Introduzione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Parlare dell’arte della Grecia non è per noi come parlare dell’arte di una qualunque altra civiltà del mondo antico. Nessun’altra cultura figurativa del passato ha la stessa importanza per la cultura occidentale (e forse per quella di tutto il mondo moderno). Per secoli in essa si identificò la bellezza artistica in assoluto, e questo anche prima di conoscerne le testimonianze originali. Fidia e Policleto per la scultura, Apelle per la pittura sono esaltati già nel Medioevo solo per i giudizi che se ne leggono negli autori antichi (Cicerone, Vitruvio, Plinio il Vecchio, Quintiliano ecc). Più tardi si credette di conoscere l’arte greca attraverso le opere ritrovate a Roma, senza capire che si trattava nella stragrande maggioranza di copie o imitazioni di età romana e non degli originali dei maestri greci. L’età neoclassica fonda la sua estetica su questo equivoco di fondo (complice il gusto classicistico delle fonti letterarie antiche), identificando la supposta perfezione dell’arte greca con la fredda levigatezza delle repliche allora note. Quando, agli inizi dell’Ottocento, arrivano nei musei europei i primi grandi originali dalla Grecia, l’impatto è sconcertante. I marmi fidiaci del Partenone portati a Londra da Lord Elgin nel 1812 sono inizialmente screditati e rigettati come lavori mediocri proprio da coloro che esaltavano Fidia come il più grande scultore di ogni tempo e se ne erano immaginata l’arte secondo i pregiudizi neoclassici – va detto però che il più grande artista neoclassico, Canova, ne riconosce subito il valore.
Le scoperte succedutesi da allora in Grecia, in Italia meridionale, in Turchia e nelle altre aree del Mediterraneo toccate dalla civiltà greca consentono oggi di avere un quadro più completo dello svolgimento storico dell’arte greca. Non si ipostatizza più come valore assoluto il periodo classico (V e IV sec. a.C.) né si isola arbitrariamente la Grecia dalle altre culture figurative del mondo antico. Ma anche se non si condivide più l’entusiastica ammirazione che ancora verso la metà del secolo scorso faceva parlare Waldemar Deonna di “miracolo greco”, è innegabile che quella dell’antica Grecia resta una delle culture artistiche più alte e dal significato più universale nella storia dell’umanità.
Vanno chiariti però alcuni tratti caratterizzanti denunciando innanzi tutto un paradosso: i Greci, la cui arte è stata oggetto di ininterrotta ammirazione e in certi momenti perfino di venerazione, non ebbero un’arte.
Nella lingua greca, infatti, non esiste un termine specifico per indicare quello che noi intendiamo con questa parola: il vocabolo techne – che convenzionalmente traduciamo con “arte” – designa in realtà ogni tipo di pratica volta a conseguire un risultato che non sia frutto spontaneo della physis, che non si produca cioè da solo, in virtù di un processo naturale e senza intervento da parte dell’uomo. Techne è pertanto tutto ciò che richiede un saper fare, una perizia tecnica abbinata all’osservanza di precise regole. La parola deriva dalla radice indoeuropea *tek(s) – (“congiungere, adattare”) che riporta a quell’attitudine combinatoria che ritroviamo anche nella radice ar – da cui viene il latino ars, termine applicato anch’esso genericamente a qualunque mestiere. Mai si arriva in Grecia alla categorizzazione di un’Arte con la A maiuscola: esistono tante arti quante sono le specializzazioni artigianali, senza distinzione tra maggiori e minori (che del resto è ignota anche al Medioevo e si è prodotta soltanto a partire dalla seconda metà del Cinquecento).
