Io sento sì d'Amor la gran possanza
. Canzone (Rime XCI) costituita di 6 stanze e di un congedo regolare che riprende lo schema della sirima. La struttura metrica della stanza, di 16 versi endecasillabi tranne due settenari in seconda e in quinta sede, segue lo schema abc, abc; cddecddeff.
La tradizione manoscritta, come per la maggior parte delle canzoni, è vasta e varia. Fra i codici più antichi e autorevoli sono il Martelli, il Chigiano L VIII 305, il Magliabechiano VI 143, il 445 della biblioteca Capitolare di Verona. Nella serie di 15 canzoni che si trovano negli autografi del Boccaccio e di qui passate ad altri manoscritti, Io sento sì d'Amor occupa il sesto posto, subito dopo Amor che movi, e prima di Al poco giorno. L'ordine delle 15 canzoni è rispettato nell'ediz. del Canzoniere pubblicato da Pietro Cremonese in appendice all'ediz. veneziana della Commedia nel 1491. Nell'ediz. Giuntina del 1527 la canzone occupa il terzo posto, subito dopo Amor che movi, e prima di E' m'incresce, nella serie di nove canzoni amorose e morali del Libro III della sezione dantesca. In tale edizione la canzone risulta di 5 stanze, essendo stata soppressa la sesta che, per il fatto di prestarsi a essere considerata un congedo (Canzon mia bella, se tu mi somigli, ecc.), fu ritenuta superflua data la presenza del congedo seguente: Canzone, a' tre men rei, ecc. Nella tradizione manoscritta, infatti, ci sono codici che oscillano fra la soppressione della stanza o del congedo. La stanza soppressa fu pubblicata dal Corbinelli in appendice all'edizione del Canzoniere di Giusto de' Conti (1595). Il Fraticelli, nella sua edizione del Canzoniere, accetta l'ultima stanza, ma trasferisce il congedo alla canzone Amor che movi " si per toglierlo alla presente che sarebbe venuta ad aver due commiati, sì per darlo all'altra che di commiato era priva ". Sulle orme del Fraticelli, il Moore, il Serafini, il Cossio. Nella sua edizione del '21, il Barbi la collocò nel Libro V (" Altre rime d'amore e di corrispondenza ", XCI) subito dopo Amor che movi, preceduta a sua volta dalle due ballate e dal sonetto per la pargoletta. Per il Barbi, che non si pronunzia esplicitamente sull'appartenenza delle due canzoni al gruppo delle rime per la pargoletta, le due canzoni segnano un ritorno di D. alle dolci rime d'amor per donna reale o immaginata come reale, subito dopo l'esperienza delle canzoni dottrinali Le dolci rime e Poscia ch'Amor. La tradizione dell'interpretazione allegorica di Io sento sì d'Amor e di Amor che movi, che fu del Witte, del Fraticelli, del Giuliani, dello Zingarelli e di altri, è stata ripresa, dopo l'edizione del Barbi, dal Mattalia, dal Nardi e, più recentemente, dal Foster e dal Boyde, i quali le considerano composte per la Donna gentile-Filosofia, e anteriormente alle due canzoni dottrinali. Il Contini non nasconde le sue incertezze: potrebbero appartenere al gruppo delle rime per la pargoletta, ma gli pare che, specialmente nella canzone Io sento sì d'Amor " si celi un sopra senso, forse allusione all'amore della sapienza ". Esplicitamente per l'appartenenza al gruppo delle rime per la pargoletta, considerate indipendenti da quelle per la Donna gentile-Filosofia e da quelle per la donna pietra, si pronunziano il Sapegno e l'Apollonio. È questa un'opinione che ha molte probabilità di cogliere nel vero, e si può aggiungere che non è da escludere in modo assoluto che, sul piano psicologico, le rime per la donna pietra continuino la medesima esperienza amorosa.
