Invecchiare oggi
Le Nazioni Unite hanno definito il 1999 come anno dell’anziano, riconoscendo e confermando che il progressivo invecchiamento della popolazione, una tendenza già da tempo messa in evidenza dai demografi, rappresenterà una delle priorità del 21° secolo. Infatti, l’invecchiamento della popolazione appare come un fenomeno emergente universale. La confluenza del calo della fertilità e dell’aumento della longevità dovuta al miglioramento delle condizioni di vita (in particolare nei settori dell’alimentazione e dell’igiene) e ai progressi scientifici in ambito medico, ha determinato la crescita numerica e proporzionale della popolazione anziana in tutto il mondo.
Epidemiologia dell’invecchiamento
È stato stimato che la popolazione anziana del mondo è in continua crescita e continuerà ad aumentare in maniera esponenziale nei prossimi anni. La popolazione mondiale di età uguale o superiore ai 65 anni ha raggiunto i 420 milioni di persone a metà del 2000, con un incremento superiore a 9,5 milioni a partire dalla metà del 1999: in questo periodo il numero degli ultrasessantacinquenni è aumentato in valore assoluto di 795.000 persone al mese. Le proiezioni per l’anno 2010 suggeriscono che mensilmente il numero di individui che supereranno i 65 anni di età aumenterà di 847.000 unità. Nel 2000, 31 Paesi contavano una popolazione di oltre 2 milioni di ultrasessantacinquenni; le proiezioni per il 2030 indicano che questo traguardo sarà raggiunto da più di 60 Paesi.
L’Europa ha avuto per molto tempo la più alta proporzione di popolazione anziana rispetto alla popolazione totale e continuerà ad avere questo primato anche nel 21° secolo. Nel 2000 in gran parte dei Paesi sviluppati (che includono nazioni europee, America Settentrionale, Australia, Nuova Zelanda e Giappone) la percentuale di popolazione anziana variava dal 12% al 16%. Per molti anni la Svezia ha avuto la proporzione più alta, ma recentemente l’Italia è divenuta dal punto di vista demografico la più vecchia delle maggiori nazioni. Oltre il 18% degli italiani ha un’età uguale o superiore ai 65 anni, mentre in Grecia, Svezia, Giappone, Spagna e Belgio i valori si avvicinano o superano il 17%. Con l’eccezione del Giappone, i 25 Paesi più vecchi del mondo si trovano in Europa. Gli Stati Uniti, con una proporzione di anziani inferiore al 13% nel 2000, rappresentano un Paese piuttosto giovane rispetto agli standard dei Paesi sviluppati, e tale percentuale aumenterà solo di poco durante il prossimo decennio. Tuttavia, a mano a mano che i nati nel periodo del ‘baby boom’ (tra il 1946 e il 1964) arriveranno ai 65 anni, la percentuale di anziani negli Stati Uniti aumenterà notevolmente, raggiungendo probabilmente il 20% nel 2030. Questa cifra sarà comunque più bassa rispetto a quella stimata per la maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale.
Si ritiene, giustamente, che l’aumento della popolazione anziana sia un fenomeno tipico dei Paesi sviluppati: nel 2000 il numero di bambini sotto i 15 anni raggiungeva quasi quello delle persone di età uguale o superiore ai 55 anni (circa il 22% della popolazione totale per ogni categoria), mentre i Paesi in via di sviluppo registravano ancora un’elevata proporzione di bambini (il 35% della popolazione aveva un’età inferiore ai 15 anni) e una proporzione relativamente bassa di anziani (il 10% della popolazione aveva un’età uguale o superiore ai 55 anni). Tuttavia, un dato importante da sottolineare è che il numero assoluto degli anziani è molto più elevato nei Paesi in via di sviluppo che non nel resto del mondo: nel 2000, circa il 59% degli ultrasessantacinquenni esistenti al mondo (249 milioni di persone) viveva nei Paesi in via di sviluppo. Entro il 2030, questa proporzione è destinata ad aumentare fino al 71% (686 milioni di persone). Tale fenomeno, spesso trascurato, è legato al fatto che in termini assoluti le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo sono molto più numerose rispetto a quelle dei Paesi industrializzati; e che anche nei primi, in conseguenza del miglioramento delle condizioni di vita, si sta assistendo a una progressiva riduzione della mortalità e in molti casi anche della natalità. In questo contesto è importante sottolineare come i Paesi in via di sviluppo siano quelli che attualmente, e ancora più nel prossimo futuro, daranno il contributo maggiore all’invecchiamento della popolazione (fig. 1). Per es., il 77% dell’aumento complessivo degli anziani ultrasessantacinquenni nel mondo, misurato dal luglio 1999 al luglio 2000 (615.000 persone al mese), si è avuto nei Paesi in via di sviluppo.
Cause dell’invecchiamento
L’invecchiamento della popolazione rappresenta, in un certo senso, un successo per l’uomo; le società contemporanee hanno il lusso di invecchiare. Tuttavia, la crescita costante della popolazione anziana prospetta un gran numero di sfide ai politici di molti Paesi. Infatti, come già indicato, dopo l’anno 2010 il numero assoluto e la proporzione degli anziani (soprattutto degli ultraottantenni) aumenterà non solo nei Paesi sviluppati, ma soprattutto in quelli in via di sviluppo. L’incremento previsto è conseguenza di due fenomeni: la progressiva e costante riduzione dei tassi di mortalità; la riduzione della natalità. Il processo di invecchiamento della popolazione è, quindi, innanzi tutto determinato dai tassi di fertilità (numero di nascite) e secondariamente dai tassi di mortalità (numero di morti), cosicché le popolazioni con alto tasso di fertilità tendono ad avere basse proporzioni di anziani e viceversa. I demografi usano l’espressione transizione demografica quando una società si sposta da una situazione ad alto tasso di fertilità e mortalità a una a basso tasso.
Riduzione della natalità
Il più importante fattore storico capace di influire sull’invecchiamento della popolazione è stato il calo della fertilità. A partire dal 1900 e fino a oggi questo abbassamento continuo nei Paesi sviluppati ha portato, nella maggior parte di essi, a tassi di fertilità inferiori ai 2,1 nati vivi per ogni donna. Tale fenomeno è particolarmente evidente in Italia, dove, come mostrato nella figura 2, si è passati da un livello della fecondità di 2,3 figli in media per donna negli anni Cinquanta a 1,3 figli per donna nel 2005. Quest’ultimo dato, pur segnando una lieve ripresa delle nascite rispetto al minimo storico di 1,2 figli per donna del 1994, rende tuttavia l’Italia uno dei Paesi con il più basso tasso di fertilità del mondo. Nei Paesi in via di sviluppo, invece, la discesa della fecondità, pure sensibile, non ha ancora ridotto in maniera consistente le nascite, che anzi continuano ad aumentare in valore assoluto per il grande numero di persone che si trovano in età feconda. Infatti, il tasso di fertilità totale nell’insieme rimane superiore a 4,5 figli per donna in Africa e in molti Paesi del Medio Oriente, mentre i livelli totali in Asia e in America Latina si sono ridotti di circa il 50% (da 6 a 3 figli per donna) nel periodo tra il 1965 e il 1995. Un caso particolare, tra i Paesi in via di sviluppo, è rappresentato da alcune nazioni asiatiche, quali Cina, Corea del Sud, Thailandia, dove il tasso di fertilità rilevato nel 2000 era inferiore a 2 figli per donna (Cina 1,8 figli per donna, Corea del Sud 1,7 e Thailandia 1,9).
