Abstract
Nel nostro tempo, la disciplina degli investimenti stranieri forma oggetto di norme di diversa provenienza formale. Dalla prassi degli Stati, specie legislativa, al diritto internazionale consuetudinario, negli ultimi cinquant’anni il diritto pattizio si è grandemente sviluppato lasciando uno spazio residuale ad alcune norme di soft law in materia. Tramite tali trattati gli Stati contraenti assumono determinati obblighi reciproci a favore degli investitori quali, ad esempio, il trattamento “giusto ed equo”, il divieto di espropriazione anche indiretta senza pieno indennizzo, la libertà di riesportare il capitale investito ed i profitti. Soprattutto, quei trattati prevedono il diritto dell’investitore di iniziare un arbitrato internazionale diretto contro lo Stato ospite nelle forme dell’arbitrato commerciale internazionale o presso il centro all’uopo costituito (ICSID) presso la Banca Mondiale.
La disciplina internazionale degli investimenti svolge la funzione di contemperare due opposti interessi, entrambi meritevoli di tutela: a) l’interesse dello Stato di destinazione dell’investimento (cd. “Stato ospitante” o “Stato ospite”) ad attrarre investimenti stranieri al fine di rafforzare il proprio sviluppo economico pur salvaguardando, nel contempo, la propria sovranità sul proprio territorio rispetto a centri di potere economico stranieri; b) l’esigenza dell’impresa transnazionale a ricevere una tutela internazionale rispetto ai beni, alle attività ed ai capitali investiti nel territorio dello Stato ospite per svolgere un’attività economica di medio-lungo periodo.
Le norme in questione costituiscono un settore fondamentale del diritto internazionale dell’economia (su cui v. la voce Diritto internazionale dell'economia).
I flussi di capitale a fini di investimento avvengono oggi attraverso i quattro punti cardinali (Nord-Nord, Ovest-Est, Nord-Sud e Sud-Sud). L’investimento diretto nei Paesi in via di sviluppo (Nord-Sud) viene spesso realizzato al fine di acquisire materie prime, una manodopera locale meno onerosa e l’apertura di nuovi mercati di sbocco sicché, da qualche decennio, si trova al centro di un vasto dibattito di cui un recente riflesso sono le UN Guiding Principles on Business and Human Rights adottate all’unanimità presso il Consiglio dei diritti umani dell’ONU il 21 marzo 2011 (A/HRC/17/31; in arg. v. Marrella, F., Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationale, RCADI, v. 385, 2017, p. 35 ss. ove riferimenti).
Il regime degli investimenti stranieri forma oggetto di norme di diversa provenienza formale. Dalla prassi degli Stati, specie legislativa, al diritto internazionale consuetudinario, negli ultimi cinquant’anni il diritto pattizio si è grandemente sviluppato lasciando uno spazio residuale ad alcune norme di soft law in materia.
In passato, la materia della tutela degli investimenti esteri rientrava in quella più generale del trattamento dello straniero e dei suoi beni. Anche nel nostro tempo, per diritto consuetudinario, ogni Stato rimane libero di ammettere o non ammettere gli investimenti stranieri e di regolarne lo statuto giuridico all’interno del territorio statale. Non esiste quindi un diritto internazionalmente riconosciuto di cui un soggetto privato possa ritenersi automaticamente titolare né a trasferire capitali e ad investire in un Paese straniero, né un diritto soggettivo ad immigrare per motivi economici in uno Stato diverso dal proprio. Pertanto, in linea di principio, ciascuno Stato risulta libero di adottare misure incitative, dissuasive o semi-incitative sugli investimenti esteri e, in ultima analisi, resta libero di limitarne l’ingresso o l’“uscita” fatti salvi gli impegni di diritto pattizio.
A differenza di quanto è avvenuto dapprima col GATT e poi col WTO, nel diritto internazionale contemporaneo non è mai entrato in vigore né uno specifico trattato generale a vocazione globale in materia di investimenti diretti esteri, né un’organizzazione internazionale a vocazione universale è mai riuscita a regolare tale materia attraverso un proprio law making power. Eppure, non sono mancati, in passato, alcuni rilevanti tentativi soprattutto presso l’OCSE: basti pensare, al progetto di convenzione sul trattamento della proprietà degli stranieri del 12 aprile 1967 o ancora all’accordo multilaterale sugli investimenti (MAI, per Multilateral Agreement on Investment) che però, anche a seguito delle proteste da parte della c.d. “società civile”, non è mai entrato in vigore ed è stato definitivamente abbandonato nel 1998.
