Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il primato della Francia
Nel campo della arti figurative è in atto un fenomeno di assestamento. È cambiata la prospettiva che regolava la percezione del secolo, scandito finora da una serie di landmarks, di pietre miliari, tutte rigorosamente francesi, dal Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David che cade ancora nel Settecento (1784) ma inaugura il nuovo corso della pittura, alla Zattera di Jean-Louis-Théodore Géricault, al Déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet fino alle Demoiselles d’Avignon (1907) di Picasso, che chiudono trionfalmente questo tracciato francocentrico.
Certo esistevano anche Turner e Goya, Blake, Schinkel e Friedrich, la Scuola architettonica di Chicago, Pugin, Böcklin, van Gogh, ma l’autorità di Parigi ha impedito a lungo una reale internazionalizzazione dell’arte dell’Ottocento. Che è stata letta in funzione del suo contributo alle avanguardie storiche del XX secolo, in scena – come si sa – nel gran teatro di Francia.
Contro questo Ottocento portato alle stelle in quanto “profetico” di modernità, e contro una scala di valori fissata in base al tasso di audacia nell’anticipare ciò che sarebbe più tardi accaduto (non a caso in area francese) si sono levati alcuni libri recenti.
Nel solco di molti studi parziali Modern Painting and the Northern Romantic Tradition: Fredrich to Rothko (1975) di Robert Rosenblum rappresenta il tentativo affascinante di spostare il baricentro della nostra cultura, recuperando la storia carsica di quei pittori del Nord che, nel secolo ormai laicizzato, cercarono di reintrodurre il trascendente e il divino attraverso il vettore dell’arte romantica.
Questo rovesciamento di prospettiva nasce dall’esigenza di riscattare esperienze cruciali a lungo confinate nella marginalità.
Come era prevedibile, la nuova strada non fa scalo a Parigi. La sfida infatti è rileggere l’Ottocento da postazioni diverse, abbandonando l’osservatorio privilegiato francese. C’è in tutto questo una dose notevole di provocazione, alimentata dalla ribellione alla superpotenza mercantile francese che, con una efficientissima rete di gallerie, ha imposto il prodotto nazionale nel mondo.
Ma c’è anche, nella reazione di una critica ancora recente, il riconoscimento del valore fondante che alcuni studi hanno avuto per generazioni, da Les peintres modernes di Lionello Venturi ai volumi di John Rewald sul secondo Ottocento a Parigi. Studi che hanno portato mattoni essenziali alla costruzione del primato francese.
Il processo di revisione, che stiamo vivendo in questi anni, mette in discussione non tanto una politica imperialista attribuita alla Francia, quanto un sistema di valori fondato su icone e individui che non sembrano interagire con gli eventi della storia.
Accanto alle “glorie” saldamente installate nel Pantheon dell’arte, l’Ottocento infatti ci ha consegnato acquisizioni importanti. Esse sono alla base di una mutazione così radicale nell’estetica e nel pensiero da lasciare un’impronta nel secolo nuovo. Il quale, nonostante la linea di confine segnata dall’Esposizione universale del 1900, risulta essere per molti aspetti una filiazione del XIX secolo, se pure imprevedibile e avventurosa.
Nel passare a indicazioni concrete, cioè a una lista minimale e aperta delle “conquiste” del secolo, dobbiamo ricordare che, nella società entro cui tutto accade, la classe media svolge un ruolo sempre più rilevante. Anche nel settore dell’arte, dove il peso tangibile della borghesia attribuisce ai fenomeni artistici una risonanza prima di allora sconosciuta.
Uno spazio fluttuante e illimite
L’invenzione di uno spazio non più definito dalla scatola prospettica brunelleschiana, la raffigurazione di uno spazio ambiguo e illimite, nell’Inghilterra di Turner e nella Germania di Friedrich, segnano una cesura definitiva nei confronti della civiltà umanistica che esprimeva invece la padronanza della coscienza dell’universo.
In termini figurativi, la prospettiva fiorentina, che costituiva lo strumento per governare otticamente (e intellettualmente) il mondo, ne era il simbolo più pregnante. Tutto questo viene messo in discussione dall’Ottocento romantico prima che dalle avanguardie francesi e dal manifesto cubista.
Il monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich, allo sguardo contemporaneo del grande drammaturgo Heinrich Kleist, appare come “il solitario punto centrale di un cerchio solitario [...] quando lo si guarda è come se ai propri occhi fossero state asportate le palpebre”.