Aumento dell’attesa di vita
Lo spettacolare incremento dell’aspettativa di vita, che ebbe inizio verso la metà del 19° sec. e che continuò a fare registrare notevoli effetti durante tutto il secolo successivo, costituisce senza dubbio un elemento importante per l’invecchiamento della popolazione. Questo fenomeno è spesso ascritto principalmente ai progressi nel campo della medicina e della sanità, pur se i miglioramenti più significativi in tale ambito si sono avuti solo alla fine del 19° secolo. Resta comunque ampiamente documentato e condiviso il fatto che i primi e più importanti fattori a determinare un aumento dell’attesa di vita sono dovuti alle innovazioni nella produzione industriale e nelle tecnologie agricole, nonché nella distribuzione dei beni di consumo, tutti fattori che ebbero – e non potevano non avere – positive e consistenti ripercussioni sulle opportunità nutrizionali e, quindi, sulle aspettative di salute e di benessere di un gran numero di persone. Non a caso, un sempre maggiore numero di ricerche, sviluppate nei primi anni del 21° sec., attribuisce il guadagno in termini di longevità osservato a partire dall’inizio dell’Ottocento a una complessa interazione di avanzamenti nella medicina e nell’igiene, insieme all’affermarsi di nuovi modelli familiari, sociali, economici e di organizzazione politica.
Nel corso del 20° sec. nei Paesi sviluppati l’incremento medio dell’aspettativa di vita alla nascita è stato del 66% per gli uomini e del 71% per le donne. Questo fenomeno ha avuto una particolare rilevanza anche in Italia, dove, per es., l’aspettativa di vita alla nascita delle donne è aumentata di oltre il 90%: dai 43 anni del 1900 si è passati agli oltre 82 anni nel 2000. In qualche caso, come in Spagna, l’aspettativa di vita si è più che duplicata nel corso del 20° secolo.
In termini di aspettativa di vita l’aumento delle differenze tra i sessi è stato alla base dell’andamento della mortalità nei Paesi sviluppati nel 20° sec. e questa tendenza è stata confermata nei primi anni del secolo in corso. Nel Novecento, in Europa e in America Settentrionale le donne di solito avevano un’attesa di vita di 2 o 3 anni superiore a quella degli uomini. Oggi, il gap medio tra i sessi è di circa 7 anni, ma supera i 12 anni in parte dell’ex Unione Sovietica. Questa differenza riflette il fatto che nella maggior parte delle nazioni le donne hanno una mortalità più bassa di quella degli uomini per ciascun gruppo d’età e per la maggioranza di cause di morte. L’aspettativa di vita delle donne adesso supera gli 80 anni in più di 30 Paesi e il livello è vicino in molte altre nazioni. La differenza tra i sessi normalmente è minore nei Paesi in via di sviluppo, variando di solito nel range di 3-6 anni, ed è addirittura rovesciata in alcune società dell’Asia meridionale e del Medio Oriente, dove i fattori culturali (come il basso status sociale e la preferenza di discendenza maschile rispetto a quella femminile) si pensa contribuiscano a una più alta aspettativa di vita alla nascita degli uomini rispetto alle donne. Le esatte motivazioni della differenza tra i sessi riguardo all’aspettativa di vita sfuggono ancora agli scienziati, a causa evidentemente della complessa interazione di condizioni biologiche, sociali e comportamentali. La maggiore esposizione ai fattori di rischio, come il consumo di fumo e alcol e i rischi occupazionali, è indicata come responsabile dei tassi di mortalità più alti, suggerendo quindi che il gap potrebbe ridursi se le donne aumentassero il consumo di fumo e alcol e la partecipazione a lavori pesanti. Comunque, i dati dei Paesi sviluppati non mostrano ancora un modello chiaro di variazione di questa differenza tra i sessi; la differenza sta aumentando in gran parte dell’Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica, mentre sta restringendosi in altri Paesi sviluppati. Negli Stati Uniti, per es., negli ultimi decenni l’aspettativa di vita alla nascita è aumentata di 3 anni per gli uomini e di 1,6 per le donne, ma in alcune nazioni con un’aspettativa di vita molto alta (come Francia, Germania, Giappone) i guadagni in termini di longevità femminile continuano a superare quelli degli uomini.
Patologie cronico-degenerative e disabilità
La transizione demografica precedentemente descritta si associa a profondi cambiamenti epidemiologici, contraddistinti dalla marcata riduzione nell’incidenza delle malattie infettive – soprattutto, ma non esclusivamente, dal punto di vista della loro rilevanza come causa di morte – e dall’affermarsi di patologie cronico-degenerative, che caratterizzano le società con maggiore percentuale di anziani. Le patologie cronico-degenerative sono responsabili di circa l’80% della mortalità e di circa il 70% delle spese sanitarie nella popolazione generale e la loro prevalenza è in continua ascesa. Per es., una rilevazione dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT, Condizioni di salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sanitari. Anno 2005, 2007, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/ non_calendario/20070302_00/testointegrale.pdf, 29 marzo 2010) risalente al 2005 ha registrato, rispetto al 2000, un significativo aumento nella prevalenza di diabete (dal 12,5% al 14,5%), ipertensione arteriosa (dal 36,5% al 40,5%), infarto del miocardio (dal 4% al 6,3%), artrosi oppure artrite (dal 52,5% al 56,4%) e osteoporosi (dal 17,5% al 18,8%).