Artisti e artigiani Anche coloro che eccellono in quelle che noi chiamiamo le “belle arti” sono technitai: sostanzialmente artigiani che con le proprie mani plasmano l’argilla, fondono il bronzo, scolpiscono la pietra, triturano i minerali per farne colori. E se è vero che nella figura del primo mitico artista, Dedalo, si può leggere l’ammirato stupore – comune a tutte le culture arcaiche – per il misterioso potere creativo dell’artigiano-mago, per quella particolare sintesi di intelligenza e di scaltrezza che i Greci chiamano metis, è anche vero che prima dell’età classica l’artista, per quanto di successo e ben remunerato, è omologato di fatto ad un operaio che vende il proprio lavoro, e quindi si colloca a un gradino non molto alto della scala sociale. Nei suoi confronti ci sono dei pregiudizi ideologici: l’artista-artigiano non lavora la terra, lo si può sospettare di non difendere, in caso di guerra, il suolo della polis con lo stesso ardore dei proprietari terrieri, grandi o piccoli; anzi, dovendosi spesso spostare alla ricerca della committenza, non è particolarmente legato a nessuna polis; non ha troppo tempo per le relazioni sociali e la politica. Anche di Efesto, l’artigiano divino, gli dèi ammirano i lavori ma ridono di lui e lo tengono a distanza. Tuttavia va sottolineato che, mentre nelle società dell’antico Oriente gli artisti restano anonimi, quelli greci, quale che sia il loro status sociale, firmano le loro opere. Nella reggia persiana di Susa è stata trovata un’iscrizione che celebra la grandiosa costruzione. Vi si parla di artigiani chiamati da ogni angolo dell’impero, ma non è riportato un solo nome. L’unico nome che compare è quello del Gran Re Dario, che in prima persona si attribuisce ogni merito. In Grecia è diverso. Non solo gli artisti firmano le loro opere, ma anche i tagliapietre, come attestano alcune iscrizioni di cava.
Più tardi, in età classica, le cose cambiano. Dai documenti epigrafici sappiamo che effettivamente gli scultori sono retribuiti a giornata, ma i programmi decorativi e i modelli (paradeigmata) sono pagati indipendentemente dai giorni di lavoro e dal numero dei pezzi. Alla prestazione intellettuale, al lavoro creativo compete dunque una particolare remunerazione, che si accompagna a una più alta considerazione sociale. Per difendersi da certi attacchi di cui era fatto oggetto, l’oratore e uomo politico ateniese Isocrate scrive (De permut., 2): “I miei avversari vanno dicendo che in fondo io sono solo uno scribacchino, ma è come se si dicesse che Fidia era un figurinaio (koropláthon) o che Zeusi e Parrasio facevano lo stesso mestiere di quelli che dipingono gli ex voto (tà pinákia)”. Ciò dimostra che alla metà del IV secolo a.C. lo status dell’artista dipende dal livello a cui esercita la propria téchne e che i maestri creatori godono di una considerazione incomparabilmente più alta del semplice artigiano. In ogni caso non si arriva mai in Grecia a concepire “l’arte per l’arte”; l’artista non opera per appagare un bisogno interiore ma per rispettare un contratto con un committente o per venire incontro alla domanda del mercato. La produzione di un qualunque oggetto artistico non prescinde mai dalla fruizione di esso, dal pubblico a cui è destinato, dal contesto sociale e culturale da cui deriva il suo significato. Fino a tutta l’età classica, l’arte è radicata nella polis, vale a dire in una comunità in cui tutto viene deciso in discussioni fra pari (face to face) e non viene imposto – come in Egitto e negli imperi del Vicino Oriente – dal sovrano o da una casta sacerdotale. Conseguentemente, le opere a carattere monumentale sono commissionate dalla comunità, pagate col denaro pubblico ed esposte in spazi pubblici (l’agorà, il tempio, il santuario ecc.) o comunque fruite in contesti di socializzazione istituzionali (il simposio, la festa, i riti religiosi).
L’arte figurativa dei Greci ruota intorno a pochi ambiti tematici: l’uomo, gli animali, il mito, il rito. Fino alla fine dell’età classica la natura – con l’eccezione dei motivi vegetali usati come elementi decorativi – vi ha un ruolo decisamente marginale, e la rappresentazione del paesaggio e degli ambienti è sempre ridotta a pochi elementi essenziali, più allusivi che descrittivi. Solo in età ellenistica, e principalmente ad Alessandria, ci sarà un maggiore interesse per questi aspetti. Non c’è dubbio che il tema privilegiato è quello della figura umana. Sparita col tramonto delle civiltà minoica e micenea, la figura umana ricompare nel repertorio figurativo greco intorno alla fine del IX secolo a.C., nel periodo del cosiddetto Geometrico Medio, e da allora resta costantemente presente.
