Ipertensione arteriosa
(XIX, p. 480; App. II, ii, p. 61; III, i, p. 891)
Ipertensione arteriosa sistemica
Definizione e classificazione
Per i. a. sistemica si intende un aumento stabile della pressione arteriosa sistolica (o massima) e/o diastolica (o minima), rispettivamente al di sopra di 140 e di 90 millimetri di mercurio (mmHg). Questa condizione rappresenta un importante problema di salute pubblica, in quanto costituisce uno dei più rilevanti fattori di rischio di malattie cerebrovascolari (come l'ictus cerebrale), cardiovascolari (come l'infarto miocardico o lo scompenso cardiaco) e renali (l'insufficienza renale).
La suddetta definizione di i. a. è stata stabilita da comitati di esperti di importanti organismi scientifici internazionali, quali l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la International Society of Hypertension (ISH) e il Joint National Committee (JNC). L'OMS e l'ISH hanno poi ulteriormente classificato l'i. a. in base all'entità del rialzo pressorio, distinguendo l'ipertensione di grado lieve (140÷180 mmHg di sistolica e/o 90÷105 mmHg di diastolica) e quella di grado moderato-severo (>180 e/o >105) (tab. 1), nonché la cosiddetta ipertensione sistolica isolata (>160 e 〈90). Il JNC propone una diversa classificazione in quattro stadi (lieve, moderata, grave e molto grave), ma si tratta di differenze di carattere più formale che sostanziale.
Sono poi stati definiti anche i valori che individuano l'ipertensione borderline, sia nel gruppo con ipertensione lieve (140÷160 e/o 90÷95) sia in quello con ipertensione sistolica isolata (140÷160 e 〈90). L'i. a. borderline si può riscontrare non solo in soggetti i cui valori pressori sono compresi entro tali limiti, ma anche in soggetti che presentino valori pressori talora normali e talora elevati o che sviluppino ipertensione durante stress o esercizio fisico. I soggetti con i. a. borderline sono anch'essi considerati 'a rischio' in quanto hanno elevate probabilità di sviluppare ipertensione stabile e, inoltre, presentano in maggior misura, rispetto ai soggetti con pressione normale, complicanze cardiovascolari.
Oltre agli ipertesi stabili e ai borderline esiste un gruppo di soggetti, spesso anziani, in cui si osserva un aumento esclusivo della pressione sistolica, come sopra ricordato; anche l'i. a. sistolica isolata costituisce un importante fattore di rischio cardiovascolare e, soprattutto, cerebrovascolare (ictus cerebrale).
L'OMS e l'ISH definiscono poi ulteriormente l'i. a. in tre stadi di evoluzione in base all'eventuale presenza di compromissione di uno o più organi o apparati, cioè del cosiddetto danno d'organo (per es., danno cardiaco, cerebrovascolare, renale, retinico) che può derivare dalla persistenza per un lungo periodo di elevati valori pressori. Questa ulteriore classificazione sottolinea l'importanza, per quanto riguarda sia gli aspetti diagnostici sia quelli terapeutici, di non sottovalutare i danni, che nel tempo finiscono per coinvolgere gli organi cosiddetti bersaglio dell'ipertensione.
Per es., la presenza di ipertrofia del ventricolo sinistro (evidenziata dall'elettrocardiogramma o, con maggiore accuratezza, dall'ecocardiogramma), oppure di peculiari alterazioni della retina, osservate all'esame del fondo oculare, oppure, ancora, di riscontro di proteinuria in un normale esame delle urine, da un lato rappresenta elemento aggiuntivo di rischio nel soggetto iperteso, e dall'altro richiede un approccio terapeutico antipertensivo più aggressivo. Allo stesso modo, la concomitanza di altri fattori di rischio cardiovascolare, quali l'ipercolesterolemia, il diabete mellito, l'abitudine al fumo di sigaretta, l'obesità, la presenza di familiari che abbiano sofferto di malattie cardio- e cerebrovascolari, aumenta il rischio del soggetto iperteso, richiedendo maggiore attenzione in termini di prevenzione di eventi clinici futuri.
