Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La figura dell’inventore ha subito, nel corso del XX secolo, una metamorfosi e si è scomposta in tante figure diverse e complementari, il cui riconoscimento, il cui ruolo e la cui importanza nella vita sociale dipendono soprattutto dai meccanismi economici che governano l’innovazione.
Per una definizione
Secondo la definizione dell’economista Simon Kuznets (1901-1985) “l’invenzione è una nuova combinazione di conoscenze, che prende forma di dispositivi potenzialmente utili per la produzione economica, e che è frutto di un atto mentale superiore alla media”. Parlando di “atto mentale superiore alla media”, Kuznets ricorda (giustamente) il carattere altamente intellettuale dell’invenzione, in questo non dissimile dal lavoro degli scienziati. In effetti, fino al XIX secolo, tra le due attività non vi è stata una netta separazione. Nel corso degli ultimi due secoli, però, si è chiarita una distinzione relativamente rigida tra l’invenzione, attività eminentemente pratica (“potenzialmente utile per la produzione” sottolinea ancora Kuznets), e l’area che si suppone propria del lavoro dello scienziato, quella delle scoperte. Usando questo termine, si sottolinea il fatto che compito dello scienziato non è produrre qualcosa di nuovo, ma semplicemente portare alla conoscenza dell’umanità aspetti del mondo già esistenti ma ancora sconosciuti. Il termine invenzione, che pure in origine aveva lo stesso significato di scoperta (dal latino invenire, che vuol dire “trovare, scoprire”), implica invece l’introduzione nel mondo di un oggetto o di un complesso di nuovi oggetti, che prima non esistevano.
Si è così stabilita un’opposizione netta tra l’attività di ricerca, finalizzata per definizione alla verità e presumibilmente libera da finalità pratiche e quella di invenzione che si pone un obiettivo concreto e non ha fini di conoscenza vera (tanto è vero che invenzione può indicare anche un’informazione falsa). In realtà, questa distinzione per quanto radicata nel senso comune, è legata a una fase storica limitata e ormai superata: soprattutto negli anni più recenti, sono nate nei laboratori stessi della ricerca scientifica apparecchiature che gli stessi scienziati hanno inventato o adattato alle proprie esigenze, senza le quali certe scoperte non sarebbero state possibili.
Il concetto di invenzione e quello di inventore sono in sostanza realtà storicamente determinate e fortemente mutevoli nel tempo; così come si è modificato nel corso del tempo l’idea di brevetto, cioè l’istituto giuridico che, fin da un’epoca precedente il viaggio di Colombo, costituisce il principale compenso per quest’attività. Una rapida carrellata storica su questo istituto può aiutare a inquadrare meglio le vicende dell’invenzione in Occidente.
Il brevetto. Origini e regolamentazione
Il più antico decreto nel campo dei diritti di brevetto risale al 1474: e si deve alla Repubblica di Venezia che promulga una norma al fine di stimolare l’innovazione tecnologica in particolare nel settore della costruzione delle armi e delle navi; vi si definivano le norme per cui l’inventore poteva ottenere “una lettera aperta” che attestava il suo diritto di essere pagato, per lo sfruttamento delle sue idee, da coloro che intendevano imitarlo. Patens, da cui l’inglese patent (“brevetto”) è la parola latina per “pubblico”, aperto a tutti gli sguardi; brevis, da cui l’italiano brevetto e il francese brevet, è la parola latina per “lettera”. Da quello che allora era il centro tecnico più avanzato dell’Occidente, il brevetto si estese gradualmente agli altri Stati occidentali sotto la pressione non tanto dei singoli inventori, quanto delle corporazioni.
Tradizionalmente, il potere delle società artigiane nelle città europee era stato ed era garantito per secoli da un sistema di segretezza; ogni corporazione poteva chiedere all’apprendista un giuramento di silenzio circa le tecniche di produzione; del resto solo attraverso alcuni riti di iniziazione sarebbe stato accolto come artigiano a pieno titolo. I trasgressori erano puniti come minimo con l’espulsione dalla società. Con l’erosione graduale dell’ancien régime e della sua rigida stratificazione, le corporazioni persero parte del loro potere sui membri, anche per effetto della diffusione della stampa e dei testi dedicati alla tecnologia. I segreti furono a quel punto largamente divulgabili e impossibili di difendere, e le leggi sul brevetto poterono diventare per i gruppi artigiani un utile strumento per preservare, almeno per un periodo di tempo, la proprietà dei processi e dei miglioramenti che i suoi membri avevano introdotto.