Certo, in luogo di fornire una disciplina esaustiva, alcuni trattati multilaterali a vocazione globale hanno regolato alcuni aspetti specifici della materia pur se il panorama normativo resta “a macchie di leopardo”. Così, tra gli accordi vigenti amministrati dal WTO si ha l’accordo multilaterale sulle misure relative agli investimenti che incidono sugli scambi commerciali (TRIMs). Tale Accordo ribadisce la clausola del trattamento nazionale, vietando la discriminazione fra imprese nazionali e straniere che hanno investito nel Paese, oltre al divieto di restrizioni quantitative di cui all’art. XI del GATT.
A propria volta, l’accordo internazionale sul commercio di servizi, il GATS, contribuisce in parte alla liberalizzazione degli investimenti diretti esteri in quanto prevede, inter alia, oltre al diritto di “presenza commerciale” per le imprese di ogni Stato Membro, appositi obblighi di trasparenza delle normative interne sull’accesso al mercato (concessione di licenze, autorizzazioni ecc.), il trattamento nazionale e la concessione del trattamento della Nazione più favorita. L’accordo TRIPs, invece, protegge i diritti di proprietà intellettuale e dunque anche quelli degli investitori stranieri.
Altro accordo multilaterale in materia di investimenti è la Convenzione di Washington del 18 marzo 1965 sulla risoluzione delle controversie tra Stati e privati in materia di investimenti (d’ora in avanti Convenzione ICSID). Questo trattato, in vigore per l’Italia dal 28 aprile 1971, regola tuttavia solo alcuni aspetti essenziali del contenzioso arbitrale internazionale ed istituisce l’ICSID (International Center for the Settlement of Investment Disputes) per amministrare tali controversie (v. infra e la voce Arbitrato in materia di investimenti [dir. int.]).
Infine va segnalato l’accordo multilaterale istitutivo dell’Agenzia multilaterale di garanzia in materia di investimenti (MIGA), firmato a Seul l’11 ottobre 1985 ed in vigore tra cui l’Italia che l’ha ratificata con l. 29.4.1988, n. 134. Si tratta anche qui, tuttavia, di un accordo che si limita a regolare solo alcuni aspetti dell’assicurazione del rischio politico.
Esaurito il novero di strumenti multilaterali a vocazione globale in materia di investimenti, va osservato che maggiore successo hanno avuto gli accordi multilaterali a carattere regionale, soprattutto se la materia in questione venga collocata nel quadro più ampio degli accordi di libero scambio. Si tratta, del resto, di una prassi che l’Unione Europea utilizza sempre più spesso nell’esercizio delle proprie competenze esclusive in materia di politica commerciale comune tra cui, oggi, rientrano gli investimenti diretti esteri (art.207 TFUE).
Un esempio particolarmente significativo viene offerto dal NAFTA, l’accordo nordamericano sul libero commercio del 17 dicembre 1992, sino ad oggi vigente tra Canada, Messico e Stati Uniti. Qui oltre a norme di liberalizzazione del commercio si trovano al cap. 11 apposite norme in materia di investimenti diretti esteri inclusa la predisposizione di un meccanismo per la soluzione delle controversie tra Stati e privati stranieri.
Analoghe disposizioni si trovano, al livello del MERCOSUR, nei Protocolli di Colonia e Buenos Aires rispettivamente del 17 gennaio 1994 e del 23 luglio 1998 e, nel Trattato CETA tra UE e Canada firmato a Bruxelles il 30 ottobre 2016.
Un ulteriore esempio di accordo regionale in materia è offerto dal Trattato sulla Carta dell’energia del 17 dicembre 1994 che disciplina la cooperazione energetica, il commercio ed il transito dei prodotti energetici tra gli Stati membri dell’Unione Europea (eccetto l’Italia che ha denunciato il trattato), la Russia (che però non l’ha ratificato) ed alcuni paesi dell’Asia Centrale dell’area ex sovietica oltre alla Turchia ed il Giappone.
