INVECCHIAMENTO CEREBRALE.
– Capacità del cervello. Encefalo e senescenza. Invecchiamento cerebrale normale e patologico. Bibliografia.
L’i. c. inizia, paradossalmente, in giovane età. Lo sviluppo del sistema nervoso prende avvio verso la terza settimana di vita embrionale, con la comparsa della placca neurale, da cui hanno origine i neuroni e le cellule gliali di supporto, e procede ben oltre la nascita. Mentre la proliferazione e la migrazione dei neuroni appaiono sostanzialmente concluse alla nascita, prosegue nella vita postnatale, fino all’adolescenza, l’espansione dei dendriti e delle sinapsi, accompagnata da un continuo rimodellamento dei circuiti e dall’eliminazione dei neuroni e delle sinapsi ridondanti. Lo sviluppo si conclude con la mielinizzazione dei fasci, che inizia nel midollo verso il 4°-5° mese di vita fetale e si conclude, per i fasci associativi intracorticali, nella seconda decade di vita. L’encefalo raggiunge il pieno sviluppo verso i 20-25 anni, e i test di misurazione dell’intelligenza, che per quanto imperfetti e discussi sono un indice significativo della maturazione e della tenuta dell’encefalo nel tempo, mostrano il massimo rendimento fra i 20 e i 25 anni.
Capacità del cervello. – Per comprendere ciò che l’encefalo può perdere nella senescenza è necessario conoscere quel che accumula nel corso dell’esistenza. L’intelligenza, intesa come la capacità di risolvere i problemi, dipende dalla dotazione congenita e dalle esperienze vitali, soprattutto dei primi anni. Seguendo Raymond Cattell si possono considerare due aspetti: l’intelligenza fluida, costituita dal ragionamento logico nell’affrontare problemi nuovi, e l’intelligenza cristallizzata, che consiste nell’organizzazione razionale delle conoscenze e delle esperienze acquisite. I tratti di carattere sono i requisiti emotivi congeniti, che vengono plasmati dalle esperienze affettive dei primi anni di vita, dalle relazioni con i genitori (la madre soprattutto), con il nucleo familiare o con le strutture sociali alternative alla famiglia. Intelligenza e carattere costituiscono i due pilastri su cui vengono edificati il patrimonio cognitivo e lo sviluppo della personalità. Il patrimonio cognitivo dipende dalla memoria, funzione delle aree temporoippocampali dei due emisferi, che consente di accumulare e rievocare quanto viene appreso, e dal progressivo sviluppo delle funzioni simboliche, sostenute dalla maturazione della corteccia parietotemporale soprattutto nell’emisfero sinistro (sono le gnosie, capacità di riconoscere e classificare gli oggetti; le prassie, capacità di organizzare i movimenti; e le fasie, capacità di comprendere e produrre il linguaggio). Lo sviluppo della personalità passa attraverso l’elaborazione dei vissuti affettivi, principalmente a opera della corteccia temporale mediale e limbica, e la maturazione delle funzioni esecutive, ossia della capacità di prendere decisioni e di scegliere i comportamenti, prevalentemente a opera della corteccia frontale anteriore dei due emisferi. I fasci associativi sottocorticali, che concludono verso i 20 anni l’acquisizione delle guaine mieliniche, sono le strade attraverso cui le varie aree della corteccia stabiliscono relazioni; i gangli della base (e per le funzioni motorie il cervelletto) forniscono i circuiti riverberanti che consolidano i processi di apprendimento. La specificazione delle differenti strutture neurali trova ragione nella selettiva compromissione e nell’impronta che esse conferiscono al processo demenziale.