Successivamente, proprio nell’epoca della rivoluzione scientifica, il sistema dei brevetti unito allo sviluppo da un lato (in particolare in Francia) dell’aggressivo mercantilismo produttivista oggi legato al nome di Colbert, dall’altro (a cominciare dall’Inghilterra) alla prima industrializzazione, favorì il lavoro di alcuni singoli inventori, dediti alla ricerca di soluzioni originali che avrebbero avuto come ricompensa i proventi derivanti appunto dal brevetto, e/o dall’avvio di un’attività imprenditoriale in proprio, protetta dal temporaneo monopolio derivante dal brevetto stesso. La stessa norma che per alcuni secoli era stata usata dalle comunità artigiane per difendersi stava dunque diventando una delle vie maestre di quell’industrializzazione che avrebbe alla lunga emarginato l’artigianato.
La funzionalità della legislazione brevettuale all’industrializzazione è chiarita limpidamente da uno dei massimi inventori e imprenditori dell’Ottocento, il tedesco Werner von Siemens: “nella normativa sul brevetto la privativa industriale era un premio per la pubblicazione integrale e immediata dell’invenzione, la quale permetteva che ulteriori idee, sorte sulla base dell’invenzione brevettata, divenissero automaticamente parte della proprietà industriale collettiva e potessero venire utilizzate anche in altri campi”.
La dinamica del brevetto
In realtà già alla fine dell’Ottocento gli sviluppi dell’industria a base scientifica, in Germania come negli Stati Uniti, cominciano a fare emergere una realtà in parte diversa da quella prevista da Siemens. I cartelli fondati sul controllo dei brevetti possono facilmente controllare i prezzi e, in certi casi, perfino utilizzare gli stessi brevetti, e il loro superiore potere, quello economico, per frenare la reale innovazione. Nato come un premio all’inventore, il brevetto si trasforma in uno strumento della grande impresa. In alcuni casi ciò può avere prodotto benefici per la collettività: proprio in vista dei ritorni elevati dei brevetti, alcuni grandi gruppi industriali hanno finanziato la ricerca anche di altissimo livello, sia pure allo scopo di assicurarsi il controllo non solo sulle singole invenzioni, ma anche sugli interi campi di invenzioni potenziali. In altri casi i risultati sono più discutibili, come per grandi aziende detentrici di brevetti ormai superati, le quali hanno usato tutti i mezzi legali per resistere alle innovazioni che non si sentivano pronte ad adottare, riuscendo ad assicurarsi – con la manipolazione disinvolta dei propri brevetti e con l’aiuto di costosissimi uffici legali – il controllo su innovazioni che avevano fatto poco o nulla per promuovere.
Negli ultimi due decenni si sono verificati cambiamenti che stanno sfidando l’intera idea di brevetto. Molti di questi hanno a che fare con un fattore fondamentale, il tempo. Il brevetto funziona sul lungo, o medio periodo: anche solo il processo di compilazione di documenti (o moduli informatici) per ottenere il brevetto può richiedere settimane, mesi e, in caso di controversie legali, persino anni. Tutto il sistema è fondato sul principio che i risultati economici di un’invenzione o di un’innovazione dovrebbero arrivare non tutti in una volta, ma gradualmente, durante il periodo di durata del brevetto.
Oggi, di fronte a un’accelerazione generale in tutti gli aspetti della vita economica, persino grandi aziende che potrebbero sobbarcarsi rischi elevati e resistere a periodi di attesa relativamente lunghi, tendono a sfruttare le invenzioni che hanno prodotto – o comprato – appena possibile, e sono portate a brevettarle soltanto quando il loro valore reale di innovazione è stato completamente incorporato nei propri processi e prodotti. Nella fase intermedia tendono a utilizzare il vecchio metodo del segreto.
Il brevetto non sta scomparendo, tuttavia, né sta divenendo irrilevante ma, la sua funzione è parzialmente cambiata: da una difesa legale delle innovazioni a una protezione ex post cioè relative a innovazione già introdotte, e spesso già parzialmente sfruttate. D’altro canto, l’idea del brevetto si sta estendendo oltre tutti i confini che avrebbero potuto essere anche solo pensati due generazioni fa, fino ad applicarsi alle righe del codice genetico. Poiché il confine fra le scoperte scientifiche e le applicazioni tecniche, da sempre incerto, ora è completamente permeabile nei due sensi, il ricorrere al brevetto consente un modo di creare monopoli provvisori sulle innovazioni di origine scientifica e sulle stesse scoperte che ne sono la fonte, fino al caso, assai discusso, del brevetto sul genoma umano.
L’inventore: un’invenzione ottocentesca
In questo rapido excursus nella storia del brevetto si possono leggere, in filigrana, le tappe principali che nella storia moderna ha compiuto la figura dell’inventore.