Gli accordi bilaterali in materia d’investimenti (BITs) costituiscono oggi la più importante fonte normativa in materia e, idealmente, possono considerarsi lo sviluppo in epoca contemporanea dei vetusti Trattati di Amicizia, Commercio e Navigazione. Oggi, ci si accorda nell’indicare quale primo esempio di trattato bilaterale moderno in materia di investimenti esteri quello concluso dalla Repubblica Federale Tedesca con il Pakistan il 25 novembre 1959. Da allora, l’UNCTAD, che gestisce un apposito database, rileva che siano stati stipulati circa tremila trattati sugli investimenti.
Le ragioni di tale sviluppo sono diverse ma, tra queste, assumono rilevanza precipua, sia lo stato di incertezza del diritto internazionale consuetudinario in materia soprattutto dopo l’affermazione, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, dei principi di sovranità permanente sulle risorse naturali e della Carta sui diritti e doveri economici degli Stati negli anni Settanta dello stesso secolo, tutti oggetto di apposite risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU (Giardina, A., Gli accordi bilaterali sugli investimenti e l’accordo nordamericano di libero scambio, in Enc. degli idrocarburi, 2007, p. 540); sia, per altro verso, il mancato riconoscimento positivo del diritto di proprietà privata tra gli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani a livello globale. La proclamazione del c.d. Nuovo ordine economico internazionale ha costituito, infatti, il culmine delle opposizioni politico-ideologiche dell’epoca (tra Est e Ovest, nel quadro della “Guerra fredda” ma anche e, soprattutto, tra Nord e Sud del mondo a seguito della c.d. decolonizzazione) dando vita ad aspre controversie internazionali.
Di qui, l’esigenza di formalizzare in un apposito trattato internazionale (BIT) una speciale disciplina volta ad incoraggiare gli investimenti diretti esteri indicando specificamente gli standard di trattamento, protezione e garanzia degli investimenti dei cittadini degli Stati contraenti oltre a consentire circa appositi meccanismi di soluzione delle controversie di tipo arbitrale misto.
Non stupisce, quindi, il consistente numero di BITs conclusi dagli Stati membri dell’Unione europea tra loro e con Stati terzi e l’attribuzione alla UE, dopo il Trattato di Lisbona, della competenza esclusiva in materia di investimenti afferendo ora in quella più vasta della Politica Commerciale Comune. Ciò comporta una complessa fase di transizione destinata ad accentrare progressivamente in capo alla UE gli accordi in materia e, progressivamente, all’estinzione dei BITs conclusi dagli Stati membri (v. Marrella, F., Unione europea ed investimenti diretti esteri, in Carbone, S.M., a cura di, L’Unione europea a vent’anni da Maastricht, Napoli, 2013, 107 ss.).
Al riguardo la UE sembra prediligere la prassi di includere appositi capitoli in materia di investimenti diretti esteri all’interno di più generali accordi di libero scambio fermo restando che, come recentemente precisato dalla Corte di Giustizia (Parere n. 2/15 del 16 maggio 2017, ECLI:EU:C:2017:376) le disposizioni relative agli investimenti esteri diversi da quelli diretti, nonché quelle relative alla risoluzione delle controversie tra investitori e Stati possono essere conclusi solo in forma congiunta dall’Unione e dagli Stati membri.
Un ulteriore elemento di novità è rappresentato dalla conclusione di BITs anche tra Paesi in via di sviluppo, superando così in parte le critiche ideologiche degli anni ’70 del secolo scorso in nome delle esigenze dello sviluppo economico. Le oscillazioni della giurisprudenza arbitrale sembrano comunque confermare la massima cautela con cui applicare il diritto consuetudinario in materia nonostante alcuni orientamenti dottrinali tesi a riconoscere la formazione di nuove norme di diritto internazionale generale attraverso la moltiplicazione dei BITs e la loro convergenza normativa.
Per quanto si tratti di strumenti di soft law vanno poi segnalati tra le fonti del diritto internazionale degli investimenti le linee e i principi guida ed i codici di condotta. Fra i primi basti ricordare le linee guida della Banca Mondiale sul trattamento degli investimenti stranieri del 21 novembre 1992. Rientrano nella seconda categoria le linee guida dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali del 2011 ed anche le ICC Guidelines for International Investment 2016. Si inseriscono in questa categoria anche i “Principi Guida dell’ONU per le imprese e i diritti umani” di cui si è già fatto cenno. Nonostante tali atti formalizzino i risultati di processi politici internazionali vasti e complessi non va sottaciuto che, salvo eccezioni, si tratta di strumenti incitativi, ossia di regole di soft law elaborate da organizzazioni intergovernative o non governative che non sono immediatamente vincolanti né per gli Stati né per le imprese multinazionali.
