invidia
È il sentimento di cruccio nascente dal considerare il bene altrui come lesivo del proprio, e nel secondo girone del Purgatorio (il cinghio che sfera / la colpa de la invidia, XIII 38; il vocabolo ricorre anche al v. 135 e in XV 51) si definisce nel suo grado maggiore nella confessione di Guido del Duca: fu il sangue mio d'invidia sì riarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m'avresti di livore sparso (Pg XIV 82). Siffatto rovesciamento del naturale rapporto d'amore con il prossimo rende l'i. una delle forze più perniciose operanti nei rapporti politici; particolarmente attiva nelle corti, è definita la meretrice che mai da l'ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune e de le corti vizio (If XIII 64-66), e indicata come causa di due esemplari vicende, quella di Pier della Vigna, la cui memoria giace / ancor del colpo che 'nvidia le diede (I f XIII 78), e quella di Romeo di Villanova (Pd VI 127-142), vittima di coloro che si fecero danno del ben fare altrui; inoltre è elemento che caratterizza, nelle parole di Ciacco, il costume di Firenze, la città... piena / d'invidia sì che già trabocca il sacco (If VI 50), dove tre faville, la superbia, l'i. e l'avarizia, hanno i cuori accesi (v. 74).
Con il medesimo significato si trova in Vn IV 1 molti pieni d'invidia già si procacciavano di sapere, dove l'i. è da riferirsi alla beatitudine che D. prova al saluto di Beatrice (III 1); e XXVI 11 6 sua bieltate è di tanta virtute, / che nulla invidia a l'altre ne procede. Nel Convivio l'i. è citata come la seconda delle tre cagioni per cui la presenza fa la persona di meno valore ch'ella non è (I IV 2), in quanto paritade ne li viziosi è cagione d'invidia, e invidia è cagione di mal giudicio (§ 6), il che vale anche per il male: infatti molti dilettandosi ne le male operazioni, hanno invidia a' mali operatori (§ 8). L'i. è anche una delle cinque abominevoli cagioni (I XI 2, ripreso e discusso al § 16) per cui si disprezza il volgare proprio e si commenda l'altrui: la quarta [cagione] si fa da uno argomento d'invidia... come è detto di sopra, la invidia è sempre, dove è alcuna paritade. Intra li uomini d'una lingua è la paritade del volgare; e perché l'uno quella non sa usare come l'altro, nasce l'invidia. Come passione propria dell'anima umana, l'i. difficilmente si può dissimulare: grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna, di nulla di queste puote l'anima essere passionata che a la finestra de li occhi non vegna la sembianza (III VIII 10).
Poiché il desiderio naturale è commisurato alla possibilità del desiderante, li Santi non hanno tra loro invidia (Cv III XV 10): è evidente che in questa attestazione l'i. va intesa solo come il desiderare quello che hanno gli altri. Al contrario, l'i. di Satana si concentra nel livore per il bene altrui, e si rivolge contro l'uomo sollecitandolo al peccato (fin che l'avrà rimessa [la lupa-cupidigia] ne lo inferno, / là onde 'nvidia prima dipartilla, If I 111; di colui è pianta / che pria volse le spalle al suo fattore / e di cui è la 'nvidia tanto pianta, Pd IX 129). Già nel Convivio, sulle orme di Boezio, D. aveva indicato la connessione avarizia-i.-odio: quanto odio è quello che ciascuno al possessore de la ricchezza porta, o per invidia o per desiderio... però Boezio... dice: " Per certo l'avarizia fa li uomini odiosi " (IV XIII 13). Odio e i. ancora in Pg VI 20 Vidi conte Orso e l'anima divisa / dal corpo suo per astio e per inveggia (dal provenzale enveja; ‛ inneggiare ', in Pd XII 142; cfr. Guinizzelli Tegno de folle I 38).
L'I. e gl'invidiosi nella Commedia. - Nell'ordinamento morale dell'oltretomba dantesco, l'i. è il secondo dei sette vizi capitali, distribuiti nelle sette cornici del Purgatorio secondo il catalogo dato da s. Gregorio, prevalente nella tradizione patristica (Cassiano, Isidoro, Adelmo, Alcuino, Pier Damiano, ecc.). Essa appartiene propriamente al gruppo di peccati (superbia, i., ira) nei quali il disordine d'amore fa inclinare l'anima verso il male (malo obietto) sotto la specie del bene (malum sub ratione boni); e nasce dalla comune radice della cupidigia o attaccamento alle cose del mondo: nel denunziare la propria colpa, Guido del Duca ne indica la sollecitazione fondamentale appunto nella passione per i beni mondani (o gente umana, perché poni 'l core / là 'v'è mestier di consorte divieto?, Pg XIV 86-87). Nella conclusione dello stesso canto, e quasi a sigillo di esso, il motivo si ripete nella parola di Virgilio (Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira... / e l'occhio vostro pur a terra mira, vv. 148-150); e trova il suo sviluppo nel dialogo meditativo del canto successivo (XV 43-78), dove si spiega che per l'opposta natura dei beni terreni e di quelli celesti, dal desiderio degli uni nasce l'i. (Perché s'appuntano i vostri disiri / dove per compagnia parte si scema, / invidia move il mantaco a' sospiri, vv. 49-51), mentre il desiderio degli altri moltiplica la carità (vv. 55-57).