“Il disprezzo diffuso per le arti meccaniche si è esteso in qualche misura agli stessi inventori. I nomi di questi benefattori del genere umano sono quasi sempre ignorati, mentre la storia dei distruttori, cioè dei conquistatori, è nota a tutti. Eppure, è probabilmente tra gli artigiani che dobbiamo andare a cercare le prove più ammirevoli dell’acutezza dello spirito.” Le concise frasi di d’Alembert nel “Discorso preliminare” all’Encyclopédie sono un segno chiaro di un cambiamento in corso. Nel momento in cui propone una rivalutazione della tecnica e fornisce uno strumento essenziale, e quasi senza precedenti, per lo studio della tecnica, la grande opera dell’Illuminismo propone non solo e non tanto i saperi artigiani quanto l’attività creativa dell’inventore come uno dei maggiori contributi al bene collettivo.
Proprio in quegli anni, personaggi come Watt e Arkwright, inventori rispettivamente della macchina a vapore e del telaio meccanico, dimostravano che quei “benefattori del genere umano” non erano più tanto ignorati, e cominciavano a godere alcuni degli utili del loro lavoro. Stava nascendo come si ricordava la figura dell’inventore-imprenditore.
I primi del Novecento: la fine dell’inventore
A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, il mito dell’inventore, dell’uomo di genio che coniuga in sé il sapere e l’imprenditività, è al culmine, e attorno alle idee di Siemens ed Edison, Marconi e Bell, nascono non semplici aziende ma autentici sistemi produttivi, che ottengono per periodi più o meno lunghi (oltre un secolo, nel caso di Bell) il monopolio di intere aree economiche.
Tutte le maggiori aziende dei settori nuovi si dotano di propri laboratori e cominciano a dedicare fondi consistenti a una nuova voce del bilancio; “ricerca e sviluppo”, in inglese Research and Development (abbreviato in R&D). Proprio l’imitazione da parte di molte grandi imprese delle pratiche di laboratorio degli inventori-imprenditori segna, secondo una tesi storiografica riconducibile a Loewenthal, la fine dell’epoca degli Edison. Mentre i laboratori delle imprese più avanzate ottocentesche erano ancora dominati dalla personalità dell’inventore-imprenditore, i nuovi laboratori diventano a tutti gli effetti parte dell’apparato produttivo; al loro interno vengono chiamati a lavorare insieme tecnici e scienziati, che si mantengono in stretto rapporto di collaborazione con le istituzioni universitarie: l’impresa è ormai consapevole della diretta utilità produttiva della ricerca accademica.
Anche per l’effetto congiunto dell’intervento dello Stato e del mutamento delle imprese, a questo punto l’invenzione non è più (o è sempre meno) un atto individuale, ma un aspetto dell’attività dell’impresa, che si svolge in uno specifico settore dell’impresa stessa, il laboratorio. Nello stesso periodo, si afferma pienamente un’altra figura professionale: l’ingegnere, specialista dell’applicazione delle tecnologie.
Nei decenni successivi, le tendenze manifestatesi all’inizio del secolo si sono rafforzate ulteriormente, sia perché l’intervento statale, da occasionale come era al tempo della Grande Guerra, si è fatto permanente e organico, sia perché le risorse dedicate dalle grandi imprese alla ricerca e allo sviluppo hanno continuato a crescere. Anzi, alcuni dei maggiori studiosi della storia dell’economia, come l’austriaco Joseph Schumpeter, denunciano già negli anni Trenta i pericoli impliciti in questa tendenza, il rischio cioè di una burocratizzazione delle attività di ricerca, che avrebbe portato progressivamente all’inaridirsi delle capacità innovative delle imprese.
Secondo questa tesi, in sintesi, la storia delle invenzioni avrebbe seguito uno sviluppo sequenziale così riassumibile: in una prima fase l’invenzione si manifesta come un processo sociale diffuso e spontaneo, e le conoscenze scientifiche servono al massimo a stimolarla (molti erano gli inventori senza vera preparazione scientifica, o con una preparazione superficiale); in una seconda fase, protagonisti delle invenzioni diventano i laboratori di impresa adibiti a cercare e sfruttare le possibilità tecniche aperte dalla ricerca scientifica; nel Novecento, infine, si sarebbe aperta una terza fase, caratterizzata dalla ricerca ormai razionalizzata, dal tentativo cioè di elaborare solo le invenzioni propriamente utili all’industria.
Limiti di un luogo comune
La ricostruzione appena tracciata è radicata non solo nella storiografia ma anche nel senso comune. Contiene importanti elementi di verità, ma vale la pena di sottoporla a uno scrutinio più attento per considerarne i limiti.