Primi e unici fra i popoli antichi, i Greci pongono l’uomo – e la divinità antropomorfa – al centro di tutta la loro elaborazione artistica, ne fanno la matrice di tutto il loro immaginario. Ciò avviene perché l’intera cultura greca è costruita in funzione dei valori corporei. Come giustamente osserva l’archeologo tedesco Tonio Hölscher (1940-), “l’arte figurativa greca è un’arte di corpi”. La persona si identifica col proprio corpo. Il corpo manifesta le qualità dell’individuo, non solo quelle fisiche ma anche quelle etiche, ed è lo strumento che ne traduce le potenzialità in azioni efficaci.
E se il corpo è così importante, non stupisce che l’arte greca scelga di rappresentarlo, fin dai suoi primordi, nella forma più esplicita: il nudo. Se dovessimo giudicare dalle loro statue e dalle loro pitture vascolari, dovremmo pensare che i Greci – o almeno gli uomini greci – andassero abitualmente nudi nella vita di tutti i giorni. Non è così, naturalmente. La verità è che la nudità è indossata dai Greci come un costume, per usare un’espressione coniata dallo storico dell’arte inglese Kenneth Clark, quando vogliono autorappresentarsi in immagini artistiche. Nella visione idealizzante di Winckelmann, il nudo è per i Greci un mezzo per trascendere il contingente e svincolare la figura umana dal tempo e dallo spazio. In una prospettiva più antropologica, il nudo appare piuttosto il mezzo per rappresentare adeguatamente il cittadino eccellente dentro e fuori, kalòs kagathós, ma nel lessico socio-politico greco gli agathoí (“i buoni”) sono i migliori per nascita, quelli che si distinguono dai kakoí (“i cattivi”), di bassa estrazione. Kalós (“bello”) può essere dunque solo il corpo nudo del giovane cittadino maschio “bennato” che gli esercizi del ginnasio hanno preparato alle gare atletiche e/o alla guerra (due campi in cui si manifesta la stessa mentalità agonale che il grande storico svizzero Jakob Burckhardt considera caratterizzante della civiltà greca). I Greci sono inoltre consapevoli che il proprio atteggiamento verso il nudo li fa “diversi” dai barbari (categoria che comprende qualunque altro popolo eccetto il loro), e ne sono orgogliosi. Diverso è il discorso per le donne, che per il loro ruolo di spose e madri di famiglia sono di norma raffigurate vestite. Anche le dee sono raffigurate vestite (il primo artista a raffigurarne una nuda sarà Prassitele, con la sua Afrodite Cnidia, alla metà del IV secolo a.C.), benché le forme femminili siano spesso rivelate in modo eloquente da abiti molto aderenti o dal cosiddetto “panneggio bagnato”.
La storia dell’arte greca si può in buona misura identificare con la ricerca di come di rendere il corpo umano nel modo più consono alla cultura dei differenti momenti storici. L’epoca neoclassica e poi la cultura di matrice idealistica del primo Ottocento ritennero che l’arte greca fosse riuscita a vestire di forme ideali l’essenza trascendente del mondo fenomenico, e per questo la considerarono un modello ineguagliabile. Ormai da tempo, però – anche grazie alla migliore conoscenza della produzione artistica dell’arcaismo e dell’ellenismo – si è capito che questa visione è il frutto di un equivoco: ciò che distingue quella greca da tutte le civiltà artistiche che l’hanno preceduta nel bacino del Mediterraneo è, al contrario, il suo profondo, potente realismo, che si manifesta in tutti i periodi, incluso quello propriamente classico.
Anche nella civiltà egiziana e in quelle dell’antico Oriente si trovano rappresentazioni realistiche, ma sono limitate a determinati temi narrativi. I Greci – scrive Bianchi Bandinelli “vollero, invece, affrontare in pieno la traduzione della forma di natura in forma d’arte, senza limitazione di temi o di situazioni, ivi compresa la figura della divinità [...]. Perché i Greci affrontarono questa prova? Essa non è che un aspetto, coerente agli altri, della civiltà particolare che i Greci andarono costruendo, nella quale, a differenza di ogni altra civiltà precedente, per una lucidità logica che spinge alla indagine razionale della natura [...], l’uomo è posto a misura dell’universo [...]. Perciò noi possiamo parlare per la prima volta, per i Greci, di una concezione “umanistica” della vita, della cultura, della scienza, dell’arte”. È pur vero tuttavia – come osserva Hölscher – che nell’arte greca i soggetti non sono rappresentati come si offrono all’occhio, ma nelle forme e con gli elementi considerati significativi per il tema e per l’evento. È più corretto perciò parlare di realismo “concettuale”.
