opera ippolitea, conservata quasi interamente in originale, oltre che in versione paleoslava, è suddivisa in quattro libri, che risentono di una genesi omiletica (ogni libro si chiude con una parenesi e una dossologia) e non danno un commento continuo, bensì l'esegesi di alcune sezioni di Daniele: il primo libro commenta Daniele 1 e la storia di Susanna in Daniele 13, considerata simbolo della Chiesa assediata da pagani e giudei (cioè i due vecchioni); il secondo: Daniele 2-3 (la statua di Nabucodonosor); il terzo: Daniele 4-6; il quarto: Daniele 7-12 (la visione delle quattro bestie). Lo scopo perseguito da I. è quello di contrastare l'ansia escatologica dei fedeli, impedendo il verificarsi di episodi parossistici: la nascita di Gesù è fissata al 5500 e la durata del mondo in 6000 anni, per cui la fine è ancora lontana. Un'origine omiletica, considerata l'abbondanza di locuzioni esclamative ed esortative, si presuppone facilmente anche per i due scritti sul Cantico dei cantici e De David et Goliath (quest'ultimo è tramandato come omelia vera e propria), giunti in georgiano e in frammenti armeni. Il primo presenta, per la prima volta secondo le conoscenze attuali, la trasposizione cristiana dell'interpretazione ebraica della coppia di amanti, che, invece di significare Iahvè e Israele, rappresentano in modo analogo Cristo e la Chiesa. Il commento arriva fino a Cantico 3, 8. Con la seconda opera I. esalta in Davide il personaggio che sin dalla sua giovinezza manifesta i misteri di Dio. Mediante una serie di parallelismi rende manifesto che egli è typos ("modello") di Cristo: la sua unzione a re in segreto prefigura la nascita e l'unzione di Cristo da parte del Padre; il fatto che era un pastore prefigura Cristo in quanto vero pastore; gli stranieri muovono guerra a Davide come gli increduli a Cristo. Il culmine dello sforzo allegorico nel De David et Goliath è rappresentato dalla descrizione dello scontro fra Davide e Golia, simbolo del diavolo: i particolari della sua armatura indicano altrettanti aspetti della sua malvagità. La cifra complessiva dell'esegesi ippolitea è allegorica, senza tuttavia un carattere sistematico, e alcune parti sono intese letteralmente. L'opera più ambiziosa di I. è il complesso dei commenti alle benedizioni dei patriarchi. A partire dalla significazione messianica della benedizione di Giacobbe a Giuda (Genesi 49, 8-12), già accettata nel giudaismo e nel Nuovo Testamento, I. concepisce il progetto di interpretare cristologicamente tutte le benedizioni impartite nel Pentateuco da vari personaggi (Isacco, Giacobbe, Mosè, Balaam) sulla base del presupposto ermeneutico che la benedizione, intesa come profezia, si è realizzata in Gesù. Questo presupposto è calato con rigore nella trama esegetica, a costo di cadere nell'arbitrio, quando I. arriva a negare anche i riferimenti più ovvi, nelle parole di Giacobbe, alle storie dei suoi figli. Utilizzando spunti dai Testamenti dei dodici patriarchi, un apocrifo dell'Antico Testamento, I. porta avanti il disegno con organicità, grazie a una tecnica che è ormai evoluta nel senso di un commento integrale dei passi biblici sottoposti a esame. Purtroppo l'attuale apprezzamento è menomato dal fatto che il commento alle benedizioni di Balaam è perduto e il resto dei commenti alle benedizioni è giunto integralmente solo nelle versioni armena e georgiana. Sulla stessa tematica, come si è detto in precedenza, è conservata una serie di frammenti catenari, molto differenti in alcuni punti dal testo dei commenti alle benedizioni, e che sembrano rappresentare un radicale rimaneggiamento di cui sfuggono l'autore e lo scopo. Moltissimi frammenti di opere ippolitee sono giunti nelle catene e in tradizione indiretta. Il lavoro di discernimento è appena agli inizi. Un gruppo importante di frammenti sui Proverbi mostra piena affinità, per l'ispirazione strettamente cristologica, con le opere esegetiche rimaste. Tra i frammenti, una grande importanza è rivestita dai cosiddetti Capita contra Caium, tratti da un'opera sull'Apocalisse scritta dal monofisita siriaco Dionigi bar Sal¯¦b¯¦ nel XII secolo, mentre il titolo loro assegnato si ricava da un breve catalogo del nestoriano Ebed-Jesu. Oltre alla tarda tradizione indiretta dei Capita rappresentata da Dionigi, di recente sono stati scoperti quattro frammenti in tradizione