La discussione fra quanto sia dotazione congenita e quanto apprendimento («nature or nurture?») percorre la storia della cultura umana. Le doti congenite, sia intellettive sia di carattere, sono in larga parte ereditarie. L’apprendimento, teoricamente più controllabile, dipende inizialmente dalle strutture familiari; continua nella scuola e nella società (strumenti di comunicazione, relazioni interpersonali, gioco, sport, esperienze di lavoro). Famiglia e strutture sociali propongono modelli di comportamento rigidi e difficili da modificare; solo la scuola può offrire conoscenze e orientamenti differenti e aperti alla discussione, e mettere in campo la plasticità necessaria per indirizzare lo sviluppo culturale, processo essenziale i cui esiti si prolungano nella senescenza. L’apporto culturale nel primo decennio di vita (anche il semplice apprendimento di una seconda lingua) condiziona il numero delle sinapsi e la ricchezza dei circuiti neuronali con i quali si affronta l’inevitabile deterioramento connesso alla senescenza, che avviene per l’encefalo come per tutte le strutture dell’organismo. Un dato emerge in tutte le culture e contesti sociali: la scolarizzazione nei primi anni di vita aumenta il margine di sicurezza e ritarda l’inizio del deterioramento mentale (Murray, Staff, McNeil et al. 2011).
Encefalo e senescenza. – L’organismo umano viene da una lunga fase evolutiva, che parte dagli ominidi, circa 6 milioni di anni fa, e prosegue con i diversi tipi del genere Homo, fino all’Homo sapiens, circa 150.000 anni fa. L’evoluzione agisce sullo sviluppo umano, come di tutti gli esseri viventi, fino all’età riproduttiva, che per il genere Homo si estende fino ai 20-30 anni, periodo di massima fertilità della donna. Dopo tale epoca le modificazioni e gli eventi ambientali non intervengono più sul processo di selezione naturale. La natura perciò ci ha predisposti a raggiungere e a migliorare il corredo genetico fino all’età fertile, dopo la quale ci abbandona agli eventi casuali senza elaborare strategie per ridurre il deterioramento tardivo.
Il progredire delle cultura umana (alimentazione, igiene e conoscenze mediche), consentendo il controllo di molte malattie ed eventi patologici e riducendo drasticamente la mortalità infantile, ha spostato in avanti la durata della vita media, fino agli attuali 60-80 anni della società tecnologica. I cambiamenti maggiori sono avvenuti nelle ultime 4-6 generazioni, a confronto delle circa 6000 generazioni che si sono succedute negli ultimi 150.000 anni. Ma fino a ora la tecnologia non è stata capace di bloccare il processo di senescenza cellulare: l’organismo umano declina come quello di tutti gli esseri biologici, e l’encefalo declina come il resto dell’organismo. A partire dai 20 anni circa l’encefalo inizia a perdere peso, in maniera misurabile a partire dai 50-60 anni, senza che questo significhi una perdita di efficienza mentale. Inizia a declinare l’intelligenza fluida, ma le possibilità offerte dall’accumulo di esperienze, che vanno sotto il nome di intelligenza cristallizzata, consentono di rimediare, e di spostare considerevolmente l’inizio del declino intellettivo, che nella società tecnologica si può porre mediamente fra i 60 e gli 80 anni, con un’ampia fluttuazione individuale e sociale.
Le modificazioni della massa encefalica nell’invecchiamento si possono valutare agevolmente con la risonanza magnetica (cfr. Cappa, Perani 1999). Fra i 59 e gli 85 anni, in un gruppo di anziani non dementi, la perdita media di volume encefalico è stata di 5,4 cm3/anno (2,4 per la sostanza grigia, 3,1 per la bianca), con un incremento comparabile degli spazi liquorali (Resnick, Pham, Kraut et al. 2003). La risonanza mostra anche una dilatazione degli spazi di Virchow-Robin posti attorno ai vasi encefalici, un incremento della deposizione di ferro nei gangli della base e nel nucleo rosso, un aumento di densità della glia periventricolare sotto forma di bande e cerchi, e la presenza di focigliotici nella sostanza bianca profonda. I corrispettivi istologici nella sostanza bianca sono rarefazione della mielina, perdita neuronale, aumento della glia astrocitaria; la causa consiste in alterazioni della permeabilità vasale e in un danno microangiopatico (Fazekas, Schmidt, Scheltens 1998).
