Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Premio Nobel per la letteratura nel 1987, Iosif Brodskij è forse l’ultimo erede della generazione di Mandel’štam e della Achmatova. Coerentemente con la sua concezione di esilio quale azione di resistenza attiva, Brodskij ha continuato a scrivere le sue poesie in russo anche durante i lunghi anni trascorsi negli Stati Uniti. I suoi versi, lucidi e densi di memoria, caratterizzati da una pronuncia neutra che apre a riflessioni di ordine esistenziale e metafisico, testimoniano la sua fede profonda nell’idea che l’estetica debba essere madre dell’etica.
Dalle samizdat all’esilio
Iosif Brodskij
Da “Ninnananna da Cape Cod”
io scrivo queste mie righe, cercando,
con la mano affannata, un po’ alla cieca,
di prevenire anche soltanto di un secondo
l’“a che pro?” da quelle stesse labbra pronto
a involarsi, e a navigare attraverso
la notte, ingigantendo.
J. Brodskij, Poesie, a cura di G. Buttafava, Milano, Adelphi, 1986
Nel 1974, commentando le prime poesie di Brodskij apparse in Italia con l’effetto di una vera e propria rivelazione, Pier Paolo Pasolini sostiene che la poetica dello scrittore russo si fonda sull’idea “dell’inutilizzabilità della poesia”. Questo giudizio, che avrebbe sicuramente fatto comodo alle autorità sovietiche quando, nel 1972, lo condannano ai lavori forzati per parassitismo sociale, è in realtà indice della profondissima concezione linguistica che anima la produzione poetica e saggistica di Brodskij, convinto che non sia il poeta a far uso del linguaggio ma egli stesso un “suo prodotto, uno strumento, un’arma della lingua”, la quale si evolve e si modifica incurante della finitezza umana. Nella visione di Brodskij è dunque la poesia a utilizzare l’uomo: il poeta è realmente colui che ascolta la Musa, il dittator dantesco, il cui compito si rivela essere quello di trasmettere un contenuto che metafisicamente lo trascende, coniugando bellezza e verità. Come ha più volte ribadito nelle numerose conferenze ora raccolte in volumi straordinari quali Dolore e ragione (On Grief and Reason, 1995) e Dall’esilio (1988), la madre dell’estetica deve essere necessariamente l’etica, intesa platonicamente come determinazione a non tradire la propria voce interiore. Per un poeta nato nella Russia comunista e costretto a pubblicare come molti autori della sua generazione in edizioni samizdat – stampe clandestine diffusissime tra i giovani – il destino non poteva che rivelarsi l’esilio. È infatti questo uno dei temi principali al centro della produzione lirica e saggistica di Brodskij, nonostante la sua determinazione a non concedersi mai lo statuto di vittima. Riflettendo sulla “condizione che chiamiamo esilio”, egli non si limita a ripercorrere il cammino della tradizione letteraria russa, che vede l’esule così morbosamente legato al concetto di madrepatria da non arrivare mai del tutto ad accettare il nuovo contesto in cui si trova costretto a vivere, ma ha invece messo in luce l’impossibilità della Russia moderna di produrre veri e propri esuli, in quanto civiltà ormai costretta a un inarrestabile declino. Lasciare alle proprie spalle un mondo di macerie e rovine, infatti, non permette più di coltivare il sogno di un ritorno.