Mossa dalla cupidigia, l'i. vede nella soddisfazione delle ambizioni altrui un danno alle proprie, e pertanto si colloca a mezza strada tra la superbia, che per l'egoismo tende all'ingiuria, e l'iracondia, che matura l'egoismo nell'ingiuria ricevuta: così dal timore per il proprio bene si produce l'odio del bene altrui e propriamente l'amore del male altrui, il rovescio della carità.
Nella prospettiva della dottrina aristotelica dell'amore, la quale si addiceva all'ordinamento del mondo purgatoriale, caratterizzato, oltre che dalla penitenzialità, dall'attività ricostruttiva dell'uomo, la definizione di Pg XVII 118-120 (è chi podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch'altri sormonti, / onde s'attrista si che 'l contrario ama) congloba gli aspetti del peccato quali, nella coincidenza del pensiero aristotelico con la tradizione scritturale patristica, erano offerti da s. Tommaso (" bonum alterius aestimatur ut malum proprium inquantum est diminutivum propriae gloriae vel excellentiae ", Sum. thoel. II II 36 1; " ex tristitia de bono proximi, quae est invidia, sequitur exultatio de malo eiusdem ", 36 4 ad 3). In s. Tommaso il poeta trovava anche indicati come beni illusori ricchezze, onori, fama, potere (I II 2) e questi indicava (alle ricchezze sostituendo come più pertinente la grazia o vanto dell'esser graditi) come oggetto dell'ambizione da cui si scatenano i timori e gli odi dell'invidia. Nello stesso s. Tommaso trovava poi citato il passo di Gregorio (Moralia 5 51) che rappresentava in sintesi gli aspetti della colpa e della pena degl'invidiosi (" Cum devictum cor livoris putredo corruperit, ipsa quoque exteriora indicant quam graviter animum vesania instigat: color quippe pallore afficitur, oculi deprimuntur, mens accenditur, membra frigescunt ", Sum. theol. II it 36 2; si veda la corrispondenza di questi segni con le immagini di Ovidio, in Met. II 760 ss.).
Nella narrazione dantesca, che si sviluppa in Pg XIII e XIV con un epilogo nella prima metà del c. XV, l'i. è punita nella seconda cornice del Purgatorio. E come la dialettica purgatoriale pone a fronte il vizio e la virtù, e non in un rapporto di contrasto ma di maturazione dalla negatività del primo alla positività della seconda, l'incontro con gl'invidiosi è introdotto da due motivi: la solitudine della cornice (v. 7), in cui si afferma il livido colore della pietra, e la presenza del sole meridiano, cui Virgilio affida il cammino (vv. 16-21). Al solerte andare dei due nella luce della Verità vengono incontro gli esempi della virtù premiata, espressi in voci trasvolanti; e mentre il color livido ritorna nei manti delle ombre penitenti, alle voci che invitano all'amore fanno eco, quasi con eguale impersonalità, le litanie dei penitenti. E ancora una nota di carità, la compassione, nell'insistenza di due terzine (Non credo che per terra vada ancoi / omo si duro..., XIII 52-57), apre la scena della penitenza.
Gl'invidiosi giacciono sulla livida pietra, con le spalle alla parete della cornice, e si sostengono reciprocamente stando l'uno appoggiato alla spalla dell'altro; coperti da un vil ciliccio, hanno gli occhi cuciti con filo di ferro. Nonostante questi impressionanti particolari (per una puntuale indagine sull'i. come cecità al bene e sul rapporto tra gli aspetti della colpa e quelli della pena, si veda il saggio del Vazzana citato in bibl., pp. 183-190), la scena è lontana dall'orrore e dalla tragicità infernale. Oltre all'introduzione che si è vista, l'atteggiamento di D. la condiziona positivamente, con l'anticipo della compassione e delle lagrime, con il generoso scrupolo del vedere senza esser visto (vv. 73-74), con quell'apostrofe ai penitenti in cui non augura che siano presto loro aperti gli occhi, ma che s'incontrino con la luce di Dio, in una definitiva illuminazione della coscienza (vv. 85-90). E anche Virgilio partecipa di quest'atmosfera di attiva carità, rispondendo al discepolo prima che questi formuli la domanda, e ponendosi a sua difesa dal lato della cornice dove egli potrebbe cadere. Si ha pertanto l'impressione che fino a questo punto pervenga l'eco degli esempi di carità, e che un'attiva speranza significhi l'immancabile vittoria della virtù, prima che siano rappresentati, negl'incontri con i penitenti, i trionfi nefasti del vizio.