Si tratta di contratti con cui lo Stato, ad es., concede lo sfruttamento di determinati giacimenti minerari, si procura (o vende) navi militari ed altri armamenti – contratti chiavi in mano, BOT (Build, operate and transfert); joint ventures con lo Stato ospite o sue emanazioni; production sharing agreements; contratti BOO, Build, Operate and Own e così via. Trattandosi di investimenti esteri, alcuni di tali contratti hanno dato adito a controversie che hanno sollevato un vasto dibattito circa il diritto applicabile a tali rapporti.
In un primo tempo, alle soglie del 1900 e nei primi decenni del secolo, si è sostenuta l’esclusiva sottoposizione degli State contracts alla legge dello Stato assimilando tali rapporti (prevalentemente appalti pubblici) a meri contratti della Pubblica Amministrazione (c.d. contrats administratifs nell’ordinamento francese e dei Paesi ad esso ispirati). In una seconda fase, cominciata nel dopoguerra e culminata con la pronuncia del lodo Texaco nel 1977, viene evidenziata l’applicabilità del diritto internazionale a tali contratti. Nel nostro tempo, il dibattito si incentra piuttosto sulla sottoposizione di tali contratti ai BITs tramite la umbrella clause (su cui v. infra) e sulla crescente applicazione dei Principi Unidroit sui contratti commerciali internazionali in sede di arbitrato internazionale.
Data la natura di lex specialis degli accordi in materia di investimenti, il loro ambito di applicazione va studiato con particolare attenzione. Certo, occorre esaminare la loro efficacia ratione temporis e ratione loci, specialmente se si tratta di sfruttamento di idrocarburi (v. ad es. art. 1, par. 4, BIT Italia-Arabia Saudita: «Con il termine «territorio» si intende, oltre alle superfici comprese entro i confini terrestri, le zone marine e sottomarine sulle quali le Parti contraenti esercitano la propria sovranità, e diritti di sovranità o di giurisdizione, secondo il diritto internazionale»). Ma le maggiori controversie insorgono rispetto alla loro applicazione ratione personae e ratione materiae, in quanto le definizioni di investitore e quella dell’investimento protetto possono rivelarsi particolarmente complesse.
Caratteristica dei BITs è quella di prevedere la tutela internazionale degli investitori degli Stati che ne sono Parti Contraenti. A tale proposito la casistica in materia conferma che se nella maggior parte dei contenziosi gli attori sono delle società commerciali, spesso multinazionali, non mancano casi in cui singoli individui abbiano attivato il procedimento arbitrale internazionale contro lo Stato ospite.
Rileva quindi in modo particolare la cittadinanza delle persone fisiche ovvero la nazionalità delle persone giuridiche che rivendicano detta tutela. Com’è noto la nazionalità e la cittadinanza vengono determinate unilateralmente dagli Stati in conformità alla legge di ciascuno di essi salvo rare eccezioni, provenienti dal diritto internazionale in merito alla loro effettività ed opponibilità (Carreau, D.-Marrella, F., Diritto Internazionale, Milano, 2016, p. 322 ss.).
In proposito va notato che, l’art. 25, par. 2, lett. a), della Convenzione ICSID esclude dalla competenza del Centro il caso in cui l’investitore-persona fisica che sia pluricittadino abbia anche la cittadinanza dello Stato ospite contro il quale agisce in arbitrato.
Per quanto riguarda, invece, la nazionalità delle persone giuridiche e delle società in genere, va ricordato che il diritto internazionale generale resta ancorato al dictum della Corte Internazionale di Giustizia del caso della Barcelona Traction (ICJ, Belgio c. Spagna, 1970) secondo cui la protezione diplomatica di una società commerciale dotata di personalità giuridica di diritto interno spetta esclusivamente allo Stato di costituzione di quest’ultima e non a quello di cittadinanza dei suoi azionisti. Senonché, l’art. 25, par. 2, lett. b), della Convenzione ICSID prevede una particolare eccezione indicando che la competenza dell’ICSID può estendersi, in deroga alla regola generale precedente, a tutte le persone giuridiche che, pur avendo la nazionalità dello Stato contraente Parte nella controversa, siano sottoposte ad un controllo straniero.
