iperbole
Figura retorica consistente nell'esagerazione di un concetto, per cui la parola o la locuzione propria sono sostituite da altre che ne accrescono o ne diminuiscono il senso, al fine di renderlo più evidente. Definita dai retori latini come superlatio, l'i. appartiene al genere più ampio della metafora ed è catalogata nelle arti poetiche medievali fra gli schemi dell' " ornatus difficilis ".
L'i, nella sua forma tipica, ricorre frequentemente nella Commedia lì dove il poeta intende evidenziare un concetto, ma non è dato riscontrare una ricerca particolarmente varia e originale di questa figura, sicché basterà qualche esempio. ‛ Laco ' per indicare una grande quantità di sangue versato appare ben due volte: di sangue fece spesse volte laco (If XXV 27); de le mie vene farsi in terra laco (Pg V 84). Viceversa una minima quantità di acqua è indicata con l'i. ormai comune di un gocciol d'acqua bramo (If XXX 63). Analogamente un'oncia sta per una misura minima di spazio: S'io fossi pur di tanto ancor leggero / ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia (XXX 82-83), che corrisponde in vero alla reale condizione di maestro Adamo, ma costituisce tuttavia un'i., se si pensi che pone una condizione limite e intende con un'assurda ipotesi indicare l'enorme brama di vendetta del dannato.
Al limite dell'i. è il concetto espresso in Pg IV 25-27, dove qui convien ch'om voli allude a una ripidezza tale da non poter essere superata con la più abile delle scalate Questo genere d'i. è assai diffuso nella Commedia per la stessa esigenza di dover raccontare al lettore cose assai superiori all'esperienza comune: la figura retorica pretende quindi, in questi casi, di corrispondere al vero e assume solo apparentemente la forma dell'esagerazione, come allorché il poeta racconta di essersi trovato in un'atmosfera più buia del buio completo (Pg XVI 1 ss.), di aver visto le anime paradisiache più trasparenti che la più perfetta trasparenza (Pd III 10 ss.), o di aver visto un punto assolutamente incommensurabile (XXVIII 19-21). Ma in If XXIII 65-66 il rapporto fra le cappe degl'ipocriti e quelle messe da Federico (gravi tanto, / che Federigo le mettea di paglia) rappresenta una voluta esagerazione, che si accorda anche con certo tono comico diffuso per tutto l'episodio; così in Pd XXXIII 106-108 l'espressione realistica (Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella), pur alludendo all'effettiva incapacità della lingua del poeta, tradisce l'intenzione iperbolica. Frequentemente l'i. assume la forma della similitudine o della comparazione, come nei casi che abbiamo testé citati. Possiamo aggiungere per ulteriore esemplificazione quello di Pg VII 100-101, in cui la superiorità di Ottacchero su Venceslao suo figlio è rivelata nell'estremo paragone fra l'uno ne le fasce e l'altro maturo. In If XXXII 9 ss. la designazione della lingua umana come quella infantile (che chiami mamma o babbo) introduce un'i. di sapore appena ironico, che intende sottolineare l'antitesi fra il compito immane e le limitate capacità del poeta. Dall'antitesi prende vigore, e si rafforza con l'allitterazione, l'i. di Pd VII 18 un riso / tal, che nel foco faria l'uom felice.
All'i. può ricondursi l'uso frequente di ricorrere a un numero simbolico per indicare una quantità rilevante: Per mille fonti, credo, e più si bagna... (If XX 64); " 0 frati ", dissi, " che per cento milia / perigli siete giunti a l'occidente... " (XXVI 112-113); se mille fiate in sul capo mi tomi (XXXII 102); lasciala tal, che di qui a mille anni / ne lo stato primaio non si rinselva (Pg XIV 65-66). Espressione iperbolica, da ricollegarsi al linguaggio pessimistico della satira, è quella di Pg VI 124-125 le città d'Italia tutte piene / son di tiranni.
Ma l'i., che nella Commedia è largamente usata per definire l'ineffabile, deriva i suoi modi dalla tradizione della lirica occitanica, e trova già un impiego notevole nella Vita Nuova e nelle Rime. Anzi la poetica dantesca è strettamente collegata, in queste opere, soprattutto nel gruppo delle poesie della ‛ loda ', allo schema retorico dell'i., attraverso il quale si esprime la concezione mistica della donna quale personaggio divino. Ma l'i. propria della tradizione lirica ha, in tal caso, questo di particolare, che appunto la concezione che al fondo della loda ne dissolve il carattere retorico, trasformando la figura in una reale ed eccezionale verità. A parte quindi la designazione dell'ossequiente amante come ‛ servo ' (cfr. ad es. Vn VII 14 40) e della donna come ‛ angiola ', o dell'effetto della ferita d'amore come uccisione e morte, che risentono del frasario galante, l'identificazione della donna con la miglior opera della natura (XIX 49), la meraviglia che essa produce perfino nei cieli (XIX 7 16-18; XXXI 10 21-23), lo stupore che ella provoca nell'uomo e l'effetto di redenzione spirituale che produce il solo vederla e parlarle (XIX 10 43) rientrano nella particolare concezione dantesca. Collegate con questa particolare situazione sono anche alcune tipiche iperboli della Vita Nuova. Il poeta designa infatti due volte lo sconvolgimento del suo volto come una vera trasformazione in figura d'altrui (XIV 12 12; cfr. XXII 13 3-4); confessa di non poter ‛ finire ' la lauda di Beatrice; e altri passi. Ma in quest'ultimo caso è evidente la collisione dell'i. con la metafora vera e propria.