Si può definire iperteso un paziente solo dopo aver eseguito più misurazioni della pressione arteriosa nell'arco di alcune settimane, in quanto una singola misurazione potrebbe sovrastimare i reali valori pressori dell'individuo (soprattutto per il cosiddetto effetto 'camice bianco', in conseguenza del quale alcuni soggetti mostrano un'elevazione transitoria della pressione arteriosa, conseguente a un'esagerata risposta emotiva legata alla presenza del medico).
Anche per superare questa problematica, peraltro piuttosto frequente, sono state messe a punto negli ultimi anni idonee apparecchiature portatili in grado di misurare la pressione arteriosa più volte e a intervalli regolari prefissati, nell'intero arco delle 24 ore. Tale tipo di registrazione, denominata monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa, permette la misurazione di tale parametro ripetutamente e in modo automatico, sia di giorno sia di notte, durante la normale attività del soggetto, fornendo informazioni utili per il corretto inquadramento diagnostico e terapeutico. Molto più semplicemente, anche la pratica dell'automisurazione della pressione, che il soggetto effettua per es. al proprio domicilio e lontano da condizionamenti esterni che possano produrre ansia, rappresenta una procedura spesso consigliata, in quanto permette di superare il problema dell'effetto 'camice bianco'.
Cause e aspetti epidemiologici
Nella maggioranza dei casi non è possibile riconoscere una causa certa dell'i. a.: tali forme sono dette essenziali o primitive. L'i. a. essenziale costituisce circa l'85% dei casi e il rimanente 15% viene detto i. a. secondaria in quanto dipendente da causa nota (tab. 2).
La prevalenza dell'i. a. nella popolazione varia in funzione dell'età e del sesso, essendo più frequente nelle fasce di età avanzata (nelle quali può colpire quasi un terzo dei soggetti) e, prima del quinto decennio di vita, nei maschi rispetto alle femmine. Dai dati forniti da numerosi studi epidemiologici si può calcolare una prevalenza media negli adulti compresa fra il 10 e il 20%. Questi dati si riferiscono ai paesi industrializzati, essendo invece inferiori le percentuali relative ai paesi in via di sviluppo.
Un altro aspetto interessante, e al tempo stesso allarmante, che è possibile rilevare dai dati di quasi tutti gli studi epidemiologici, è l'elevatissima percentuale di soggetti che ignorano di essere ipertesi (circa il 50%). Inoltre, anche fra quelli che sanno di essere ipertesi un trattamento è effettuato in circa la metà dei casi, e ancora inferiore è la percentuale di coloro che attuano una terapia in grado di indurre un controllo pressorio soddisfacente (25%).
È ormai largamente accettato che i valori pressori dell'individuo sono determinati dall'interazione di fattori genetici e ambientali. La predisposizione genetica rappresenta il fattore necessario per lo sviluppo dell'i. a. in condizioni ambientali e comportamentali che facilitino il suo instaurarsi; è altresì probabile che non si tratti di una singola alterazione genetica, ma che esistano invece alterazioni a carico di più geni, in una interdipendenza complessa che non è stata ancora pienamente identificata.
Alcune osservazioni confermano la notevole importanza del fattore ereditario. Gli ipertesi mostrano rispetto ai normotesi una frequenza almeno doppia di storia familiare di i. a.; si deve rilevare inoltre che esistono correlazioni assai strette fra pressione dei genitori e dei figli, e tra i valori pressori di fratelli gemelli, specie se omozigoti.
Quale sia la natura del difetto genetico (o dei difetti) è oggetto di intensa ricerca. Una delle teorie ipotizza l'esistenza di un difetto (trasmesso su base ereditaria) della capacità del rene di eliminare il sodio. L'insorgenza di i. a. è anche da imputare sia a una dieta troppo ricca di sodio, più frequente nei paesi a elevato sviluppo economico, sia a una dieta carente di potassio. Fra gli altri fattori ambientali e comportamentali considerati, predisponenti sono anche da ricordare l'obesità, il consumo di alcool, la ridotta attività fisica, nonché fattori psicosociali (stress psicologici).