Nella prima battuta di uno spirito invidioso, Sapia, il predominio della virtù si esplicita: O frate mio, ciascuna è cittadina / d'una vera città (XIII 94-95). E nel momento stesso in cui si conferma l'ipotesi che D. miri a una sconfitta in atto - nei penitenti e nell'atmosfera dell'incontro - di quella colpa che ha tanta responsabilità dei malanni terreni, il tema i.-carità rivela la sua vocazione a evitare ogni astrazione dottrinale e a confrontarsi con le trame della storia umana, assumendo già nelle prime parole di Sapia un registro politico.
La vicenda di Sapia, quasi evitando il nucleo centrale dell'i., cioè la sofferenza per la prosperità altrui, va diritta al tempo conclusivo, l'anticarità: oggetto di un odio tanto ottuso da rivolgersi a Dio per aiuto sono i suoi concittadini; e la letizia fiorisce tristamente sul loro dolore (fuor... vòlti ne li amari / passi di fuga; e veggendo la caccia / letizia presi, vv. 118-120). Infine la carità fa la sua vendetta capovolgendo il rapporto: uno di quei cittadini (Pier Pettinaio) ha pietà dell'invidiosa e l'aiuta a redimersi.
Come si è detto, già qui è evidente che il dramma dell'anticarità tende a collocarsi in un paesaggio politico; e ciò, mentre non comporta una deviazione limitativa, conferma ancora una volta le strutture etiche e religiose del pensiero politico di Dante. E anche quando, nel successivo incontro con Guido del Duca e Rinieri da Calboli, il paesaggio politico, con i due squarci sulla gente della valle dell'Arno (XIV 29-66) e su quella di Romagna (vv. 91-123), appare dominante, e l'impegno polemico si direbbe esorbitante dalle linee della narrazione, l'atmosfera non muta, né si smarrisce il rapporto con l'anticarità dell'i.: nella valle dell'Arno, all'abbandono della virtù (virtù... per nimica si fuga, v. 37) corrisponde un imbestiamento (vv. 40-66) significante appunto la rottura del vincolo d'amore che caratterizza la natura umana; e nella Romagna i venenosi sterpi (v. 95) sono la negazione dell'amore e della cortesia (v. 110). Le parole di Guido e di Virgilio, che si sono già citate, si legano evidentemente all'una e all'altra scena politica, le quali hanno il loro naturale epilogo nelle voci dell'anticarità punita, Caino e Aglauro.
Come avviene nelle altre cornici, gli esempi di virtù precedono quelli di vizio, e si è visto come quella precedenza produca con i suoi riverberi una poesia della speranza purgatoriale. Gli uni e gli altri esempi sono assunti tanto dalle Scritture (Maria Vergine per le nozze di Cana, XIII 28-30; il precetto evangelico della carità, vv. 35-36; Caino, XIV 133) quanto dal mito pagano (Oreste e Pilade, XIII 31-33; Aglauro, XIV 139). Ma non si tratta propriamente di personaggi, proposti come exempla della virtù o del vizio: le voci che invitano alla carità ricordano, in una frase significativa, un atto o il precetto stesso della carità; mentre quelle relative al vizio predicano la punizione provocata dall'atto peccaminoso.
Va ricordato che nell'episodio di Sapia, e cioè là dove l'i. è più anticarità che livore, e dove al generico rapporto umano si è preferito il rapporto politico, D. si confessa peccatore d'i., ma ne attenua in qualche modo la gravità nel paragone con le più pesanti responsabilità della propria superbia (XIII 133-138). Il fatto che egli abbia poco peccato d'i. significa non tanto la presenza in lui di una virtù antitetica come la carità, quanto la sua distanza da quella pusillanimità che caratterizza l'i. (" et similiter etiam pusillanimes sunt invidi ", Tomm. Sum. theol. II II 36 1 ad 3): se infatti l'ambizione lo sollecitava all'i. quanto alla superbia (" amatores honoris sunt magis invidi "), la magnanimità - o la stessa superbia - lo distoglieva da quel doloroso sentimento della superiorità altrui (" Et Gregorius, dicit in V Moral., quod invidere non possumus nisi eis quos nobis in aliquo meliores putamus ", Sum. theol. II II 36 1 ad 3) che alligna nei ‛ viziosi ' in condizione di parità.