La canzone è imperniata sul tema che il poeta non può sopportare la grande potenza che Amore dispiega sulla sua anima per una donna ancora troppo giovane e restia a mostrarsi amorosa, senza il pericolo di morirne, tema che è presente nei tre componimenti per la pargoletta e nella canzone Amor che movi (vv. 54-57 Falle sentire, Amor, per tua dolcezza, / il gran disio ch'i' ho di veder lei; / non soffrir che costei / per giovanezza mi conduca a morte). Tutti i pensieri del poeta sono rivolti al servizio della giovane, i cui sguardi lo rendono felice; e tale è la sua dedizione a un perfetto servizio che se, per conseguirlo, fosse necessario allontanarsi da lei e non vederla più, lo farebbe, pur essendo convinto che ne morrebbe. Il suo amore, dunque, non potrebbe esser più grande se può far sì che gli piaccia di morire per ben servire la sua donna: ché nullo amore è di cotanto peso, / quanto è quel che la morte / face piacer, per ben servire altrui (vv. 36-38). Il poeta si professa servente della donna, qualunque sia l'atteggiamento di lei, perché si può ben servire anche contro il volere di colui a cui si serve; e se in questo momento gli viene negata merzé, forse è perché la donna è ancora troppo giovane, e perciò può sperare nell'avvenire: e se merzé giovanezza mi toglie, / io spero tempo che più ragion prenda, / pur che la vita tanto si difenda (vv. 46-48). Intanto la ricompensa il poeta l'ha (v. 52 parmi esser di merzede oltrapagato) nel constatare che dal suo grande amore è nato un nobile desiderio di operare tutto il bene possibile. Questo suo amore è in sé stesso un servizio per la donna perché se egli cerca di acquistare valore operando il bene, non pensa tanto alla sua persona quanto a colei cui egli appartiene: ché 'l fo perché sua cosa in pregio monti; / e io son tutto suo; così mi legno, / ch'Amor di tanto onor m'ha fatto degno (vv. 62-64). Infatti, solo la grande potenza di Amore ha potuto far sì che il poeta diventasse degnamente (cioè con la perfezione che deriva dal bene operare) cosa di una donna che non s'innamora, / ma stassi come donna a cui non cale / de l'amorosa mente (vv. 67-69). Ogni volta che il poeta la vede, ritrova in lei nuova bellezza, e perciò il suo amore s'accresce via via che si aggiunge nuova bellezza: Ond'elli avven che tanto fo dimora / in uno stato e tanto Amor m'avvezza / con un martiro e con una dolcezza, / quanto è quel tempo che spesso mi pugne, / che dura da ch'io perdo la sua vista / in fino al tempo ch'ella mi racquista (vv. 75-80). Con questi versi il poeta ha esaurito tutto quello che doveva dire per questo suo grande amore per quella che non s'innamora.
Nella stanza che segue egli si rivolge alla canzone, invitandola a eseguire il compito che le affida, che è quello di badar bene, nel suo andare in giro, alla qualità delle persone che la vogliono trattenere. Se si tratta di un cavaliere, sarà bene che essa indaghi sulla compagnia che egli pratica, perché, in genere, il buon col buon sempre camera tene (v. 91), ma talvolta capita che qualcuno che non sia buono s'inserisca nella compagnia dei buoni per tentare di disperdere la mala fama che corre di lui. In tutti i modi, poi, stia lontano dai malvagi. Nel congedo che segue, il poeta affida alla canzone una più specifica missione da eseguire prima di ogni altra cosa: si rechi presso i tre cavalieri non rei che sono nella città, saluti due di essi e si adoperi per trarre il terzo fuori della mala compagnia in cui si trova, dicendogli che il buono non fa guerra contro il buono, se prima non abbia tentato di vincere i malvagi, e che dà segno di follia colui che teme di uscirne per tema di vergogna. Non sappiamo chi siano i tre men rei di Firenze, neppure quello dei tre, di cui D. dà indicazioni meno generiche (qualche critico ha pensato a Guido Cavalcanti o a Betto Brunelleschi, ma ci si muove sempre nel campo delle ipotesi). Par certo che si tratti di cavalieri, se si tien conto di quanto è detto ai vv. 87-90.
Come per la canzone Voi che 'ntendendo, della quale il poeta vanta nel congedo la ragione faticosa e forte, accessibile a pochi, e la bellezza che potrà essere ammirata da molti, così per questa canzone D. non esita a ritenerla bella (Canzon mia bella, ecc.), ammettendo implicitamente che la sua bellezza potrà mostrarsi a molti, mentre riconosce che per la sua bontà essa avrebbe motivo di essere sdegnosa, cioè di sdegnare la compagnia di persone che non siano capaci di comprendere la sua bontà, che sono i più: D. aveva le sue ragioni di ritenere bella la sua canzone (cfr. quanto è detto nel Convivio [II X 9] a proposito della bellezza di Voi che 'ntendendo), che a noi può apparire " lenta, riflessiva, faticosa " (Contini).
Bibl. - D.A., Il Canzoniere, a c. di P. Fraticelli, Firenze 1873³, 178; Contini, Rime 126; D.A., Le Rime, a c. di D. Mattalia, Torino 1943, 107; N. Sapegno, Le Rime di D., corso accademico 1956-57, Roma 1957, II 98 ss.; B. Nardi, Dal " Convivio " alla " Commedia ", ibid. 1960, 8; D.A., Rime, a c. di M. Apollonio, Milano 1965, 166; D.A., Oeuvres complètes, a c. di A. Pézard, Parigi 1965, 17-18; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, II 200; Barbi-Pernicone, Rime 498 ss.