Indipendentemente dalle cause, l'alterazione emodinamica fondamentale che si rileva nei soggetti affetti da i. a. essenziale è costituita da un aumento delle resistenze vascolari periferiche e/o da una diminuzione della capacità di distensione delle arterie, attraverso meccanismi fisiopatologici molteplici, spesso interreagenti fra loro. Fra questi meccanismi, la cui modulazione riconosce pure una componente genetica, sembrano svolgere un ruolo di primo piano il sistema adrenergico, il sistema renina-angiotensina-aldosterone, alcuni sistemi di vasodepressione (bradichinine), nonché alcune sostanze ormonali che esercitano la propria influenza sull'escrezione del sodio (fattore natriuretico atriale).
Aspetti diagnostici, clinici e possibili complicanze
Di fronte al paziente al quale si siano riscontrati elevati valori pressori il medico effettua una valutazione iniziale clinica e di laboratorio, con il duplice scopo di determinare la causa dell'i. a., anche se nella maggioranza dei casi non si riconosce una causa specifica, e di scegliere il tipo di terapia più adatta al soggetto in esame. La grande maggioranza dei pazienti, che quasi sempre non presentano sintomi, scopre di essere ipertesa nel corso di controlli casuali. Infatti è stato dimostrato che alcuni dei sintomi che generalmente vengono considerati tipici dell'i. a. (per es., cefalea, epistassi, vertigini, senso di malessere generale) sono in realtà accusati in misura assolutamente sovrapponibile da normotesi e ipertesi. Oltre all'esame clinico, vengono effettuate indagini di laboratorio, spesso partendo da valutazioni più semplici e meno costose, fino ad arrivare a valutazioni più complesse (esami ecografici, scintigrafici, angiografici, urografici, o tomografie computerizzate, oppure dosaggi di particolari componenti del sangue, quali catecolamine, renina o aldosterone).
Le forme di i. a. secondaria più frequenti sono quelle dovute a malattie renali, endocrine, vascolari, neurologiche, oppure quelle secondarie all'uso di taluni farmaci (tab. 3). Fra le cause renali si ricordano: la stenosi mono- o bilaterale dell'arteria renale (dovuta soprattutto ad arteriosclerosi o, specialmente nelle donne giovani, a displasia fibromuscolare), il rene policistico, la pielonefrite, la glomerulonefrite cronica e la nefrite interstiziale, specialmente quando evolvono verso l'insufficienza renale cronica; anche i pazienti sottoposti a trapianto renale vanno incontro con una certa frequenza all'ipertensione arteriosa. Fra le cause endocrine si ricordano: il feocromocitoma (raro tumore generalmente localizzato nelle ghiandole surrenali e associato a produzione di catecolamine), l'iperaldosteronismo primitivo (morbo di Conn), la sindrome di Cushing e l'acromegalia.
L'i. a. può anche presentarsi durante una gravidanza, determinando un aumento dei rischi sia per la madre sia per il feto. Il feto può presentare un ridotto sviluppo, un basso peso alla nascita, oltre a una depressione respiratoria; è maggiore la mortalità fetale e perinatale; tutte queste condizioni sono probabilmente causate da una riduzione del flusso placentare. In questi casi, la gestante presenta proteine nelle urine ed edemi; raramente, nell'i. a. in gravidanza, si sviluppa una complicanza temibile, gravata da elevata mortalità del feto e/o della gestante, denominata eclampsia e caratterizzata da convulsioni, problemi renali, epatici e ipofisari.