diretta, che permettono di vedere il modo in cui Dionigi si è servito dell'opera, riportandola con abbreviazioni e adattamenti: il loro esame rivela che si tratta della versione siriaca, risalente al VII secolo, di un precedente originale greco. A sua volta questo originale sembrerebbe essere un rimaneggiamento, di poco posteriore a I., di una sua opera (forse quella indicata sulla statua col titolo di In difesa del Vangelo di Giovanni e dell'Apocalisse): in esso viene presentato un contraddittorio sul valore e l'ispirazione dell'Apocalisse fra I. e Gaio, che potrebbe identificarsi con il dotto presbitero romano, vissuto a Roma sotto Zefirino, e ostile alla tendenza montanista ad ampliare il canone delle Scritture cristiane (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica VI, 20, 3). Gaio fa leva sulla contraddizione fra i dati dell'Apocalisse e quelli dell'apostolo Paolo riguardo ai tempi finali, con conseguente negazione del carattere profetico dell'Apocalisse; le argomentazioni di I. si situano in perfetta continuità con le tematiche già presenti nel De Christo et Antichristo e nel De Daniele, e le sviluppano ulteriormente. L'opera pertanto va ricondotta all'I. esegeta e in qualche modo ne collega a Roma l'attività: in primo luogo perché Gaio è un romano e I. quindi, dovunque lo si voglia collocare geograficamente a seguito delle prese di posizione della critica sopra illustrate, dimostra attenzione per una polemica innescata a Roma; in secondo luogo perché i Capita di I. circolavano a Roma, sempre che siano da identificare con l'opera in difesa degli scritti giovannei inserita nel catalogo della statua. L'opposizione di Gaio, infatti, non si limitava all'Apocalisse, bensì comprendeva anche una critica alla cronologia del vangelo giovanneo, in quanto difforme rispetto a quella degli altri tre vangeli canonici, almeno stando ai frammenti ulteriori dei Capita, che si ricavano da un'altra opera di Dionigi, In Ioannem. Il Contra Noetum è l'opera di carattere antieretico che è stata all'origine dei dubbi sull'identità di I., per l'incompatibilità di alcuni dati dottrinali con quelli dell'Èlenchos. È esplicitamente attribuita a I. dal codice Vat. gr. 1431 che l'ha tramandata come omelia. Un'opinione ricorrente la ritiene invece un'opera mutila dell'inizio e da identificare con il perduto Syntagma ippoliteo descritto da Fozio (Bibliotheca 121). L'ultimo editore, R. Butterworth, ne ha dimostrato il carattere unitario e completo. Molto resta da fare per analizzare lo stile, che a M. Richard sembra quello incolto di un madrelingua latino del IV secolo, e che invece Ed. Norden (Die antike Kunstprosa, Leipzig 1923, pp. 548-49) descrive come capace di variazioni e innalzamenti di tono nei passi non didascalici, aperto a movenze innologiche, e impregnato di retorica ellenistica affinché il discorso antieretico risulti all'ascolto di maggior efficacia persuasiva. Secondo R. Butterworth è un adattamento cristiano della diatriba profana: come questa cerca la partecipazione dell'uditorio e mette in opera le tecniche atte a raggiungere tale scopo (Hippolytus of Rome, p. 122). Dalla diatriba mutua il carattere popolare, che non impedisce un sapiente uso della retorica e giustifica le irregolarità presenti nel testo. Dal punto di vista strutturale il Contra Noetum si divide in due parti: la prima, negativa, prevede l'esposizione della dottrina di Noeto, comprendente anche il corredo scritturistico d'appoggio, e la confutazione, basata sulle Scritture. La seconda, positiva, espone invece la vera dottrina, trattando l'articolazione personale - chiamata dall'autore "economia" - presente nella vita intradivina, in opposizione alla monarchia di Noeto (il termine "monarchia" però non è menzionato nell'opera). Il Logos è detto Figlio a partire dall'incarnazione e per individuare la sussistenza personale del Padre e del Figlio è usato il termine "prosopon". Se il Contra Noetum deve essere considerato un'opera a sé stante, risulta completamente perduto il Syntagma contra omnes haereses, l'opera di I. citata da Eusebio e Girolamo e descritta da Fozio, nella quale venivano confutate trentadue eresie e che fu ripresa dallo Pseudo-Tertulliano e da Filastrio di Brescia, oltre che da Epifanio. Anche l'autore dell'Èlenchos dice di aver composto in precedenza un'opera più breve contro