L’esilio postmoderno è dunque qualcosa che va continuamente ricreato, nella consapevolezza che il viaggio avviene attraverso imperi che si sgretolano. Ecco perché in una splendida poesia del 1975, Ninnananna da Cape Cod, scritta solo dopo tre anni l’arrivo negli Stati Uniti, attraverso uno straordinario controllo del dato biografico e una struttura meditata che alterna momenti oggettivi e derive oniriche, il poeta, obbligato a cambiare “impero”, giunge ad affermare che la condizione di qua e di là dall’oceano che ha davanti a sé è la stessa (“nell’emisfero croce i sogni conservano la realtà brutta / dell’emisfero testa”) e che l’unica dimensione possibile resta quella del viaggio, dell’impossibile approdo paradisiaco: “Il paradiso è un vicolo cieco. / È un promontorio che si incunea in mare. Un cono. / È la prua di un piroscafo di ferro. / Ma non si grida: ‘Terra!’”. È sintomatico che in una delle ultime poesie scritte prima di lasciare Leningrado, Odisseo a Telemaco, Brodskij si affidi al mito di Ulisse, in quello che diviene un ironico ma insieme straziante tentativo di comunicazione “attraverso la separazione” con il proprio figlio: “senza me / dai tormenti d’Edipo tu sei libero, / e sono puri i tuoi sogni, Telemaco”. L’Ulisse di Brodskij non è più il dantesco navigatore assetato di conoscenza, ma un uomo che rapito dalla furia del viaggio scopre ovunque la stessa desolante realtà e insieme l’inutilità dell’esilio: “Le isole, se viaggi tanto a lungo, / si somigliano tutte, mio Telemaco […] Com’è finita la guerra di Troia / io non so più e non so più la tua età”. Anche nella poesia Quinto anniversario (4 giugno 1977), chiaro riferimento alla data di espulsione dall’Unione Sovietica, l’esilio è visto come impossibilità di comunicazione sia con i connazionali sia con il resto del mondo, condizione sterile che obbliga il poeta a vivere un paesaggio ridotto a mero spazio, privo di ogni coordinata di riferimento, inabitabile dalla civiltà: “Ho di fronte spazio allo stato / puro. In esso non c’è posto per fontana, piramide, pilastro. / In esso io, di certo, di guida non ho bisogno”. Non è un caso che anche l’amata Leningrado, che fa da sfondo a numerose liriche della prima produzione di Brodskij e a cui sono dedicate le splendide pagine de Il canto del pendolo e Fuga da Bisanzio (due raccolte pubblicate in America nel 1986 in un solo volume con il titolo di uno dei saggi, Less than One), sia da lui percepita come una città di limite, affacciata sul golfo di Finlandia, ai confini dell’Impero ma al centro della cultura letteraria russa.
L’altra città che domina la poesia di Brodskij è Venezia, a cui si ispira anche il volume Fondamenta degli Incurabili (1990): una città acquario destinata a scomparire, un “ammasso di porcellana e di cristallo rotto” nascosta dalla nebbia, spazio urbano che sembra poter esistere anche senza la presenza dell’uomo: “capace di / fare a meno di noi”. A offrire un panorama di frantumi è anche Roma, assolato memento della gloria di una civiltà ormai perduta, deserto che espone ai sentimenti più tipici della poesia di Brodskij: la cupa nostalgia e il terrore di fronte al senso dell’eternità.
Incontri
Nel corso degli anni, la sua tensione lirica si fa via via più metafisica, secondo quel progetto avviato già nel 1963 con la Grande elegia per John Donne (Bolshaja elegija Dzonu Donnu), incentrata sulla figura del grande poeta inglese, tradotto clandestinamente dal polacco. La poesia è tutta giocata sul virtuosismo metrico e speculativo, in una riduzione della realtà al suo manifestarsi fenomenico, irrelato e assurdo, che rende palese la ragione per cui Brodskij ami tanto i Mottetti di Montale, autore a cui ha dedicato pagine di critica illuminanti. Secondo un procedimento già collaudato, anche nella Grande elegia ogni riferimento autobiografico viene immediatamente raffreddato dal distacco sentimentale e dall’ironia del poeta, la presenza soggettiva negata per sottrazione. Nel periodo compreso tra il 1972 e il 1977, anni in cui si mantiene insegnando in varie università degli Stati Uniti, il pantheon dei poeti amati da Brodskij si apre a nuove presenze: non più solo Pasternak, Achmatova, Mandel’štam e Cvetaeva ma anche Auden (l’unico che potesse “sedersi sull’Enciclopedia britannica”), Frost ed Emily Dickinson, maestra nel controllo del ritmo salmodiato e nell’estetica della sottrazione soggettiva. In questi anni nasce anche il doppio americano di Iosif Brodskij, che continua per tutta la vita a scrivere versi in russo, permettendo però a “Joseph Brosky” di pubblicare numerosi saggi in lingua inglese, sentita come lingua della libertà, come ha spiegato nel racconto dedicato ai genitori, morti senza aver mai ottenuto il permesso per visitare il figlio: “Voglio che i verbi inglesi descrivano il loro movimento. Ciò non li farà risorgere, ma la grammatica inglese, rispetto a quella russa, può almeno dimostrarsi una migliore via di fuga dai camini dello stato crematorio”.