Tra le malattie cronico-degenerative, alcune, come quelle cardiovascolari, la broncopneumopatia ostruttiva e le neoplasie, sono notoriamente importanti come causa di morte. Infatti, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la cardiopatia ischemica e l’ictus sono – e rimarranno almeno fino al 2020 – rispettivamente la prima e la seconda causa di morte nel mondo. Con l’invecchiamento della popolazione si prevedono un aumento dell’importanza di alcuni tumori (stomaco e fegato) e una diminuzione in genere di quella delle malattie infettive acute, ma non di quelle croniche, quali la tubercolosi e l’AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome): quest’ultima, anzi, guadagnerà ben ventuno posti, passando, sempre secondo queste stime, dal 30° al 9° posto. La presenza di patologie cronico-degenerative, oltre ad aumentare la mortalità, determina un aumentato rischio di sviluppare disabilità, intesa come incapacità o difficoltà a compiere le attività della vita quotidiana necessarie per l’autonomia sia in casa sia fuori. Sono state elaborate diverse misure che mirano a esprimere il carico disabilitante complessivo delle malattie cronico-degenerative. Una delle più usate in letteratura è il DALY (Disability-Adjusted Life Year), che esprime gli anni di vita persi per una morte prematura o vissuti con disabilità di specifica gravità e durata. In sostanza, un DALY rappresenta un anno di vita sana perso. Negli anni Novanta del 20° sec., a livello mondiale, circa il 43% dei DALY complessivi era attribuibile a patologie cronico-degenerative, in un intervallo compreso tra il 39% dei Paesi a basso e medio reddito e l’81% di quelli ad alto reddito. Se nel 1990 le infezioni delle basse vie aeree, la dissenteria e le malattie perinatali rappresentavano, secondo le stime dell’OMS, le malattie cui potere ricondurre, individualmente, la maggiore percentuale di DALY, si prevede che nel 2020 saranno invece le malattie cronico-degenerative, quali, per es., la cardiopatia ischemica, la depressione maggiore, l’ictus e la bronchite cronica ostruttiva, a determinarne la maggiore percentuale.
Ci si attende tuttavia che l’espansione, in termini assoluti e relativi, della popolazione anziana non si accompagni necessariamente a un aumento proporzionale ed esponenziale della morbilità e disabilità, ma che questi fattori possano essere ‘compressi’. James Fries, professore alla Stanford university school of medicine, ha ipotizzato che, a fronte di un progressivo allungamento dell’aspettativa di vita (che determina il concentrarsi delle morti nell’età estrema, o compressione della mortalità), l’insorgenza della malattia e della disabilità possa ugualmente venire posposta e non, come comunemente ritenuto, rimanere costante. Di conseguenza, secondo il modello di Fries, l’invecchiamento comporterebbe non un aumento, ma una riduzione, almeno relativa, del numero di anni trascorsi in cattive condizioni di salute e, in ultima analisi, di dipendenza fisica. In altre parole, alla compressione della mortalità si potrebbe associare quella della morbilità e della disabilità, con un aumento, quindi, della durata della vita attiva. È evidente che lo scenario dipinto da Fries è particolarmente incoraggiante. Se fosse possibile posticipare l’età di insorgenza delle malattie croniche e ridurne l’impatto disabilitante, in modo più rapido di quanto non aumenti ogni anno l’aspettativa di vita, allora l’invecchiamento si tradurrebbe in un reale guadagno in termini di vita attiva: una vittoria completa, per l’individuo e per la società. Vi sono dati che suggeriscono una riduzione della prevalenza età-specifica della disabilità nei Paesi industrializzati. Negli Stati Uniti, dal 1983 al 2004, la prevalenza della disabilità si è ridotta in misura dello 0,36% per anno. Questa riduzione si estende alle forme più gravi come a quelle più lievi di disabilità. Un andamento simile è stato osservato anche in altri Paesi, come la Finlandia, in riferimento alla disabilità associata alle malattie cardiovascolari. La compressione della morbilità non sembra più, pertanto, un’ipotesi azzardata ma, al contrario, una prospettiva realistica e raggiungibile, sempre che nel corso dell’esistenza si sia mantenuto uno stile di vita più sano. Studi osservazionali, condotti in popolazioni differenti, dimostrano infatti in maniera concorde che mantenere uno stile di vita attivo con regolare esercizio fisico, astenersi dal fumo ed evitare il sovrappeso corporeo sono tutti comportamenti associati al raggiungimento dell’obiettivo di ritardare quanto più possibile la perdita di autonomia funzionale in età avanzata.
Aspetti sociali dell’invecchiamento
della popolazione in Italia
I rapidi cambiamenti demografici osservati nei Paesi sviluppati negli ultimi decenni hanno determinato importanti modificazioni sociali. In particolare, in Italia, si sono verificati cambiamenti rilevanti nella struttura familiare, nel contesto abitativo, nella situazione economica e lavorativa. Questi sono certamente aspetti importanti e necessari per riuscire a capire chi è un anziano oggi in Italia e come esso si inserisce nella nostra società.
Le famiglie degli anziani
In Italia negli ultimi decenni la famiglia si è profondamente trasformata nella struttura, nelle funzioni, nelle relazioni fra i componenti e con l’esterno. In particolare, si è osservato un processo di semplificazione o nuclearizzazione della famiglia associato in parallelo a un processo di invecchiamento dei suoi componenti. Da alcuni anni, infatti, è stato evidenziato un incremento graduale del numero di famiglie (passate, tra il 1988 e il 2003, da 19.872.000 a 22.361.000) e una diminuzione della dimensione familiare media (il numero medio di componenti è passato, infatti, nello stesso arco di tempo da 2,9 a 2,6). È aumentato quindi il numero delle famiglie formate da uno o due componenti, che nel 2003 rappresentavano più della metà delle famiglie (pari al 52,2%, mentre erano il 42,9% nel 1988), ed erano soprattutto gli anziani a vivere da soli. Nel 2003, infatti, il 20,5% delle persone con età tra i 65 e i 75 anni e il 37,8% delle persone con età superiore ai 75 anni vivevano da soli. Questa tendenza sembra più accentuata tra le donne rispetto agli uomini: il 27,9% delle donne nella fascia di età tra i 65 e i 75 anni vive da solo contro l’11,4% degli uomini e la percentuale sale al 50,7% nella fascia di età superiore ai 75 anni, contro il 16% degli uomini. Ciò accade sia per l’assai maggiore longevità delle donne, sia per la tendenza degli uomini a sposare donne più giovani di 3-4 anni. Se si associa la maggiore probabilità che gli uomini rimasti soli hanno di contrarre un nuovo matrimonio, si comprende perché la donna anziana si ritrovi a vivere in media una decina di anni da sola.
Accanto alle famiglie composte da una sola persona, tra gli anziani si registra una percentuale piuttosto consistente di persone che vivono in coppia senza figli: tale condizione interessa, infatti, il 46,1% della popolazione tra i 65 e i 74 anni e si tratta principalmente di uomini (52,6%), piuttosto che di donne (40,7%). Queste percentuali scendono decisamente nella fascia di età successiva (75 anni o più), nella quale vive in coppia senza figli il 35,4% delle persone, sempre con una netta predominanza degli uomini rispetto alle donne (59,4% contro 21,1%).