La riduzione volumetrica dell’encefalo, maggiore per la sostanza bianca, è provocata da una perdita neuronale per un processo di morte cellulare programmata o apoptosi. Il patrimonio di partenza si usa collocare in 100 miliardi di neuroni, cifra del tutto approssimativa, che include neuroni e cellule gliali (in numero maggiore dei neuroni) e cellule poco influenti sui processi intellettivi come i neuroni del cervelletto, che costituiscono peraltro più del 60% di tutto il patrimonio neuronale encefalico. Il depauperamento cellulare è molto settoriale, e riguarda soprattutto alcune strutture come l’ippocampo e la corteccia prefrontale. Nel giro dentato dell’ippocampo la perdita neuronale a 85 anni può arrivare al 30% e si accompagna a un assottigliamento della corteccia. La perdita è irrimediabile poiché la rigenerazione dei neuroni è limitata a zone molto ristrette, come il bulbo olfattorio, la zona subventricolare dei ventricoli laterali e il giro dentato dell’ippocampo, e quindi con un impatto clinico pressoché nullo. Tuttavia, la scoperta che anche nell’adulto si trovano in queste zone cellule staminali neurali pluripotenti ha riaperto l’argomento, dominato fino ai tempi recenti dall’affermazione di Santiago Ramón y Cajal che i neuroni centrali non rigenerano.
Le modificazioni cellulari vanno oltre la pura perdita neuronale (cfr. Cristini, Rizzi, Zago 2005). Sono state osservate riduzione delle spine e delle espansioni dendriti che dei neuroni, riduzione e minore efficienza delle sinapsi, disregolazione dei segnali cellulari mediati dal calcio, alterazioni dell’espressione di alcuni geni e in definitiva compromissione della plasticità neuronale (Burke, Barnes 2006); inoltre, è descritta la diminuzione della sintesi di neurotrasmettitori, in particolare di dopamina e recettori dopaminergici (Iyo, Yamasaki 1993). A livelli ancora più basali si osserva danno ossidativo dei costituenti proteici e lipidici cellulari, accorciamento dei telomeri e incremento delle rotture del doppio filamento di DNA per minore efficienza dei processi di riparazione (Lu, Pan, Kao et al. 2004). Modificazioni di aspetto maggiormente patologico sono gli ammassi neurofibrillari (accumuli intracellulari di filamenti che circondano il nucleo, contenenti proteina tau, espressione terminale della degenerazione del citoscheletro), limitati o prevalenti nella corteccia paraippocampale, entorinale e nell’amigdala; e le placche amiloidi (accumuli di detriti extracellulari formati prevalentemente da proteina amiloide). Ammassi neurofibrillari e placche amiloidi identificano la demenza di Alzheimer, e la presenza di queste formazioni in circa l’80% dei cervelli di soggetti normali all’età di 89 anni (osservata da Jack, Wiste, Weigand et al. 2014), rende molto fluttuante la distinzione fra senescenza normale e patologica. È chiaro che il numero fa la differenza, che peraltro da qualitativa diventa quantitativa. Ammassi neurofibrillari e placche amiloidi sono l’espressione più evidente del cambiamento di conformazione (misfolding) delle proteine cellulari che inizia a comparire nella senescenza fisiologica e che sottende la patologia neurodegenerativa.
Sul piano neuropsicologico, ossia quando si misura in pratica l’efficienza mentale, numerosi aspetti identificano l’encefalo senile normale. Le funzioni esecutive, cioè la capacità di scelta fra comportamenti differenti, che nei test psicometrici vengono misurate con prestazioni estremamente semplificate, ma assai indicative (come battere due volte il dito sul tavolo quando l’esaminatore batte una volta e viceversa), mostrano una ridotta rapidità decisionale e quindi una ridotta flessibilità mentale. L’attenzione, intesa come capacità di scelta selettiva fra le informazioni in arrivo, è ostacolata dall’indebolimento sensoriale della vista e dell’udito. Invariata sembra essere la capacità di orientamento nello spazio, con qualche incertezza nei contesti spaziali meno noti, per es. guidando l’auto in quartieri poco frequentati. La memoria è sicuramente compromessa, e la comune lagnanza è spesso la perdita dei nomi, soprattutto dei nomi propri («mi ricordo perfettamente la faccia, ma come si chiama?»: un attore, ma anche un conoscente). È giusto ricordare che si tratta dei ricordi meno legati a fatti concreti: i nomi sono per definizione arbitrari e senza alcun rapporto con la presenza fisica. Le funzioni neuropsicologiche superiori (gnosie, prassie e fasie) si mantengono invariate. L’intelligenza, che abbiamo sopra differenziato in fluida e cristallizzata, cambia i requisiti. L’intelligenza fluida diminuisce e nel classificare e ordinare una serie di disegni geometrici senza significato, come le matrici progressive del test di Raven o i simboli grafici del test Wisconsin, vi sono difficoltà rispetto a un cervello giovanile; mentre l’intelligenza cristallizzata, che sfrutta il cumulo di esperienze immagazzinate, non mostra cadute e per non pochi aspetti appare migliorata. È la famosa saggezza, che rende gli anziani utili nelle comunità stanziali; assai meno in culture a rapida evoluzione come l’attuale, condizione che il rapido progresso dell’informatica mette senza riguardo in evidenza (il nonno racconta la favola, ma il nipotino ha già visto sul computer la trasformazione animata del ranocchio in principe azzurro).