In ogni caso, alla base del realismo greco sta la nozione – centrale per l’estetica classica – di mimesis. Il termine è comunemente tradotto con “imitazione”, ma il suo significato reale non è tanto quello di copia, di rifacimento meccanico e statico, “fotografico” del reale, bensì quello di ri-produzione di esso, in senso dinamico: è la riattualizzazione del vivente in forme atte a significare e a comunicare. Quando questa parola e altre ad essa imparentate compaiono, nel V secolo a.C., sono associate alle arti della mousiké (la musica, la danza e la poesia) ossia a quelle arti che attuano la mimesis mediante l’esecuzione, la performance che avvince e convince l’ascoltatore dandogli la sensazione della verità. È appunto in questo senso che la nozione di mímesis sta a fondamento anche delle arti visive. Del resto, già Simonide, col suo famoso paragone tra la poesia e la pittura, assimilava queste arti in virtù della capacità rappresentativa comune ad entrambe. Ora, il compendio di tutte le tecniche illusionistiche messe in campo dalla mimesis (poesia, musica e danza) si ha notoriamente nella tragedia, il genere di spettacolo drammatico che si afferma appunto nel V secolo a.C. Non è certo un caso che l’accelerazione verso il naturalismo nella resa della figura, quel fenomeno che Ernst Gombrich definisce “il grande risveglio” (the great awakening) dell’arte greca, sia stato compiuto dalla generazione di Eschilo, così come non è un caso che negli stessi anni ai vecchi termini per indicare l’immagine artificiosa (xoanon, áagalma, kolossos) si aggiunga il nuovo termine eikon (da cui il nostro “icona” e i suoi derivati). Nelle realizzazioni artistiche più antiche la componente magico-simbolica è ancora prevalente rispetto alla rappresentazione realistica ed esse rimangono in realtà più sul versante della significazione che su quello della riproduzione dell’apparenza; mentre eikón – il termine deriva da una radice che vuol dire “paragonare”, “assomigliare” – sta a indicare l’immagine artistica compiutamente mimetica perché realistica, “iconica” nel senso di Charles Sanders Peirce, ovvero di un segno che rinvia al suo referente non in maniera simbolica, né tanto meno arbitraria, ma in virtù di una somiglianza che le conferisce verità.
L’esattezza anatomica e lo studio accurato delle proporzioni su basi matematiche, che gli artisti greci perseguono fin dall’arcaismo maturo e realizzano compiutamente intorno alla metà del V secolo a.C., sono gli strumenti fondamentali con cui la mimesis arriva a quella costruzione organica delle forme umane nello spazio che è la grande conquista dell’arte classica, quella che esercita su di noi il fascino maggiore. Il referente è sempre il corpo umano, ma attraverso l’esatta proporzione delle parti si scopre una somiglianza più profonda, tangibile, commensurabile tra l’uomo e il principio razionale che tutto governa. L’immagine prodotta dall’arte si fa icona dell’armonia del cosmo.
A questa conquista epocale ne vanno aggiunte altre, non meno importanti per l’evoluzione dell’arte occidentale: la prospettiva; la linea plastica (o funzionale), che riesce a dare volume alle figure mentre ne delinea il contorno; il colore tonale.
La mimesis non si esplica solo nella dimensione spaziale ma anche in quella temporale. I Greci furono interessati da sempre a raccontare delle storie (alle radici della loro civiltà c’è l’epos omerico) e le arti visive offrono un campo di sperimentazione sconfinato, dove la mimesis arriva a riprodurre una narrazione non solo con le immagini – per esempio con delle metope templari che mostrano in successione le imprese di un dio o di un eroe – ma anche nelle immagini: condensando cioè in maniera sinottica, all’interno di una singola scena, elementi che alludono al prima e al dopo di una storia.