Il contesto abitativo
Dall’esame dei dati internazionali si rileva come lo stato civile e l’esistenza di parentela – oltre che una diversa concezione e cultura della famiglia – influenzino molto il luogo dove la persona anziana si trova a vivere, nel senso che gli anziani non coniugati (in particolare donne) e quelli che non hanno figli si ritrovano molto più frequentemente a vivere in istituzioni. Tuttavia, in Italia, solo una percentuale relativamente bassa di anziani vive in una istituzione. Infatti, i dati ISTAT relativi all’anno 2003 (ISTAT, L’assistenza residenziale in Italia: regioni a confronto, 2006, http:// www.istat.it/dati/dataset/20060301_01/, 29 marzo 2010) indicano come unicamente il 2% degli ultrasessantacinquenni in Italia sia ospite di presidi residenziali e il 2,4% alloggi in residenze sanitarie assistite. Tuttavia questi dati variano notevolmente tra le diverse regioni italiane, con una percentuale di istituzionalizzazione molto più elevata nelle regioni dell’Italia settentrionale, rispetto al Centro e al Sud.
Non è chiaro se una quota così modesta, molto inferiore a quella che si riscontra in alcuni Paesi europei, possa essere determinata da una carenza di domanda o di offerta, cioè se sono gli anziani che non vogliono fare ricorso alle istituzioni o se invece non ci siano strutture sufficienti, dal punto di vista sia qualitativo sia quantitativo, a soddisfare la domanda degli anziani. La conseguenza di un così basso ricorso all’istituzionalizzazione è che l’anziano vive presso la propria abitazione, frequentemente con il supporto di un aiuto costituito dai familiari o sempre più spesso da badanti provenienti da Paesi stranieri. È stato calcolato che al 2006 vivevano in Italia circa 800.000 badanti straniere, con un costo di circa 8 miliardi di euro all’anno per le famiglie italiane.
Aspetti economici
Da un punto di vista economico gli anziani costituiscono di certo una delle categorie maggiormente a rischio e ad alta vulnerabilità: al 2003 è il 13,9% delle famiglie con almeno un anziano a risultare in condizione di povertà relativa (il 12,6% di quelle con un anziano e il 16,7% di quelle con due o più anziani), contro il 10,6% del totale dei nuclei familiari. La precarietà economica degli anziani appare particolarmente evidente tra le donne: infatti il 79% degli ultrasessantacinquenni soli che sono in situazione di povertà appartiene al sesso femminile.
La condizione socioeconomica costituisce in effetti una preoccupazione comune per gli anziani. In tal senso i dati ISTAT hanno evidenziato in questi soggetti una percezione di indebolimento delle proprie possibilità economiche, diffusa soprattutto tra i nuclei familiari nei quali la persona di riferimento ha più di 65 anni di età. Se infatti, da una parte, questi nuclei si trovano a vivere in una casa di proprietà con maggiore frequenza rispetto alla media della popolazione (nel 75,2% dei casi contro il 71,1% complessivo), sono anche quelli che lamentano con più intensità un peggioramento della propria condizione: il 45,4% dei nuclei con capofamiglia anziano (contro la media complessiva del 40,4%) dichiara di avere assistito a un peggioramento delle proprie condizioni economiche. Naturalmente questa situazione economica si riflette anche nei consumi degli anziani, che sono certamente molto diversi rispetto a quelli della popolazione giovane e, in generale, tendenzialmente più ridotti, tenuto conto anche del fatto che i redditi del primo aggregato sono minori (la pensione è per il 78,3% degli anziani l’unica fonte di sostentamento).
Dati ISTAT concernenti i consumi della popolazione italiana rilevano che tra gli ultrasessantenni aumenta l’incidenza della spesa per quei beni e servizi che non sono comprimibili, quali gli alimentari, le bevande, l’abitazione (la maggior parte degli anziani risulta proprietaria della casa in cui alloggia), i combustibili, l’energia, e si riduce la spesa per quello che riguarda i beni voluttuari, quali l’abbigliamento, il tempo libero, i trasporti. Una popolazione anziana manifesta dunque nei consumi una domanda molto diversa da quella di una popolazione giovane, con ovvie conseguenze sulla struttura economico-produttiva, che peraltro non sempre si adegua per tempo con investimenti o differenziazioni di prodotti.
Anziani e occupazione
Nei Paesi sviluppati la partecipazione degli anziani all’attività produttiva è andata diminuendo nel tempo. Tale circostanza è, in generale, da attribuire sia alla modificazione della tipologia di attività prevalente (riduzione del peso del settore agricolo a vantaggio di quello industriale e dei servizi, in cui gli anziani trovano meno spazio), sia al sempre maggiore grado di protezione sociale collettiva che determina l’uscita dell’anziano dal ciclo produttivo. Inoltre, sempre in connessione ai due motivi precedenti, tra gli anziani i tassi di attività maschili sono progressivamente diminuiti nel tempo, contrariamente a quelli femminili che, pur attestandosi a livelli di gran lunga inferiori, risultano stabili o mostrano una tendenza all’aumento via via che le generazioni più istruite e dinamiche si affacciano alla soglia della terza età.
Anche in Italia la partecipazione degli anziani all’attività produttiva è andata riducendosi nel tempo, in primo luogo per motivi analoghi a quelli suddetti, ma anche per cause congiunturali – la crisi economica, i costi del lavoro, l’automazione – che favoriscono in molti casi l’uscita forzata (prepensionamenti e licenziamenti) degli anziani dal mercato del lavoro. Il nostro Paese è oggi agli ultimi posti per quanto riguarda i tassi di occupazione degli anziani. Dai dati ISTAT del 2006 (ISTAT, Forze di lavoro. Media 2006, 2007, http://www.istat.it/dati/catalogo/20070824_01/ann0712_forze_di_lavoro_media_2006.pdf, 29 marzo 2010) risulta occupato il 3,2% degli ultrasessantacinquenni, con variazioni tra il sesso maschile (6,3%) e quello femminile (1,2%). A livello territoriale la percentuale di anziani occupati varia notevolmente tra le regioni del Nord (3,8%), quelle del Centro (3,7%) e del Sud (2,1%). Una delle grandi problematiche concernenti l’attività lavorativa è legata al fatto che la vita individuale è migliorata e a 60-65 anni la maggior parte delle persone è ancora in salute e in grado di lavorare. Inoltre, i pochi dati disponibili sul lavoro nero indicano la presenza di una consistente proporzione di anziani. Questi dati, insieme a una forte crisi del sistema previdenziale, dovrebbero suggerire norme legislative più flessibili per il lavoro degli anziani anche dopo il pensionamento, con margini di elasticità più ampi nel decidere in maniera autonoma il momento giusto per uscire dal mercato del lavoro.