Orbene, poiché ciascun BIT offre apposite definizioni in materia occorrerà effettuare il c.d. double test vale a dire che si avrà un arbitrato ICSID solo quando entrambi i rispettivi criteri di giurisdizione contenuti tanto nella Convenzione ICSID quanto nel BIT applicabile siano stati rispettati.
Nonostante la nozione economica di investimento estero non susciti particolari discussioni, anche la definizione giuridica di investimento diretto estero protetto va esaminata esclusivamente alla luce dello specifico BIT applicabile, potendo variare nello spazio e nel tempo. Va notato, altresì, che nella prassi internazionale più recente le definizioni sono sempre più ampie e dettagliate. Così molti BITs - ma anche la Carta europea sull’energia, come già nel NAFTA - prevedono, accanto ad una fattispecie generale (si tratta della formula “every kind of asset”), alcune fattispecie tipiche quali: i diritti di proprietà su beni mobili ed immobili, le azioni od altri strumenti partecipativi al capitale societario nello Stato ospite, i diritti di proprietà industriale ed intellettuale, know-how, segreti industriali e commerciali così via. Così possono rientrare nella nozione giuridica di “investimento” non solo le classiche operazioni di fusione ed acquisizioni societarie ma anche gli appalti per la costruzione di grandi opere (strade, dighe, hotel) ed altri progetti infrastrutturali nonché alcuni prestiti internazionali. Pur se negli strumenti internazionali vigenti non si distingue spesso tra investimenti diretti esteri e di portafoglio, va ritenuto che la tutela in questione si rivolga solo alla prima categoria di investimenti e non a quelli a scopo speculativo. Inoltre, sempre in linea di principio, ci si accorda nel ritenere che siano normalmente esclusi dalla nozione di investimento i contratti di compravendita e le fattispecie ad esso assimilabili. In caso di termini ambigui e di altre questioni interpretative occorrerà comunque far capo alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. In materia, infatti, si registrano numerose controversie giacché se i contratti tra Stati e privati precisano in modo dettagliato gli estremi e l’oggetto dell’accordo arbitrale, tra cui appunto la definizione dello specifico investimento protetto, ciò non è più possibile accedendo al c.d. arbitration without privity (Paulsson, J., in ICSID Review, 1995, p. 232-257), ossia quando il consenso dello Stato all’arbitrato misto si basa sullo stesso BIT (e quindi a favore di tutti gli investitori) o su una legge interna.
A propria volta, la casistica arbitrale si è orientata dopo il caso Salini (Lodo ICSID del 23 luglio 2001, n. ARB/00/4; ILM, 2003, p.609, punto 53) ad identificare un “investimento” allorquando ricorrono le seguenti condizioni: a) l’investimento ha una certa durata nel tempo (medio-lungo termine); b) l’investitore si assume il rischio di tale operazione economica; c) l’investimento consiste in un significativo apporto di risorse; d) l’investimento contribuisce allo sviluppo economico dello Stato ospite. Quest’ultimo requisito, tuttavia, è oggetto di un non sopito dibattito.
Si è detto che, in base al diritto consuetudinario, ogni Stato è libero di ammettere determinati investimenti condizionandoli al rispetto di determinate norme, a particolari settori produttivi od aree geografiche specifiche del Paese.