Questa limitazione della propria colpa, esplicita quanto insolita, è forse da collegare alla denunzia dell'i. che appare più volte nella polemica di D. con Firenze. Al primo incontro con Ciacco, Firenze è la città ch'è piena / d'invidia sì che già trabocca il sacco (If VI 50), e nel successivo annunzio delle sciagure imminenti l'i. ritorna come l'anticarità operante tra le parti fiorentine: superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c'hanno i cuori accesi (v. 74); il medesimo terzetto riappare poi (gent'è avara, invidiosa e superba, XV 68) nell'incontro con B. Latini, là dove più stretto è il rapporto tra la corruzione di Firenze e la sciagura personale di Dante.
Nell'ambito dell'impegno interpretativo di taluni dantisti, di conciliare il sistema penale di D. con quello delle sue probabili fonti teologiche e filosofiche, l'i. ha costituito uno dei pomi della discordia, in quanto l'assenza di cerchi infernali destinati, come accade per gli altri cinque peccati del Purgatorio, alla superbia e all'i., rendeva problematica quella simmetria tra Inferno e Purgatorio che si proponeva come prova di coerenza dottrinaria ed estetica. La questione da una parte valeva ad acutizzare il disagio tra dottrina e poesia, e a sollecitare le drastiche soluzioni della critica idealistica; dall'altra aveva un rapporto di mutua sollecitazione con la teoria dei " due tempi " della composizione dell'Inferno: l'assenza di cerchi per invidiosi e superbi appariva infatti un documento del passaggio da un'impostazione dell'Inferno derivata dalla tradizione teologica cristiana (schema dei sette peccati mortali interrotto al quinto posto) a quella suggerita dal sistema aristotelico (che si sviluppa con la città di Dite e si aggancia alla precedente struttura con la teoria delle ‛ tre disposizioni ' offerta nel canto XI).
Nella mancanza di concreti riferimenti testuali, si avanzò l'ipotesi di una simmetria relativa, con la collocazione di superbi e invidiosi tra iracondi e accidiosi, nel medesimo quinto cerchio dell'Inferno, e propriamente nella palude Stigia disponibile per ogni ambiguità e occultamento. L'ipotesi della collocazione dell'i. nella palude Stigia risale a Pietro Alighieri (" in limo talis paludis fingit puniri accidiosos et invidos, in diversis partibus dictae paludis "); la si ritrova, sostenuta da varie argomentazioni dottrinali ed ermeneutiche, fino alle reviviscenze tardo-ottocentesche della questione, nel cui vasto e vario orizzonte si registra la singolare considerazione del Tommaseo, che Pietro sia da ascoltare perché che gl'invidiosi fossero tra gli accidiosi egli non " poteva dedurlo tanto da' versi quanto dalla viva voce di quello ", cioè il poeta. Sostennero questa stessa tesi, anche se in diverse prospettive ermeneutiche, Casini, Del Lungo, Del Noce, Filomusi Guelfi, Fornaciari, Kraus, Sacchi, ecc. E si giunse a proporre la correzione della lezione accidioso fummo (If VII 123), di unanime tradizione, in invidioso fummo (Borgognoni, Faucher, Ronchetti). Si dette anche il caso del D'Ovidio, che dapprima considerò " una falsa strada " la tendenza dello " stivamento " dell'i., e poi si persuase che " nello Stige davvero c'è una zona relativa alla superbia e all'invidia, o meglio a quella disposizione ambiziosa da cui provengono certe forme, non proprio delittuose, così di superbia come d'invidia ". Le sue diligenti pagine sono comunque utili per un dettagliato riepilogo critico e bibliografico dell'intera questione dell'ordinamento morale.
Avversarono, con varie alternative, la collocazione dell'i, nella palude Stigia Bartoli, Colagrosso, Cosmo, Dobelli, Lombardi, Moore, Pascoli, Sanesi, Scherillo, Todeschini, Witte, ecc., tra i quali resiste la soluzione più aliena da forzature, risalente al Giambullari e al Gelli, che l'i. (e la superbia) non possa avere in Inferno un luogo proprio né essere inclusa tra i peccati d'incontinenza, in quanto nasce da " malignità di mente ", e che sia piuttosto da considerare all'origine dei vari peccati di malizia. Su questa linea si erano già posti, tra gli antichi interpreti, Benvenuto (i. presente in Inferno " implicite et occulte ") e in certo modo il Buti.
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