le eresie, ma l'identificazione del Syntagma con quest'ultima dipende ovviamente dalla ricostruzione complessiva della questione ippolitea. Il Syntagma, comunque, è dalla tradizione saldamente attribuito a I., cosa che non si verifica per le tre opere che la critica più recente stacca da lui, cioè l'Èlenchos, il Compendio dei tempi e il Sull'essenza dell'universo, collegate fra loro da stretta affinità di temi e interessi e inoltre, fatto di certo non casuale, dal non essere state trasmesse sotto il nome di Ippolito. La prima nella cronologia relativa fra le tre è il Sull'essenza dell'universo, in quanto l'autore dell'Èlenchos vi fa riferimento. Potrebbe coincidere con il titolo Contro i greci, contro Platone e sull'universo, indicato sulla statua. Fozio (Bibliotheca 48) la leggeva sotto il titolo Sull'universo (ma conosce anche per la stessa opera i titoli Sulla causa dell'universo o Sulla natura dell'universo) ed è lui a dire che era attribuita a un Giosepo, ma circolava anche sotto altri nomi, dato che in una nota marginale del suo codice venivano citati come autori Giustino, o Ireneo, o il presbitero romano Gaio, a cui la nota attribuiva il Labirinto, altro titolo dato dall'autore dell'Èlenchos alla sua opera (Èlenchos X, 5). È quest'ultimo particolare, cioè la notizia che attribuisce alla stessa mano Èlenchos e Sull'universo, che rende sicuri del fatto che Fozio leggesse proprio l'opera citata dall'autore dell'Èlenchos, anche se i nomi dati da Fozio non risolvono la questione della paternità. Fozio dice anche che era divisa in due libri. Oltre a un frammento breve, ma importante, sulla costituzione fisica dell'uomo, citato da Fozio stesso, sono conservati altri frammenti: uno tratto dal De opificio mundi di Giovanni Filopono, uno, molto importante e lungo che restituisce la fine dell'opera, tramandato nei Sacra Parallela di Giovanni Damasceno, e altri quattro brevi scoperti in un codice da W.J. Malley. I frammenti confermano che l'opera circolava soprattutto sotto il nome di Giosepo. Si riesce a scorgerne la suddivisione: nel primo libro dovevano essere trattate le contraddizioni dei filosofi e nel secondo aveva luogo l'esposizione positiva della verità, dalla creazione del mondo e dell'uomo fino alla sorte ultraterrena, comprendente il periodo dopo la morte dell'individuo, il giudizio e il rinnovamento della creazione. La tematica dell'opera precedente trova ampliamento in senso eresiologico nel successivo scritto Èlenchos, nel quale viene proposta e sviluppata in maniera sistematica l'idea, già diffusa fra i cristiani, che le eresie sarebbero dovute all'influsso deviante delle filosofie pagane. A tal fine i primi quattro libri, chiamati dall'autore Philosophoumena, cioè esposizione di filosofemi, dovevano trattare diffusamente delle varie componenti culturali del paganesimo, mentre i successivi cinque mostrano, attraverso la descrizione delle varie eresie, la loro derivazione da quelle componenti. L'eresia dunque, cresciuta sulla radice della filosofia, è meno nobile e più lontana dal divino di questa: svelare l'arché ("origine") dell'eresia e descriverne la fenomenologia esaurisce in pratica il compito dell'eresiologo. La struttura della prima parte dell'opera si distingue con difficoltà, essendo andati perduti il II, il III e l'inizio del IV libro. Il I libro, conservato, presenta le varie scuole filosofiche, il II doveva parlare della mitologia e dei culti pagani, il III dei misteri, il IV dell'astrologia e magia. I cinque libri che compongono la parte confutativa - il vero e proprio Èlenchos - contengono o descrivono alcuni importanti documenti provenienti da sette eretiche. Molta materia è tratta dall'Adversus haereses di Ireneo, a volte ripreso letteralmente senza che l'autore si curi di dichiarare la sua fonte. Di particolare interesse è il libro IX per l'inserimento di papa Callisto fra gli eretici: anzi egli, che rappresenta la più recente fra le eresie, si colloca al punto più basso di una linea involutiva. L'odio che l'autore porta all'avversario è sviscerato e orienta fortemente la narrazione, ma le informazioni sulla Chiesa di Roma sono ugualmente fondamentali. Il libro X rende esplicita l'ambizione dell'autore di rivolgersi, con intenzione insieme apologetica e protrettica, a chiunque, pagano o cristiano, ami ricercare la sapienza (E. Norelli, Alcuni termini della "Confutazione di tutte le eresie"). Dopo il riassunto dei libri precedenti, che presenta, come è consueto per gli antichi, anche elementi nuovi, l'autore fa un'esposizione positiva della verità, in cui manifesta la personale impostazione teologica, riconducibile alla teologia del Logos. Questa impostazione è accentuata rispetto al Contra Noetum perché l'Èlenchos attribuisce l'appellativo di Figlio anche al Logos preesistente e non solo all'incarnato, ma resta prudente circa il termine prosopon, coinvolto dalla discussione con Callisto e non menzionato in riferimento alla divinità. D'altra parte, al di là di questo silenzio, un certo divisismo è presente nel linguaggio dell'autore e questo fa comprendere l'origine dell'accusa di diteismo lanciatagli da Callisto. La visione teologica dell'Èlenchos è binitaria, e anzi il termine "spirito" (pneuma) non è menzionato in riferimento alla divinità, forse per non lasciare alcuno spazio possibile alle soluzioni callistiane. La cronologia dell'opera non è certissima: Callisto sembra troppo odiato per non essere vivo, ma un punto almeno dell'Èlenchos (IX, 12), quando si giunge a parlare della continuazione della sua scuola, fa pensare che la sua morte sia già avvenuta. Callisto era stato ucciso in un tumulto e la fama popolare lo considerava martire. Ora, non fare menzione della sua fine sembrerebbe un'ulteriore meschinità dell'autore dell'Èlenchos, mentre nel contempo si affanna a negargli la qualifica di martire esclusivamente sulla base della prigionia in Sardegna che egli considera una giusta punizione per crimini comuni. D'altra parte, si potrebbe argomentare che proprio le circostanze particolari di quella morte potevano spingere l'autore a far finta di niente, perché Callisto era rimasto vittima di un'insurrezione e poteva non essere considerato un vero e proprio martire, come invece finì per essere. Si propende qui per una data intermedia fra gli anni 222 e 235. Il Compendio dei tempi e degli anni dalla creazione del mondo sino al giorno d'oggi (noto anche come Chronicon) - questo è il titolo completo che si ricava dal manoscritto greco - non è detto sia da identificare con l'opera Cronache incisa sulla statua, come si evince da quanto è stato detto sopra. Appare composto, dai dati che riporta, entro il 234/235: probabilmente il corpo principale dell'opera è alquanto antecedente a questa data, ma venne aggiornato costantemente dall'autore. Solo la prima parte si è salvata nell'originale greco, mentre l'intero testo è conservato in tre traduzioni latine indipendenti, oltre a due altre in armeno e georgiano. Sostanzialmente, si tratta di una cronologia biblica che considera in 6000 anni la durata complessiva del mondo, come avviene nell'analoga opera di Giulio Africano, risalente quest'ultima al 221, e come si ricava anche dal De Daniele, mentre altri calcoli di dettaglio nelle due opere non collimano. Si inizia con la genealogia da Adamo a Noè, la cui età, col diluvio universale, costituisce la grande cesura nella storia del mondo, e segue il diamerismòs, sezione a carattere geografico, in quanto presenta la divisione della terra fra i tre figli di Noè. In questa sezione è evidente l'uso della manualistica e dell'erudizione ellenistica. Numerosi gli excursus di carattere descrittivo sui principali aspetti della geografia fisica (monti e fiumi principali) e l'indicazione in stadi (lo stadiasmòs) delle distanze nel Mediterraneo, fra Alessandria e la Spagna, con ulteriori notizie su porti, disponibilità di acque potabili e quanto può essere utile per la navigazione. Riprende quindi, in una terza sezione, la genealogia da Noè, intersecando storia ebraica e profana. L'opera trova analogia con quella di Giulio Africano e risente della temperie erudita e di apertura culturale propria dell'età dei Severi. Sul montante della statua è conservato, fra gli altri, un Sui carismi tradizione apostolica, che sembra un titolo unico e potrebbe essere un'opera scritta in relazione al frangente storico che vide l'insorgere degli entusiasmi carismatici montanisti. Una consolidata tradizione di studi utilizza questo titolo per giustificare, con un argomento esterno, l'attribuzione a I. della Traditio apostolica. Quest'ultimo è il titolo assegnato agli inizi del Novecento a un documento, che in origine doveva essere