L'i. a. rappresenta una condizione a rischio di molteplici complicanze, soprattutto cardiovascolari e cerebrovascolari. Uno dei principali meccanismi attraverso i quali si instaurano tali complicanze è rappresentato dallo sviluppo di arteriosclerosi, favorito dalla presenza di valori pressori elevati, che crea le basi per quelle alterazioni delle pareti arteriose (placche arteriosclerotiche, trombosi) che possono condurre all'ictus cerebrale o all'infarto miocardico. Il danno della parete arteriosa può inoltre favorire la comparsa di aneurismi, più frequentemente a carico dell'aorta o dei vasi cerebrali, con possibili complicanze anche drammatiche, legate alla dissezione o addirittura alla rottura di tali strutture (aneurisma dissecante dell'aorta, ictus emorragico).
A livello cardiaco, inoltre, l'i. a., oltre a creare danni per le arterie coronarie, principalmente attraverso la comparsa di arteriosclerosi, favorisce lo sviluppo di ipertrofia del muscolo miocardico, per l'aumentato lavoro del cuore, che deve pompare sangue in un sistema arterioso caratterizzato da un aumento delle resistenze vascolari periferiche. L'ipertrofia ventricolare è dapprima un meccanismo adattativo che il cuore utilizza (similmente a quanto avviene nel muscolo scheletrico sottoposto ad aumentati carichi di lavoro), ma alla lunga diviene un fenomeno svantaggioso, configurandosi come un ben definito e indipendente fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo, incrementando quindi di per sé il rischio di eventi anche fatali. Da sottolineare pure la maggiore frequenza con cui nei pazienti ipertesi si può sviluppare una condizione di scompenso cardiaco; tale patologia, la cui incidenza è purtroppo in costante ascesa negli ultimi decenni, può presentarsi sia per effetto di un'i. a. non curata sia come conseguenza di una sua complicanza, l'infarto miocardico.
Un'altra potenziale complicanza dell'i. a., la cui incidenza è anch'essa in aumento negli ultimi tempi, è rappresentata dall'insufficienza renale, fino alle sue forme più avanzate, che necessitano di dialisi.
Terapia
L'obiettivo primario della terapia antipertensiva è la riduzione dell'incidenza delle complicanze mediante il ripristino di valori pressori normali, con presidi di carattere sia non farmacologico sia farmacologico.
Gli studi clinici controllati di intervento a medio e lungo termine hanno ampiamente documentato che la riduzione dei valori pressori consente un calo dell'incidenza di eventi e di mortalità cardiovascolare e cerebrovascolare nei soggetti ipertesi. Una riduzione media di 5÷6 mmHg di pressione diastolica e di 10÷12 mmHg della sistolica per un periodo di qualche anno diminuisce del 20% la mortalità per cause cardiovascolari e l'incidenza di ictus del 30÷50%. L'entità della riduzione degli eventi coronarici può variare dal 4 al 22%. Traggono beneficio dal trattamento anche gli anziani e i soggetti con i. a. sistolica isolata.
Già dalle prime fasi di inquadramento diagnostico è opportuno per il soggetto un cambiamento dello stile di vita, costituendo questo aspetto la componente non farmacologica del trattamento antipertensivo. Questo tipo di intervento svolge una funzione chiave non solo nel ridurre il numero di pazienti che dovranno poi essere sottoposti a terapia farmacologica, ma soprattutto nel ridurre i vari fattori di rischio, spesso presenti e prognosticamente sfavorevoli nell'iperteso; per es., è di notevole importanza l'astensione dal fumo di sigaretta o il riequilibrio di diete incongrue (spesso, il paziente iperteso presenta anche una concomitante riduzione della sensibilità all'azione dell'insulina, con possibilità di sviluppare più facilmente nel tempo una condizione di aumento dei valori della glicemia).
La riduzione del peso corporeo, la restrizione dell'introito di sodio (a circa 100 mEq/die), il limitato consumo di alcool e l'esercizio fisico regolare sono tutte misure spesso capaci di abbassare i valori pressori negli ipertesi. Le correzioni di queste abitudini di vita dovranno comunque continuare per tutta la vita, anche se da sole non permetteranno un adeguato controllo pressorio e a esse dovrà essere affiancata una terapia farmacologica.