Certo, l’affermazione secondo cui oggi l’invenzione di nuovi prodotti e di nuove procedure produttive è un’attività molto più organizzata e socializzata di quanto non fosse fino alla fine dell’Ottocento è assolutamente indiscutibile, come è indiscutibile che il rapporto fra la ricerca scientifica e l’ideazione di nuove tecnologie si è fatto, soprattutto nei grandi laboratori industriali, assai più stretto che in passato. La distinzione tra invenzione e innovazione è un aspetto essenziale della teoria economica di Schumpeter, il grande studioso austriaco che forse meglio di chiunque altro ha contribuito a chiarire il ruolo delle novità tecniche nello sviluppo economico. Secondo lo storico francese Bertrand Gille, “l’innovazione è l’invenzione coronata da successo”. In una situazione in cui esiste una spietata concorrenza e una spietata selezione tra le diverse potenzialità tecnologiche che vengono continuamente messe a punto, è la vita economica il mercato, l’arbitro che decide se una certa invenzione è destinata a sopravvivere o a scomparire, magari per essere poi “riscoperta”. Sostenere però, come molti fanno, che lo sviluppo dei grandi laboratori industriali comporti di per sé la completa razionalizzazione della produzione di invenzioni, e la totale scomparsa della figura dell’inventore che ci è familiare dall’Ottocento, è sicuramente eccessivo.
Uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’innovazione, Jacob Schmookler, ha concluso, alla fine di un’indagine approfondita su diversi anni di statistiche americane, che la produzione di invenzioni da parte delle grandi imprese non è, nell’insieme, più “razionale” di quella dei singoli inventori indipendenti. In entrambi i casi, metà dei brevetti ottenuti sono inutilizzati. Anche all’interno dei grandi laboratori aziendali, la ricerca e l’invenzione non sono pienamente programmabili. È semmai la piccola impresa innovativa, che spesso ha alla testa, se non un inventore, quanto meno un tecnico attento alle possibilità di perfezionamento di prodotti e processi, che meglio sfrutta le proprie capacità di innovazione.
In secondo luogo, dobbiamo riconoscere che non si possono applicare al settore ricerca e sviluppo le stesse forme organizzative che si applicano in altri campi. Questa è un’altra osservazione oggi generalmente accolta. Le forme di organizzazione gerarchica che sono servite, in particolare negli anni del taylorismo, a massimizzare la produzione di merci, si rivelano assai meno efficaci, anzi spesso decisamente controproducenti, là dove si debbano produrre idee e conoscenze.
Proprio tenendo conto di ciò, molte grandi imprese hanno finito con il cercare di organizzare le attività dei loro ricercatori scientifici e tecnologici secondo modalità il più possibile lontane dagli stili organizzativi della fabbrica, e il più possibile vicine a quelli dell’artigiano e dello scienziato puro. Se è vero che nei laboratori non lavorano singoli inventori né singoli scienziati, è anche vero che si tende ad affidare le ricerche più impegnative a piccoli gruppi, non molto dissimili a guardar bene da quelli che circondavano Edison o Siemens.
D’altra parte, vi sono numerosi casi, anche nella storia recente, di singoli individui o di piccoli gruppi indipendenti che si sono assunti il compito, rischioso ma anche altamente remunerativo in caso di successo, di esplorare le potenzialità di tecnologie sulle quali le grandi imprese avevano rinunciato a puntare. Un caso tra i più noti è quello dell’“interfaccia grafico”, cioè del peculiare linguaggio visivo che permette, con l’aiuto di un mouse, di interagire con un computer anche a chi conosca poco o per nulla l’informatica. Sviluppata originariamente all’interno dei laboratori di una grande impresa, la Xerox, questa innovazione era stata lasciata cadere dall’azienda, all’epoca non interessata al settore ancora ristretto dei personal computer. Venne ripresa e rilanciata da un’azienda, la Apple, che era all’epoca guidata da un inventore-imprenditore, Steven Jobs.
Il sistema dell’invenzione
Nella realtà odierna coesistono diversi soggetti impegnati nell’elaborazione di novità in campo tecnico: in primo luogo le grandi imprese, al cui interno lavorano sia ingegneri impegnati ad applicare, ma anche a perfezionare, le tecnologie, sia piccoli gruppi di inventori e scienziati all’opera in grandi laboratori ma spesso con modalità artigianali, sia amministratori e dirigenti il cui compito è tra l’altro dare alle invenzioni uno sbocco di mercato; in secondo luogo le piccole imprese innovative, che agiscono spesso in modo analogo a quello caratteristico degli inventori-imprenditori, e che potranno un giorno condividere il loro destino (è il caso ad esempio della Microsoft, sorta nei primi anni Ottanta dall’iniziativa del giovane “mago dell’informatica” Bill Gates, e oggi una delle massime imprese del settore; infine i singoli scienziati e inventori, che vendono i loro brevetti alle imprese: un fenomeno assai più significativo, soprattutto in alcuni settori, di quanto generalmente non si creda.