L’assistenza agli anziani in Italia
Migliorare le capacità dei servizi sociosanitari al fine di soddisfare le esigenze degli anziani, e in particolare di quelli non autosufficienti, è una delle più importanti sfide dei nostri tempi. Gli anziani non autosufficienti hanno bisogno sia di assistenza nella vita quotidiana sia di cure sanitarie. Questi bisogni, di pertinenza dei servizi sociali e dei servizi sanitari, non sono indipendenti gli uni dagli altri. Così la presa in carico della non autosufficienza si dovrebbe esercitare in modo concomitante e integrato. Non a caso nella maggior parte dei Paesi sviluppati il modello ideale di assistenza all’anziano è stato individuato nella rete dei servizi, un circuito assistenziale che accompagna l’evolversi dei bisogni dell’anziano e della sua famiglia, fornendo di volta in volta interventi diversificati, in un continuum assistenziale. Tale rete si basa su strutture e servizi in collegamento funzionale con caratteristiche organizzative e architettoniche idonee, nel cui ambito lavora personale con una specifica preparazione gerontologico-geriatrica.
In Italia il Progetto obiettivo anziani (POA), contenuto nel Piano sanitario nazionale 1994-1996, ha ridisegnato la struttura dell’assistenza sanitaria, rispondendo alle nuove esigenze della popolazione e affidando all’assistenza geriatrica la gestione del problema della disabilità dell’anziano. L’assistenza geriatrica è infatti, secondo il POA, quella rivolta agli anziani non autosufficienti, a quelli solo in parte autosufficienti e a quelli affetti da pluripatologia ad alto rischio di invalidità, soprattutto quando si tratta di pazienti che superano i 75 anni di età. Sulla base di positive esperienze compiute in altri Paesi, l’assistenza geriatrica si avvale di servizi e strutture operanti all’interno di un modello organizzativo a rete, dove il comparto sociale e quello sanitario agiscono in maniera integrata, un modello che viene identificato dal POA nella già citata rete dei servizi. L’obiettivo di questo sistema è di garantire un’assistenza continuativa, globale e flessibile, in base al percorso assistenziale: la flessibilità diventa caratteristica indispensabile, garantendo così la qualità e l’efficacia dell’intervento. Interventi singoli, sporadici o settoriali nei confronti del paziente geriatrico, a elevato rischio di non autosufficienza o già disabile, sono infatti destinati inesorabilmente a fallire. L’efficacia di un tale modello organizzativo a rete è stata dimostrata in uno studio condotto nella provincia canadese della Columbia Britannica, nella quale, in 15 anni di applicazione sistematica sul territorio di una rete assistenziale efficiente, la percentuale degli anziani istituzionalizzati è diminuita dal 9 al 6%, quella degli assistiti a domicilio è aumentata dal 6 al 9%, e il numero di posti letto in ospedale per acuti si è quasi dimezzato. Questi benefici, però, sono stati ottenuti a fronte di un congruo aumento del finanziamento statale per l’assistenza continuativa. Al centro di questa rete di servizi è posta l’Unità di valutazione geriatrica (UVG), individuata come l’organo più adeguato per coordinare il rapporto tra l’anziano e i servizi sul territorio. Essa, infatti, è costituita da una équipe multidisciplinare capace di valutare al meglio i problemi clinico-assistenziali e sociali dell’anziano, quindi di guidarlo verso la forma assistenziale più idonea.
Il POA, nella descrizione della rete dei servizi, individua diverse strutture, alcune delle quali sono una realtà consolidata, mentre altre rappresentano una novità. Tali strutture sono: l’Unità geriatrica per acuti (destinata ad anziani fragili, con problematiche mediche acute e complesse, con grave comorbilità, sindromi geriatriche, disabilità instabile); il Day hospital geriatrico (collocato all’interno dell’ospedale per acuti come sezione dell’Unità geriatrica per acuti e il cui ruolo è quello di garantire al paziente tutte le funzioni proprie dell’ospedale, in regime di elezione, previa visita di ammissione da parte dell’UVG); l’Unità di post-acuzie (unità operativa ospedaliera per acuti, a degenza breve, cui confluiscono pazienti da tutti i reparti per acuti che non possono essere dimessi a domicilio). Accanto alle strutture per acuti ci sono i servizi territoriali, individuati dalla rete dei servizi come la risposta più adeguata alle problematiche di cronicità degli anziani. Essi si distinguono in domiciliari, semiresidenziali e residenziali, si differenziano per l’intensità assistenziale che forniscono e sono rappresentati da: Assistenza domiciliare integrata (ADI; un insieme di attività mediche, infermieristiche, riabilitative, socioassistenziali fornite a domicilio, in base al programma personalizzato indicato dall’UVG); Spedalizzazione domiciliare (SD; effettuazione al domicilio del malato di interventi diagnostici e terapeutici normalmente attuati in ospedale – tra gli interventi di assistenza extraospedaliera, è quello a più alto contenuto sanitario); Centro diurno (struttura semiresidenziale che offre assistenza e attua programmi di riabilitazione e socializzazione – si tratta per lo più di centri per malati di Alzheimer, nati per dare sollievo alle famiglie impegnate nell’assistenza); Strutture residenziali (hanno il compito di fornire, accanto a un servizio sanitario di varia intensità, anche prestazioni alberghiere).
La realtà italiana, però, presenta una rete assai fragile, ancora lontana dal sistema funzionale ed efficiente previsto dal POA. Nel panorama attuale è soprattutto la famiglia, quando presente, a sostenere il carico assistenziale, che può raggiungere livelli veramente devastanti. I servizi della rete italiana presentano infatti alcuni punti deboli: l’assistenza domiciliare integrata in realtà fornisce interventi parcellari e discontinui; i servizi riabilitativi sono insufficienti; le strutture residenziali sono un’entità non ben definita, chiamata con nomi diversi a seconda del contesto locale; le strutture non presentano un collegamento funzionale, rendendo impossibile l’attuazione sistematica e continua di un piano assistenziale personalizzato; molto spesso non è il geriatra ad accompagnare l’anziano nel percorso assistenziale, ma operatori senza una specifica formazione e l’UVG riveste di frequente solo la funzione burocratica di allocare l’anziano nei vari servizi, senza una reale responsabilità di gestione continuativa del caso. Questo confuso quadro organizzativo, inoltre, si presenta sul territorio in modo disomogeneo, a causa della diversità demografica e socioeconomica tra le varie regioni. Non a caso, secondo un’indagine del Censis condotta nel 2004 (CENSIS, Analisi comparativa dei principali servizi per gli anziani non autosufficienti, 2005, http://www.ministerosalute.it/ resources/static/news/ 734/indagine_anziani_fragili. pdf, 29 marzo 2010), il 75,1% degli anziani italiani, in caso di malattia o invalidità, riceve aiuto dai figli, il 41,6% dal coniuge/convivente, il 20,6% da altri parenti e il 4,1% dai vicini. Solo l’1% degli intervistati in caso di necessità riceve aiuto dai servizi sanitari territoriali e lo 0,8% dai servizi sociali. Si tratta di un carico assistenziale che le famiglie faranno sempre più fatica a sopportare, soprattutto alla luce del rapido incremento previsto per i prossimi trent’anni del numero di non autosufficienti, ma nello stesso tempo anche per l’evoluzione dei nuclei familiari (meno figli, meno matrimoni, aumento dei nuclei monocomponenti) che sta modificando in modo progressivo il tessuto sociale.