Gli artisti greci si mostrano capaci di riassumere lo svolgimento della fabula anche solo cogliendo le figure in quello che Lessing chiamerà “il momento fecondo”, ossia in una postura eloquente che comunica il senso del tutto. È quanto realizza, per esempio, Mirone nel gruppo di Atena e Marsia, dove le pose (schémata) in cui è “congelato” il movimento dei due protagonisti compendiano l’intera storia. Ciò naturalmente è possibile perché l’artista attinge a un’enciclopedia condivisa con lo spettatore: quella del mito, che costituisce il principale serbatoio dell’immaginario collettivo. Il mito – formidabile asse portante della cultura greca – ha origine nella sfera dell’oralità, che precede non solo la scrittura ma anche la figura. I racconti vengono poi continuamente attualizzati nel rito e tradotti in immagini nei templi della città, nelle loro metope e nei loro frontoni, nelle statue di culto, e sono le immagini del mito a dare forma non solo ai valori ma anche alla storia. Lo scontro con le popolazioni indigene del mondo coloniale e poi quello epocale con i Persiani sono gli eventi storici che più contribuiscono alla formazione di un’identità nazionale greca. Ebbene, gli antagonisti dei Greci prendono nel loro immaginario, e quindi nei monumenti figurati, delle forme mitiche che rappresentano delle devianze rispetto ai valori riconosciuti. Ora sono quei Giganti ferini contro cui combattono gli dèi dell’Olimpo, ora i mostri e i banditi annientati da Eracle, ora gli ibridi Centauri di cieca ferocia riportati all’ubbidienza da Apollo, ora le Amazzoni, espressione di un mondo alla rovescia, vinte da Teseo.
Ma c’è di più: gli schemata, in quanto formule iconografiche pertinenti a un codice culturale comune tra artisti e pubblico, non esprimono solo un racconto in potenza ma rendono anche manifeste l’indole (ethos) e le emozioni (pathos) dei personaggi rappresentati, come Senofonte fa affermare al grande pittore Parrasio nel corso di una conversazione con Socrate (Memor., 3, 10, 1 ss.). Ciò che alla fine del V secolo a.C. suona come una recente conquista, matura a piena consapevolezza espressiva nei grandi maestri del secolo successivo (Skopas in testa). A parte qualche enfasi manieristica dell’età ellenistica, va riconosciuto che il naturalismo “mimetico” dell’arte greca ha saputo trovare un eccezionale equilibrio tra razionalità, intuizione ed espressione del sentimento.
Ciò comporta anche qualche rinuncia: la proiezione nella figura umana di valori universali trattiene per esempio i Greci dallo spingersi sulla strada del ritratto fisionomico, poco compatibile con il mondo della polis. Solo verso il tramonto di quest’ultima, gli spazi pubblici si riempiono di ritratti non più tipologici ma individualizzanti – anche se spesso di ricostruzione – di grandi poeti e filosofi del passato, mentre nel nuovo mondo che sorge dopo Alessandro Magno ci sarà ampio spazio per il ritratto fisiognomico, addirittura veristico.
Il fatto che la pittura da cavalletto sia andata completamente perduta e che della scultura ci siano arrivate soprattutto le opere eseguite in marmo ha contribuito a far sopravvivere anche ai giorni nostri la falsa immagine – ereditata dall’età neoclassica – di un’arte greca in cui prevale il bianco.
In realtà anche la scultura è policroma. Le statue polimateriche, come quelle crisoelefantine (dove le parti nude sono in avorio e quelle rivestite in bronzo) sono naturalmente policrome, ma tutte le altre sculture in pietra sono rese tali con colori assai vivaci (quando ci sono restituiti da sofisticate analisi di laboratorio l’effetto è piuttosto sconcertante per il gusto moderno). Anche nelle opere in bronzo si ricerca la policromia, contrastando il colore dorato della lega (a cui spesso però era applicata una vera e propria doratura) con quello rossiccio del rame usato per i capezzoli, le labbra, le ferite; con quello più luminoso dell’argento usato per la dentatura; con quelli assortiti delle paste vitree e dell’avorio inseriti nelle cavità oculari.
Da secoli i Greci condizionano il nostro modo di vedere il mondo. Dobbiamo sforzarci però di comprendere come davvero lo vedevano loro.