Tali scelte di politica economica e dello sviluppo non contrastano con i BITs anche se nel loro preambolo, evidenziano il desiderio degli Stati contraenti di “creare condizioni favorevoli a promuovere maggiori investimenti da parte di persone fisiche e giuridiche di una Parte Contraente nel territorio dell'altra Parte Contraente” (BIT Italia-Uruguay del 21 febbraio 1998). A tale affermazione di principio segue infatti, nel corpo del trattato, la norma secondo la quale “ciascuna Parte ammetterà tali investimenti, in conformità con la propria legislazione” (art. 2 BIT Italia-Nigeria del 27 settembre 2000). Qui si intende che, in mancanza di specifiche ed ulteriori disposizioni del BIT, le norme sull’ammissione restano fissate nella legislazione nazionale dello Stato ospite inclusi i c.d. codici di investimento. Può accadere, infatti, che alcuni settori considerati dallo Stato territoriale siano di rilevanza strategica e quindi siano interamente o parzialmente preclusi agli investitori stranieri (dalla produzione di armi al settore bancario a quello dell’energia) trattandosi di settori dell’economia totalmente riservati ai cittadini. Altre norme possono imporre determinate forme societarie, l’assunzione di personale locale e disciplinare le modalità di pagamento. Ancora, possono essere previsti dei c.d. performance requirements, ossia delle obbligazioni di risultato in ordine al raggiungimento di determinati obbiettivi (in termini appunto di assunzione di manodopera locale, di trasferimento di tecnologia o altro).
Va altresì notato che l’apparente limitatezza dell’ammissione degli investimenti diretti esteri proveniente da un dato Stato può essere in parte superata dalla clausola della Nazione più favorita contenuta in altri BITs od altri accordi multilaterali.
Una volta ammessi, gli investimenti diretti esteri devono ricevere tutela e beneficiare dei vantaggi fiscali o regolamentari, incluso il diritto di rimpatriare i profitti conseguiti sino all’eventuale disinvestimento. Sussistendo in materia diverse soluzioni normative e giurisprudenziali, nel 2013, l’Institut de Droit international ha adottato una Risoluzione che agli artt. 10 ss. contribuisce a precisare alcune delle clausole più frequenti nei BITs.
In base a detta clausola, si stabilisce che agli investitori stranieri è dovuto lo stesso trattamento riservato ai cittadini nazionali. Si intende così evitare discriminazioni tra investitori nazionali e stranieri a vantaggio dei primi. In passato, dinanzi all’affermazione da parte dei Paesi recettori di investimenti che nulla fosse dovuto agli investitori stranieri oltre il trattamento nazionale, i Paesi esportatori di investimenti hanno ribadito l’esistenza di uno standard minimo internazionale di trattamento che, come tale, può anche risultare superiore a quello nazionale.
Lo standard del trattamento giusto ed equo (fair and equitable treatment o FET nell’accezione anglosassone) si ritrova già all’art. 11 della Carta dell’Avana del 1948 e nel Progetto OCSE sulla protezione della proprietà straniera del 1967. Da allora, si è grandemente diffuso nei BITs. Si tratta, in realtà, di una clausola generale fondamentale suscettibile di concretizzazione solo attraverso una valutazione arbitrale. Nella prassi arbitrale, iniziano però a cristallizzarsi alcune figure sintomatiche a cui possiamo solo accennare e che sono: quelle del trattamento ingiustificato ed arbitrario, contrario a buona fede o alle “legittime aspettative dell’investitore” o ancora della “persecuzione amministrativa” dello Stato ospite fino alla mancanza di trasparenza dei procedimenti giurisdizionali interni.
Un’ulteriore clausola, cui si è già accennato, è la c.d. clausola ombrello tramite la quale ciascuno Stato contraente si impegna a rispettare gli impegni assunti per contratto nei confronti di un investitore privato. In tal modo, risultando assorbite le vicende contrattuali entro la clausola ombrello, si ha che l’inadempimento del contratto tra lo Stato (o un suo ente pubblico) ed il privato straniero viene parificato alla violazione del BIT e dunque è suscettibile di dar vita ad un contenzioso internazionale secondo quanto previsto dal trattato internazionale de quo.
Lo standard di trattamento di piena protezione e sicurezza (full protection and security) è tra i più tradizionali. Significa originariamente, pur se variamente formulato, un’obbligazione di mezzi che ha per oggetto la protezione in senso fisico dell’investitore da parte degli organi dello Stato ospite. La casistica arbitrale ha già offerto alcune applicazioni in materia di violazione di detto standard quali la distruzione di una fabbrica da parte delle forze armate (AAPL c. Sri Lanka, n°ARB/87/3, ICSID Rev. 1991, p.526) o ancora il saccheggio da parte di militari a danno della proprietà dell’investitore (AMT c. Zaire, 21 febbraio 1997, https://www.italaw.com/cases/76).