In linea generale, il valore soglia di 140/90 mmHg è quello per il quale si decide di intraprendere un trattamento, specialmente se sono presenti altri fattori di rischio cardiovascolare. Il livello di pressione da raggiungere con la terapia è quello che sta al di sotto di questi valori, o anche valori inferiori (120÷130/80 mmHg), specialmente nei soggetti più giovani.
Fra i farmaci da utilizzare come prima scelta, si segnalano diuretici e β-bloccanti, calcio-antagonisti, inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina (ACE-inibitori), α-bloccanti, α-β-bloccanti e inibitori del recettore per l'angiotensina II. Recentemente, la possibilità di disporre anche di formulazioni transdermiche di farmaci come la clonidina, con azione simpaticolitica, o di farmaci da assumere per via orale che permettano un rilascio controllato dal tubo gastroenterico, ha fornito nuove possibilità di scelta farmacologica, che permettono concentrazioni plasmatiche di farmaco costanti nell'intero arco della giornata, con efficacia mantenuta per tutte le 24 ore e con minore comparsa di effetti indesiderati.
La buona tollerabilità della terapia rappresenta un altro obiettivo importante da perseguire, poiché il soggetto che non riscontra effetti collaterali della terapia che sta effettuando è anche quello che aderisce più facilmente allo schema di trattamento che gli viene consigliato dal medico, e più facilmente lo continuerà in futuro. La piena adesione del paziente al trattamento (la cosiddetta compliance al trattamento) è un aspetto primario della buona riuscita della cura, anche perché si tratta quasi sempre di terapie da continuare per lungo tempo, di regola per tutta la vita, pur con necessità di modifiche spesso frequenti.
Poiché i valori pressori desiderati si ottengono solo in circa il 50÷60% dei casi con l'uso di un singolo farmaco, è piuttosto frequentemente richiesta l'associazione di due o più farmaci antipertensivi (sovente utilizzati ognuno a dosaggi inferiori rispetto alla dose piena), e spesso già dopo pochi mesi dall'inizio di una monoterapia.
Il trattamento dell'i. a., comunque venga effettuato (modificazione dello stile di vita, terapia farmacologica o, più raramente, chirurgica), anche se non è generalmente in grado di rimuovere le cause che determinano l'elevazione dei valori pressori, riesce solitamente a correggerne i meccanismi che la producono, permettendo in ultima analisi di ridurre l'entità globale del rischio cerebrovascolare e cardiovascolare del soggetto iperteso.
Un aspetto separato da quanto esposto finora riguarda la diagnosi e il trattamento delle cosiddette crisi ipertensive, peraltro eventi non particolarmente frequenti. In realtà, oggi vengono piuttosto usati termini come emergenze e urgenze ipertensive per indicare condizioni cliniche nelle quali è richiesta una riduzione dei valori pressori in tempi brevi. Occorre sottolineare che non è tanto il livello assoluto dei valori pressori a richiedere un intervento farmacologico rapido, ma il contesto clinico nel quale si instaura l'elevazione dei valori pressori. Non è considerabile emergenza ipertensiva la situazione in cui un soggetto, cronicamente iperteso, presenti a un controllo ambulatoriale un'elevazione anche notevole dei valori pressori, magari secondaria a un effetto 'camice bianco'. Invece è considerata emergenza, anche a valori considerevolmente più bassi, quando il soggetto presenti, per es., un aneurisma dissecante dell'aorta, un infarto miocardico acuto, un'emorragia cerebrale, o si tratti di una paziente gravida.
Si tratta quindi di particolari condizioni cliniche in cui è necessaria una rapida stabilizzazione in termini emodinamici e soprattutto una tempestiva riduzione degli eventuali elevati valori pressori, a differenza di quanto è richiesto di solito nel trattamento dell'i. a., dove la riduzione della pressione dovrebbe essere ottenuta in modo lento e graduale. Nei casi di reale urgenza vengono adoperati farmaci che permettano un rapido instaurarsi dell'azione antipertensiva, utilizzando a tal fine vie di somministrazione quali quella endovenosa o quella sublinguale, alle quali generalmente non si ricorre nel comune approccio al paziente iperteso.
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