stato composto in lingua greca, di carattere liturgico-canonistico, individuato al termine di una complessa operazione di restituzione critica: il lavoro di ricostruzione si è basato sul confronto fra la Sinodos Alexandrina, la collezione canonica della Chiesa di Alessandria, conservata in copto, e una serie di altre collezioni canoniche di aree, secoli e lingue diversi. Ai fini dell'attribuzione a I. del documento di base così ricavato si è fatto leva, come giustificazione interna, sulla presenza del nome di I. nei titoli di alcune collezioni usate per tale ricostruzione. Successivamente si sono moltiplicati i dubbi su questa operazione critica e soprattutto sull'attribuzione a I., non tanto in relazione all'entrata in crisi della ricostruzione vulgata del personaggio di I., che pure getta dubbi sulla paternità dei titoli della statua, quanto per una più attenta valutazione delle caratteristiche della letteratura di natura canonistica. L'attribuzione a I. intende imporre una genesi individuale e un'origine romana a un documento che non sembrerebbe avere caratteri difformi da una letteratura, quella appunto canonistica, che si sviluppa per accrescimenti e integrazioni nei quali non è possibile recuperare l'apporto del singolo. Si aggiunga che l'unico frammento greco riconducibile al documento di base, scoperto da M. Richard nel 1963, non fa cenno nel titolo a Ippolito. Inoltre la riconsiderazione dell'albero genealogico, alla cui origine sarebbe da porre il documento di base, allontana dagli strati più antichi della tradizione i testi recanti il nome di I., che comparirebbe non prima del IV-V secolo. Tali motivazioni inducono a non considerare la Traditio fra le opere ippolitee o comunque rientranti direttamente nella questione ippolitea. Il personaggio di I. visse a lungo nella letteratura agiografica, subendo numerose trasformazioni, e legando la sua memoria a vari luoghi, fra cui primi a Roma il cimitero della Tiburtina e Porto. Esaminando l'impostazione già alquanto leggendaria dell'epigramma damasiano, pare lecito parlare di un uso consapevole e intenzionale da parte di Damaso della tradizione martiriale di I. per lanciare un messaggio di riconciliazione religiosa alle persistenti frange luciferiane, cioè ai gruppi di scismatici rigoristi alla pari dei novaziani, attivi nella Chiesa di Roma. All'inizio del V secolo Prudenzio nel carme XI del Peristephanon parla di una pittura raffigurante il martirio dell'ex-scismatico I., condannato a essere dilaniato dai cavalli tirati in diverse direzioni, un supplizio ricalcato sul mito di Ippolito, figlio di Teseo: il martire sarebbe morto a Porto e il suo corpo da lì avrebbe avuto sepoltura sulla Tiburtina. La romana Passio Polychronii nella seconda metà del IV secolo adatta la storia di I. in modo da creare un collegamento romanzesco con altri martiri romani: I. è un soldato, carceriere di Lorenzo. Battezzato da lui, viene condannato al supplizio che anche Prudenzio ricorda. Ulteriori tradizioni agiografiche si sviluppano a partire dall'area cultuale di Porto, facendo di I. il vescovo del luogo e identificandolo con un autentico martire locale, Nonno. Si assiste così alla duplicazione del santo e al trasferimento nella produzione agiografica orientale della confusione che ormai regnava a Roma su questa figura. Per lo più, la memoria liturgica è celebrata in Occidente il 13 agosto e in Oriente il 30 gennaio. Fonti e Bibl.: sul De Christo et Antichristo: cfr. l'ediz. a cura di I.H. Achelis, Leipzig 1887 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller, 1, 2); E. Norelli, Ippolito. L'Anticristo. De Antichristo, Firenze 1987 (Biblioteca patristica, 10). Sui frammenti del Sull'essenza dell'universo: Fozio, Bibliotheca, a cura di R. Henry, I, Paris 1959, pp. 33-5; Ioannis Philoponi de opificio mundi libri VII, a cura di G. Reichardt, Lipsiae 1897, pp. 154 ss.; Fragmente vornicänischer Kirchenväter aus den Sacra Parallela, a cura di K. Holl, ivi 1899 (Texte und Untersuchungen, 20, 2), pp. 137-43. Sul De Daniele: cfr. l'ediz. a cura di G.N. Bonwetsch, ivi 1897 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Hippolytus Werke, I, 1); a cura di G. Bardy-M. Lefèvre, Paris 1947 (Sources Chrétiennes, 14). Sulla Refutatio omnium haeresium: cfr. l'ediz. a cura di P. 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