Il trattamento della Nazione più favorita in materia di investimenti, rende applicabile all’investitore di uno Stato dato, il migliore trattamento tra quelli accordati agli investitori appartenenti ad uno Stato terzo. Si tratta di una clausola che ha dato luogo a non pochi problemi interpretativi e ad una copiosa giurisprudenza arbitrale. La questione si è posta persino con riferimento alle disposizioni relative alla soluzione arbitrale delle controversie (come la previsione del consenso dello Stato alla giurisdizione arbitrale a prescindere dal previo esaurimento dei ricorsi interni). Va comunque osservato, al riguardo, che i tribunali arbitrali si sono pronunciati in modo differente sul tema, fornendo letture più o meno restrittive delle clausole sul trattamento della nazione più favorita contenute nei BITs.
Tradizionalmente, la tematica degli investimenti stranieri è strettamente connessa a quella delle espropriazioni. Pertanto, le norme sulla “protezione” degli investimenti esteri dei BITs sono volte a tutelare la proprietà straniera con riguardo a espropriazioni o nazionalizzazioni ad opera dello Stato ospite. Anche in tale materia ciascun BIT costituisce lex specialis rispetto alle corrispondenti norme del diritto internazionale consuetudinario. Così, ad es., all’art. 5 dell’accordo bilaterale vigente tra Italia ed Albania del 12 settembre 1991, le Parti contraenti prevedono che «[g]li investimenti degli investitori di una delle Parti Contraenti non saranno direttamente o indirettamente nazionalizzati, espropriati, requisiti o soggetti a misure aventi analoghi effetti nel territorio dell'altra Parte, se non ricorrono le condizioni seguenti: -a) perseguimento di fini pubblici o di interesse nazionale in conformità a normative vigenti; -b) adozione delle misure predette su base non discriminatoria; -c) corresponsione di immediato, pieno ed effettivo risarcimento». Seguono delle apposite disposizione volte a quantificare il “giusto risarcimento” da calcolarsi sulla base dell'“effettivo valore di mercato dell'investimento immediatamente prima del momento in cui le decisioni…siano state annunciate o rese pubbliche” e sarà determinato in base a criteri tecnici commerciali comunemente riconosciuti” che vengono ulteriormente specificati.
Tale clausola prevede il diritto in capo all’investitore privato di trasferire all'estero, in qualsiasi valuta convertibile e dopo l'assolvimento di ogni obbligo tributario, gli utili conseguiti ed eventualmente i capitali investiti in caso di disinvestimento.
La “garanzia” dell’investimento si riferisce, infine, a quegli strumenti, sia di diritto interno che di diritto interstatuale, che consentono di trasferire le conseguenze finanziarie del rischio politico su soggetti diversi dall’investitore privato. Orbene, sotto questo profilo va osservato che i meccanismi di garanzia del rischio politico sono generalmente offerti non dallo Stato ospite, bensì da quello di origine dell’investimento. A tale principio sono orientate le principali Export Credit Agencies dei singoli Stati: in Italia principalmente la SACE; negli Stati Uniti la OPIC e così via. A livello multilaterale si ha la MIGA, cui si è fatto cenno in precedenza.
Nei BITs sono previste apposite clausole relative sia alle controversie tra gli Stati che ne sono Parti contraenti, prevedendo solitamente l’arbitrato interstatale, sia a quelle tra gli investitori privati e lo Stato ospite. Se il primo tipo di arbitrato è stato largamente praticato per secoli e dunque è ben noto, l’arbitrato misto che oppone lo Stato ospite ad un investitore privato straniero costituisce, invece, una caratteristica tipica dei BITs del nostro tempo. La predetta Convenzione ICSID del 1969 ne ha consacrato la legittimità, il funzionamento e la sua più generale collocazione nell’ordinamento internazionale (su cui v. la voce di F. Marrella). Va infine rilevato che la competenza esclusiva in capo alla UE in materia di investimenti diretti esteri (art.207 TFUE) e l’aspro dibattito a cui, in tempi recenti, è seguìto il fallimento dei negoziati sul TTIP conducono verso l’elaborazione di nuove soluzioni normative – tuttora in corso - sia sul piano della migliore strutturazione dei meccanismi di soluzione delle controversie (ISDS), sia su quello della necessaria ripartizione della responsabilità internazionale derivante dalle violazioni delle norme in materia di investimenti tra l’Unione e gli Stati membri.
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