Nonostante l’identificazione dell’inglese con la lingua della democrazia, gli anni di vita statunitense segneranno la definitiva trasformazione del paesaggio di rovine in un paesaggio di rifiuti, metafora di una condizione esistenziale immedicabile e irredimibile che il poeta continuerà ad abitare fino alla morte. La raccolta che documenta questo passaggio è Parte del discorso (A Part of Speech, 1979), dove non è più solo lo spazio in cui l’uomo vive a deteriorarsi ma l’uomo stesso, che, disintegratosi, si presenta solo in maniera frammentaria, parziale, ma all’interno della lingua, del discorso: “Di ciascun uomo non resta che una parte / del discorso. In genere, una parte”. Con questa raccolta, Brodskij si conferma un originale interprete della condizione postmoderna, in cui nessuna grande narrazione, nemmeno l’autonarrazione umana ed esistenziale, è più possibile. Nella sua poesia ciò avviene non senza un profondo senso di lutto e disperazione, tanto che la critica ha parlato di “elegia postmodernista”. L’acuto senso della sventura e della catastrofe rappresentato dalla vita umana accompagnerà tutta la produzione poetica di Brodskij a partire dalla fine degli anni Settanta: un testo come Versi sulla campagna d’inverno del 1980, legato alle vicende dell’Afghanistan ma ancora attuale, esemplifica in maniera chiarissima la visione postapocalittica dell’ultimo Brodskij: ciò che emerge, dietro al risvolto politico, è una capacità di mantenere costantemente il distacco creativo, contenendo in maniera calcolatissima il riferimento autobiografico, il sentimentalismo fine a se stesso. Parte della critica, e anche il premio Nobel sudafricano John M. Coetzee, hanno sottolineato, pur riconoscendo la profondità della sua riflessione, la tendenza di Brodskij a salire in cattedra, a imporsi come maestro di vita o di morale, ridimensionata però dalla straordinaria capacità del poeta di ricorrere all’ironia, che abbassa il tono, riportandolo a quella oggettività straniante che è forse la caratteristica principale della sua voce.
L’ironia di Brodskij si presenta in un ventaglio di sfumature che variano dal sorriso di chi sa di essere solo per caso un sopravvissuto al ghigno sarcastico di chi si sente libero di puntare il dito contro i responsabili del disastro. In mezzo sta la leggerezza che riesce a trasformare le situazioni più inquietanti in pure e semplici parole, in lingua, mitigando, senza però mai sanare, il senso di profonda angoscia esistenziale che alberga nell’uomo contemporaneo. Il poeta si fa traduttore tra terra e cielo, tra una dimensione dispiegata e una dimensione inspiegabile, metafisica: l’esito di questa traduzione è il linguaggio, la letteratura. Durante il discorso ufficiale per il conferimento del premio Nobel nel 1987, pronunciato con la stessa voce nasale che incanta gli ascoltatori delle sue letture, Brodskij ha sottolineato il potere che la letteratura ha sull’uomo, non tanto quello di creare comunità ma individui, “il senso della sua unicità, dell’individualità, della separatezza, trasformandolo da animale sociale in un ‘io’ autonomo”.