Teorie sull’invecchiamento
Da un punto di vista biologico l’invecchiamento è comunemente definito come l’insieme di vari cambiamenti nocivi che avvengono nelle cellule e nei tessuti con l’avanzare dell’età, responsabili di un aumento del rischio di malattia e morte. L’osservazione che la maggioranza degli animali viventi in un ambiente naturale raramente invecchia (perché muore prima per fattori ambientali o patologie) suggerisce che l’invecchiamento sia un fenomeno che interessa unicamente la specie umana. In altre parole, il miglioramento delle condizioni di vita, in particolare delle condizioni igieniche e dell’alimentazione, accompagnato dai progressi scientifici della biomedicina, ha permesso alla specie umana di scoprire il processo dell’invecchiamento, un processo per il quale teleologicamente non era programmata. L’attesa di vita è definita come la media del numero totale di anni che un essere umano può aspettarsi di vivere. Invece, la durata massima della vita (ciò che gli anglosassoni definiscono come maximum life span) è il massimo numero di anni che un uomo può vivere. Mentre la durata massima della vita sostanzialmente negli ultimi 100.000 anni è rimasta uguale a 125 anni, l’aspettativa di vita è aumentata in maniera sensibile, come già osservato. Sulla base di questa premessa, è importante sottolineare che uno dei principali studiosi della biogerontologia e dell’invecchiamento, Leonard Hayflick, ha stimato che la scoperta del trattamento delle più importanti cause di morte nell’età avanzata (per es., malattie cardiovascolari, ictus, neoplasie) potrebbe determinare un aumento di soli 15 anni dell’aspettativa di vita. Quindi, anche in questa ipotetica condizione, la specie umana non diventerà comunque immortale, ma sarà in grado solo di sperimentare la morte in assenza di malattia.
Prima di esaminare i fattori biologici che si ipotizza siano alla base dell’invecchiamento, è cruciale sottolineare che l’invecchiamento non è una malattia e l’idea che esso richieda una cura è basata sulla convinzione che non è desiderabile diventare anziani. Negli ultimi anni, l’invecchiamento ha acquisito una connotazione negativa ed è diventato sinonimo di deterioramento, malattia e morte. In questo contesto ha avuto molto sviluppo nei primi anni del 21° sec. la cosiddetta anti-aging medicine, una tipologia di ricerca scientifica e di medicina finalizzata a fermare o invertire un processo biologicamente inevitabile quale quello dell’invecchiamento. Questo tipo di medicina è contrapposto alla geriatria tradizionale, che vede la vecchiaia come una fase della vita umana, al pari dell’infanzia, della gioventù e dell’età adulta. La medicina geriatrica tradizionale non è finalizzata ad allungare in maniera indefinita la vita umana, bensì a garantire una buona qualità della vita o una vita attiva alle persone anziane, tramite la prevenzione e il trattamento delle patologie che frequentemente si sviluppano in età avanzata.
In questo paragrafo sono riportate alcune delle più conosciute e moderne teorie sui meccanismi che portano all’invecchiamento, per es., la teoria dei radicali liberi, la teoria mitocondriale, la teoria dell’infiammazione e la teoria immunologica. Queste teorie, sviluppate tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., sono oggetto di continui studi e sperimentazioni che ne testano la validità. Molte di esse spiegano un particolare processo o un singolo fattore che può portare all’invecchiamento, ma difficilmente possono spiegare tale fase della vita nella sua interezza. Per questa ragione attualmente gli scienziati preferiscono una visione più globale di tali teorie; e la ricerca di una singola causa di invecchiamento (un singolo gene o il declino nella funzione di un organo) è stata sostituita recentemente dalla visione dell’invecchiamento come un processo estremamente complesso, multifattoriale, in cui probabilmente entrano varie concause e in cui le diverse teorie si fondono. Di fatto, è molto probabile che numerosi processi interagiscano simultaneamente e operino su differenti livelli dell’organizzazione dell’organismo. Quindi le teorie sull’invecchiamento non si escludono a vicenda, ma dovrebbero essere considerate piuttosto come complementari per spiegare alcune o tutte le caratteristiche del normale processo di invecchiamento.
Teoria dei radicali liberi
La teoria dei radicali liberi ipotizza che l’accumularsi di radicali endogeni dell’ossigeno generati nelle cellule, processo influenzabile da fattori genetici e ambientali, potrebbe essere responsabile dell’invecchiamento e della morte cellulare in tutti gli esseri viventi. Uno squilibrio tra la produzione dei radicali liberi e le difese antiossidanti, con una conseguente maggiore produzione dei primi, porta a stress ossidativo responsabile dell’invecchiamento. La fondatezza della teoria circa il ruolo dei radicali liberi nel processo dell’invecchiamento è confermata dalla presenza in tutti gli organismi aerobi di un enzima, la superossidodismutasi, addetto all’eliminazione degli anioni superossidi e, in particolare, dei radicali dell’ossigeno. L’accumularsi di questi radicali comporta un danno cellulare indiscriminato a carico di DNA (DeoxyriboNucleic Acid), proteine e lipidi che può avere come risultato l’invecchiamento cellulare.
È stato inoltre osservato un aumento della durata massima della vita nelle specie di Drosophila melanogaster transgenica che esprimono in quantità superiore alla norma la superossidodismutasi. Ciò suggerisce che gli enzimi deputati all’eliminazione dei radicali liberi sono, da soli, sufficienti a influenzare i processi di invecchiamento. In modo simile è stata dimostrata un’estensione della durata della vita in modelli di Caenorhabditis elegans attraverso l’uso di molecole che mimano l’azione della superossidodismutasi.
L’identificazione dei radicali liberi come promotori del processo di invecchiamento dovrebbe implicare che gli interventi finalizzati a limitarne la produzione o a facilitarne l’eliminazione siano in grado di rallentare l’invecchiamento e la genesi delle patologie a esso associate. Anche se la somministrazione di antiossidanti è vista con crescente attenzione ed è sempre più comune nei Paesi occidentali, manca una chiara evidenza a sostegno dell’utilizzo di queste sostanze nell’uomo. Di fatto, nonostante qualche studio epidemiologico abbia suggerito che l’integrazione dietetica con vitamina E, una molecola ad azione antiossidante, diminuisce il rischio di cancro e di malattia cardiovascolare, tali osservazioni non sono state confermate. Quindi, l’effetto delle sostanze antiossidanti (in particolare, appunto, la vitamina E perché la più studiata) sui processi di invecchiamento negli uomini rimane incerto.