Invecchiamento cerebrale normale e patologico. – Poiché le differenze strutturali non forniscono una base solida e indiscutibile, è proprio dall’efficienza mentale che si gioca la differenza fra i. c. normale e patologico. Ogni clinico sa che i dati forniti dalla risonanza magnetica, tranne i gradi estremi di atrofia temporale (dilatazione della scissura silviana e del corno temporale dei ventricoli), non sono trasferibili nella diagnosi clinica se non si conosce il soggetto: se non si ascolta come riferisce la sua storia, se non si osserva come si muove, come gesticola, come aggiunge emotività ai suoi resoconti, come segue e come risponde alle investigazioni dell’esaminatore. È la visita clinica, non molto differente da quella di Ippocrate, che permette di concludere se il soggetto è un anziano normale o un anziano che si sta avviando verso una sindrome demenziale. Ma non sempre il quadro clinico è dirimente; e anche i test mentali, estensione strutturata dell’esame clinico, possono lasciare dei dubbi, evidenziati dall’elaborazione, relativamente recente, del concetto di deterioramento cognitivo lieve (mild cognitive impairment, MCI). Questo è costituito dalla somma delle piccole incertezze neuropsicologiche sopra illustrate: disturbi soggettivi della memoria, incertezze ed errori nella rievocazione di nomi propri, attenzione meno pronta, interessi meno vivaci, minore elasticità mentale, ma conservazione dell’efficienza nella vita quotidiana, e mancanza di ogni disturbo simbolico. È un quadro molto utilizzato nella ricerca clinica, con l’idea di selezionare, per gli studi di prevenzione, i soggetti maggiormente a rischio.
Il soggetto anziano normale, con tutta la sua saggezza, mostra quindi delle cadute di rendimento rispetto a un giovane e a un adulto normali. Certamente nell’attività fisica non è competitivo, anche se vi sono anziani ‘super’ che concludono le maratone. L’attività mentale è comparativamente molto più stabile e resistente: la competitività di atleti perfettamente sani si esaurisce fra i 25 e i 35 anni, mentre la normalità cognitiva, anche se richiede una nuova taratura oltre i 60-80 anni, resta, in assenza di malattie, ampiamente normale anche dopo questa età (non abbiamo però, a differenza delle prestazioni atletiche, misurazioni esatte di rendimento, e la ‘saggezza’ bene utilizzata consente numerose scappatoie, vietate a chi dipende dal cronometro). Il dubbio se la condizione di deterioramento cognitivo lieve sia un aspetto relativamente stabile inerente all’età o sia la fase iniziale di una patologia demenziale evolutiva trova spesso chiarimento solo nell’osservazione longitudinale, a distanza di tre, sei o talora dodici mesi.
Il concetto di evoluzione introduce quello di prevenzione: che cosa può essere fatto per evitare o per stabilizzare una condizione morbosa evolutiva? Fermare l’evoluzione della patologia demenziale è possibile solo quando una causa sicuramente responsabile può essere rimossa: alcol e altre sostanze, idrocefalo, carenza di tiamina, meningiti croniche, stato di male epilettico confusionale (che può durare per settimane e trarre in inganno). Non avviene per ora in alcuna demenza neurodegenerativa. La domanda perciò va diversamente posta: che cosa si può fare per evitare o ritardare il deterioramento senile? In questi termini le risposte sono meno pessimistiche: qualcosa si può fare, ma bisogna cominciare prestissimo. L’istruzione innanzi tutto: la scolarizzazione diminuisce il rischio di demenza neurodegenerativa (Gatz, Svedberg, Pedersen et al. 2001). L’esercizio in secondo luogo: fisico, per mantenere attivo il sistema cardiocircolatorio e rifornire di ossigeno i neuroni; mentale, per mantenere i neuroni in attività, dalla lettura alla soluzione di rebus e di parole crociate, a giochi di carte meditativi come il bridge, agli scacchi (anche se è più importante esercitare il cervello in età infantile). L’alimentazione è un’altra possibile area di intervento; la dieta mediterranea, ora molto valorizzata, sembra essere efficace per lo meno nella prevenzione delle patologie cardiovascolari. Lo stile di vita fa parte delle scelte non censurabili dell’individuo: l’abuso di sostanze è evidentemente dannoso, ma anche la velocità è una droga, responsabile dei frequenti danni traumatici dell’encefalo.
Da ricordare che quando il processo neurodegenerativo demenziale inizia, la progressione è inarrestabile, e inoltre che le patologie dementigene (v. anche neurodegenerative, malattie) sono molte, ben oltre le forme neurodegenerative e vascolari: traumi cranici (una causa molto frequente), carenze vitaminiche, ipotiroidismo, sclerosi multipla avanzata, neurolue e altre infezioni croniche, encefalopatia multifocale da virus JC ( John Cunningham), intossicazioni da metalli pesanti e droghe, masse occupanti spazio e idrocefalo, encefalite limbica (e la lista non è esaurita).
Bibliografia: M. Iyo, T. Yamasaki, The detection of age-related decrease of dopamine, D1, D2 and serotonin 5-HT2 receptorsin living human brain, «Progress in neuro-psycopharmacology & biological psychiatry», 1993, 17, 3, pp. 415-21; F. Fazekas, R. Schmidt, P. Scheltens, Pathophysiologic mechanisms in the development of age-related white matter changes of the brain, «Dementia and geriatric cognitive disorders», 1998, 9, suppl. 1, pp. 2-5; S.F. Cappa, D. Perani, Metodi di neuroimmagine nell’invecchiamento cerebrale normale e patologico, in Neuropsicologia cognitiva dell’invecchiamento, a cura di T.M. Sgaramella, Milano 1999; M. Gatz, P. Svedberg, N.L. Pedersen et al., Education and the risk of Alzheimer’s disease: findings from the study of dementia in Swedish twins, «The journal of gerontology. Series B, Psychological sciences and social sciences», 2001, 56, 5, pp. 292-300; S.M. Resnick, D.L. Pham, M.A. Kraut et al., Longitudinal magnetic resonance imaging studies of older adults: a shrinking brain, «The journal of neuroscience», 2003, 23, 8, pp. 3295-3301; T. Lu, Y. Pan, S.Y. Kao et al., Gene regulation and DNA damage in the ageing human brain, «Nature», 2004, 429, 6994, pp. 883-91; C. Cristini, R. Rizzi, S. Zago, La vecchiaia fra salute e malattia, Bologna 2005; S.N. Burke, C.A. Barnes, Neural plasticity in the ageing brain, «Nature reviews neuroscience», 2006, 7, 1, pp. 30-40; A.D. Murray, R.T. Staff, C.J. McNeil et al., The balance between cognitive reserve and brain imaging biomarkers of cerebrovascular and Alzheimer’s disease, «Brain», 2011, 134, pp. 3687-96; C.R. Jack Jr, H.J. Wiste, S.D. Weigand et al., Age-specific pop ulation frequencies of cerebral β-amyloidosis and neurodegeneration among people with normal cognitive function aged 50–89 years: a cross-sectional study, «The lancet. Neurology», 2014, 13, 10, pp. 997-1005.