Teoria mitocondriale
Nelle cellule dei mammiferi, i mitocondri e il nucleo sono gli unici organelli che contengono DNA, all’integrità del quale è ovviamente strettamente legata quella fisiologica delle cellule. Anche se il DNA mitocondriale comprende solo l’1-3% del materiale genetico complessivo nelle cellule animali, il suo contributo alla fisiologia cellulare sembra essere molto maggiore rispetto a quello che ci si aspetterebbe considerando unicamente le sue dimensioni. Nei mitocondri l’acido desossiribonucleico, vicino ai siti di produzione dei radicali dell’ossigeno, può risentire più facilmente dei danni causati dai radicali dell’ossigeno. Di fatto è stato stimato che il livello di ossidazione delle basi che compongono il DNA mitocondriale è da 10 a 20 volte più alto rispetto a quello del DNA nucleare. La teoria mitocondriale dell’invecchiamento è spesso considerata come estensione e raffinamento della teoria dei radicali liberi. Le mutazioni nel DNA mitocondriale si accumulano progressivamente durante la vita e sono direttamente responsabili di un difetto in un processo che dipende dal mitocondrio, la fosforilazione ossidativa, determinando così un’aumentata produzione di specie reattive dell’ossigeno (radicali dell’ossigeno). Questo causa un aumento del danno del DNA mitocondriale e delle mutazioni che lo riguardano, innestando una sorta di ‘circolo vizioso’ che comporta un aumento esponenziale del danno ossidativo e quindi dell’invecchiamento cellulare.
Teoria dei telomeri
La teoria sull’invecchiamento cellulare formulata da Hayflick si basa sull’evidenza che le cellule umane in coltura sono in grado di replicarsi un numero limitato di volte. Questo limite si verifica dopo un preciso numero di divisioni cellulari e porta alla generazione di cellule incapaci di replicarsi e con alterazioni strutturali. I telomeri sono sequenze di DNA localizzate alle estremità terminali dei cromosomi. Negli uomini, alla nascita, i telomeri sono composti da sequenze nucleotidiche TTAGGG reiterate in coppia per più di 15 chilobasi; successivamente, nel corso della vita dell’individuo, essi subiscono un accorciamento progressivo. I telomeri sono sintetizzati dalla telomerasi, enzima che mantiene la lunghezza dei cromosomi aggiungendo le sequenze ripetute dei telomeri, e hanno la funzione di stabilizzare le estremità dei cromosomi. La perdita o lo scarso funzionamento dell’enzima telomerasi porta alla perdita dei telomeri e del loro ruolo di protezione e stabilizzazione delle estremità dei cromosomi, con conseguenti fenomeni di alterazioni cromosomiche, quali traslocazioni e fusioni, oppure al riarrangiamento fra regioni del DNA. Pertanto, la telomerasi è di considerevole interesse ai fini dello studio dei processi di invecchiamento, e si ritiene che la sua espressione sia necessaria per rendere immortali le cellule, mentre, al contrario, la sua assenza possa costituire una base fondamentale per l’invecchiamento cellulare. In questo contesto è interessante notare che le cellule immortali generalmente hanno una lunghezza di telomeri stabile, mentre quelle mortali hanno telomeri che si accorciano progressivamente a ogni divisione cellulare. Infatti, cellule immortali specializzate (come, per es., cellule staminali, cellule germinali e linfociti T) esprimono la telomerasi e mantengono la lunghezza dei telomeri oppure hanno un accorciamento ridotto. Inoltre la telomerasi è iperfunzionante nell’85-95% dei casi in cellule tumorali che non mostrano perdita di lunghezza dei telomeri, suggerendo che la stabilità di questi ultimi sia necessaria alle cellule per evitare l’invecchiamento replicativo e per proliferare indefinitamente.
Nelle cellule differenziate, a ogni divisione cellulare una piccola parte di DNA è persa alla fine di ogni cromosoma, portando a un progressivo accorciamento dei telomeri e in ultimo al blocco della replicazione cellulare. Questo progressivo accorciamento inizia subito dopo il concepimento, con il procedere della differenziazione cellulare.
Inoltre, a conferma del ruolo rivestito dai telomeri nei processi dell’invecchiamento, è stato dimostrato che le loro disfunzioni sono responsabili di alcune progerie, ossia patologie caratterizzate da un invecchiamento prematuro.Nella sindrome di Werner, per es., una tra le progerie più studiate, è presente la mutazione della proteina DNA elicasi, necessaria per la replicazione efficiente e per la stabilità dei telomeri. Di conseguenza, come si verifica nel caso dell’invecchiamento prematuro, i telomeri potrebbero essere, almeno parzialmente, responsabili del normale invecchiamento umano.
Teoria dell’infiammazione
Anche se la presenza del processo infiammatorio in diverse condizioni cliniche (per es., l’aterosclerosi, il diabete, la demenza) è ben dimostrata, l’importanza dell’infiammazione nel processo di invecchiamento è stata riconosciuta solo recentemente. L’infiammazione è considerata una pietra angolare del meccanismo responsabile dell’invecchiamento, tanto che recentemente è stato coniato il neologismo inflamm-aging. L’infiammazione è una complessa reazione di difesa che normalmente si instaura in conseguenza di fattori di stress fisiologici e non fisiologici. È stata ipotizzata una soglia individuale nella capacità di fare fronte agli stress. Se l’infiammazione eccede questo livello, avviene la transizione verso l’invecchiamento cellulare. L’effetto dell’infiammazione sull’invecchiamento è strettamente mediato dal danno ossidativo. Infatti, la sovrapproduzione e/o il rilascio incontrollato delle specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto sono molto elevati nel corso di processi infiammatori.
Teoria immunologica
La teoria immunologica suggerisce che il normale processo d’invecchiamento nell’uomo e negli animali sia correlato a processi immunologici. La risposta immunitaria subisce con l’invecchiamento una progressiva riduzione dovuta a diversi fattori. Innanzi tutto, dopo la pubertà, il timo (un organo situato dietro allo sterno) si riduce a una piccola massa di tessuto atrofico. Ne consegue una progressiva perdita dell’efficienza dell’immunità cellulo-mediata, dovuta ai linfociti T (T da timo). Inoltre, con l’invecchiamento si verificano anche fenomeni involutivi del midollo osseo, della milza e delle linfoghiandole; infine, si riduce il numero di alcune cellule, implicate nei meccanismi immunitari, quali i macrofagi e i neutrofili, e soprattutto le cellule citotossiche K (Killer) e NK (Natural Killer). I primi due fenomeni portano all’aumento dei processi infettivi e alle loro complicanze, mentre con il terzo si incrementa l’incidenza di alcuni tumori nell’anziano. In tale contesto, è stato recentemente suggerito che i soggetti anziani che mantengono le proprie funzioni immunitarie a un livello eccezionalmente alto sono coloro che più probabilmente avranno una lunga durata di vita.
Teoria neuroendocrina
Secondo la teoria neuroendocrina l’invecchiamento è una conseguenza di alcuni cambiamenti delle funzioni nervose ed endocrine, coinvolgenti selettivamente i neuroni e gli ormoni che regolano, dal punto di vista evoluzionistico, la riproduzione, la crescita, lo sviluppo e la sopravvivenza attraverso adattamento allo stress. La durata della vita sarebbe regolata da un orologio biologico, ossia da fasi sequenziali determinate da segnali nervosi ed endocrini. Tale orologio potrebbe essere scombussolato da alterazioni del sistema nervoso e/o endocrino (per es., ridotta sensibilità agli stimoli che regolano l’orologio biologico, eccessiva o insufficiente coordinazione delle risposte).
La teoria neuroendocrina è stata recentemente avallata da dati che dimostrano come una via ancestrale dell’insulina controlli le risposte allo stress e la longevità nel nematode Caenorhabditis elegans. Mutazioni di una serie di geni in questa via portano ad aumentata longevità. In Caenorhabditis elegans questi geni costituiscono un primordiale sistema neuroendocrino in cui il peptide insulina/IGF-1 (Insulin-like Growth Factor-1) integra informazioni sullo stress ambientale, monitorando lo stato metabolico e riproduttivo, al fine di permettere aggiustamenti energetici appropriati e allungare la durata della vita. Pertanto, tale sistema ha la capacità non solo di coordinare ciò che si verifica in ogni cellula e tessuto, ma anche di evitare disorganizzazione nelle risposte allo stress.
Restrizione calorica
Un capitolo importante nei processi che portano all’invecchiamento è rappresentato dalla restrizione calorica, la sola causa non genetica che ha mostrato di rallentare la velocità intrinseca di invecchiamento nei mammiferi. Questa restrizione è stata definita come la riduzione nell’apporto di calorie, mantenendo però costanti i nutrienti necessari. Tradizionalmente, i modelli animali sperimentali di restrizione calorica riducono di circa il 40% l’apporto di calorie. Una tale riduzione è in grado di aumentare di circa il 30-40% la durata di vita massima.
È probabile che la restrizione calorica possa ottenere effetti benefici agendo a vari livelli e determinando una serie di cambiamenti molecolari, cellulari e sistemici. In particolare, è stato osservato che un ridotto apporto calorico determina un miglioramento delle risposte metaboliche (per es., aumenta la sensibilità dei tessuti all’insulina), neuroendocrine e immunitarie (per es., aumentano le difese contro gli stress, le infezioni, le neoplasie) e del collagene. È verosimile che tali cambiamenti possano essere legati a cambiamenti nel profilo di espressione dei geni. Anche se gli effetti a breve termine sugli esseri umani sono promettenti, studi a lungo termine sono comprensibilmente difficili da condurre. Infatti, la scarsità di dati ottenuti con gli esseri umani è principalmente dovuta alle notevoli difficoltà di aderire a interventi rigorosi di restrizione calorica e alla lunghezza della vita umana, che impone un periodo di osservazione molto prolungato.
Il risultato più famoso in merito agli effetti della restrizione calorica sulla salute umana è stato ottenuto dagli esperimenti Biosphere 2, uno spazio ecologico chiuso localizzato nel deserto dell’Arizona. Nel 1991, otto persone entrarono in una biosfera per un periodo di due anni allo scopo di studiare gli effetti del vivere in un sistema chiuso. A causa di problemi tecnici inaspettati, l’accesso al cibo fu limitato per l’intera durata dello studio, così che il reale apporto calorico dei partecipanti era approssimativamente del 30% più basso di quello previsto. Le modificazioni fisiologiche sperimentate dai partecipanti di Biosphere 2 sono state simili a quelle riscontrate nella restrizione calorica nei modelli animali: abbassamento della velocità del metabolismo, della temperatura corporea e della pressione arteriosa sistolica e diastolica, abbassamento della glicemia, dell’insulina oltre che del livello di ormoni tiroidei.
Un altro esempio rilevante è quello della popolazione dell’isola giapponese di Okinawa. È stato dimostrato che tale popolazione è caratterizzata da ridotta morbilità e mortalità, nonché dalla più grande percentuale di anziani rispetto alla popolazione mondiale. È stato ipotizzato che la lunga aspettativa di vita libera da disabilità di questa popolazione sia dovuta alla dieta basata su vegetali, grano, soia, frutta, pesce e alghe marine, e caratterizzata da un basso apporto calorico (circa il 20% in meno rispetto al resto del Giappone e circa il 40% in meno rispetto agli Stati Uniti).
Teoria del network di difesa
Claudio Franceschi, professore di immunologia presso l’Università di Bologna, ha proposto nel 2000 la teoria del network di difesa, in cui ha suggerito che l’invecchiamento sia indirettamente controllato da una rete di meccanismi di difesa cellulari e molecolari. La maggior parte della rete di comunicazione è costituita da enzimi di riparazione del DNA, meccanismi antiossidanti (per es., superossidodismutasi, catalasi, perossidasi glutatione) e di altro tipo, strettamente integrati e interconnessi tra loro, che hanno la funzione di limitare gli effetti negativi dei fattori di stress fisici, chimici e biologici. L’efficienza di questa rete di difesa è geneticamente controllata e differisce tra le varie specie e individui, spiegando in questo modo le differenze osservate nella durata della vita. Il fallimento di questi meccanismi di difesa avrebbe come risultato un’incapacità della cellula a mantenere la propria omeostasi (il proprio equilibrio) e porterebbe pertanto a una sua incapacità a replicarsi e quindi alla morte cellulare. A questa teoria va certamente il merito di cercare di unificare le varie teorie dell’invecchiamento finora presentate, che, come già indicato, da sole non sarebbero sufficienti a spiegare questo fenomeno.
In conclusione è possibile affermare che, in particolare nei primi anni del 21° sec., sono stati fatti diversi e importanti progressi nella comprensione del processo di invecchiamento, cosicché questo non costituisce più un’oscura questione biologica. Comunque, risultano ancora necessari ulteriori studi e numerose questioni restano in attesa di una soluzione. In particolare, è importante chiarire fino a che punto e a che prezzo il processo di invecchiamento può essere limitato o invertito. Nel cercare una soluzione a queste questioni, bisogna tenere in mente ciò che ha scritto Hayflick, secondo il quale se il principale scopo della ricerca biomedica è l’allungamento della vita, ogni persona anziana diviene un testimone di tale successo. La medicina, sempre secondo Hayflick, ha inoltre l’obbligo di sottolineare come l’obiettivo della ricerca sull’invecchiamento non sia quello di aumentare semplicemente la longevità umana, quanto piuttosto di favorire la longevità attiva libera dalla disabilità e dalla dipendenza funzionale.
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