Quel dipinto non era più dunque, nella divisione convenzionale dei generi, una marina di tradizione olandese, scandita dalla prospettiva. Inizialmente, per un attimo, forse lo era anche stata: i raggi X hanno rivelato barchette e vascelli dipinti sul mare, che Friedrich ha subito cancellato, spalancando l’orizzonte a 360 gradi. Senza più quinte ad arginare lo spazio illusorio del quadro il paesaggio si propaga all’infinito, oltre i limiti segnati dalla cornice.
Mentre la sua forte connotazione simbolica esprime quella spiritualità e senso del divino che non coincidono più con la religione di sempre, ma che Friedrich aspira a recuperare attraverso il soprannaturale e l’arcano: “Il Divino è ovunque, anche in un granello di sabbia. Una volta io l’ho raffigurato in un canneto”.
Una diversa percezione dello spazio cosmico, a vortice e circolare, è anche alla base del sensazionalismo di Turner: “arcobaleno che ‘sfonda’ la conca dei monti o nembo che insidia la grandezza degli eroi; stella isolata nel cielo o vascello che lotta nella tempesta; locomotiva in velocità o mostro marino all’alba” come afferma Francesco Arcangeli. L’immagine di questi fenomeni è sbalzata a distanze infinite che neutralizzano la certezza, consegnataci dal Rinascimento, di un mondo conoscibile, non magmatico.
Scienza, tecnologia, produzione artistica
Il rapporto fra produzione artistica e il suo consumo è in questo secolo molto dinamico, mentre i confini dello specifico artistico si fanno sempre più labili.
Scienza e tecnologia interagiscono nel campo dell’arte. Gli effetti sono dirompenti in primo luogo nell’architettura che, con paradosso rivoluzionario, è ormai “l’architettura degli ingegneri”. Un’architettura che, senza rinunciare alla realizzazione di edifici altamente rappresentativi, introduce un sistema di progettazione fondato su procedimenti ingegneristici: materiali nuovissimi e utilitari (ghisa, vetro, ferro, cemento, conglomerati plastici), elementi seriali e prefabbricati che comportano una diversa organizzazione del cantiere, abbattimento dei costi e dei tempi di lavorazione, sviluppo accelerato nell’applicazione di tecniche matematiche (calcolo dei carichi e delle spinte, ottimizzazione nell’impiego dei materiali, calcolo e resistenza delle strutture). E una attitudine sperimentale che sollecita soluzioni formali spericolate e inedite.
Dal Palazzo di Cristallo per l’Esposizione universale di Londra del 1851, alla selva di edifici a sviluppo verticale resi possibili dall’invenzione dell’ascensore idraulico (i grattacieli del New England e Chicago), ai 300 metri del traliccio metallico costituito dalla Tour Eiffel (1889), il processo di consacrazione dei tecnici appare inarrestabile. Funzionalità ed esigenze rappresentative risultano a tal punto integrate che la Tour Eiffel può permettersi di rappresentare nient’altro che l’emblema della propria funzionalità, monumento della Parigi moderna a una struttura avveniristica, “a giorno”.
La società paleoindustriale italiana – nota il critico Giulio Carlo Argan – si rispecchia invece, nello stesso giro di anni nella mole incombente del Monumento a Vittorio Emanuele II di Giuseppe Sacconi, ambizioso prodotto di un’architettura a dir poco retrospettiva e glaciale.
Nei centri culturalmente avanzati, il pericolo della ripetitività e dell’omologazione implicite nelle unità modulari di base su cui si fonda l’architettura moderna è contrastato dalle folate di creatività che le nuove tecniche sanno attivare.
Analogamente, l’invenzione della fotografia (il dagherrotipo nel 1837, poi il collodio su lastra di vetro) diventa un fattore scatenante di mutazioni sul piano della percezione e su quello correlato degli orientamenti pittorici.
Da un lato gli artisti, da Courbet a Delacroix a Degas a Toulouse-Lautrec non esitano a servirsi della fotografia quale strumento insuperato di reportage, dall’altro, tallonati dal mezzo meccanico in termini di resa oggettiva, estremizzano l’interpretazione della realtà puntando il cannocchiale verso l’interno e verso una caratterizzazione accentuata dell’io (simbolismo, espressionismo).
Le cose in realtà sono ancora più complesse, se davvero l’invenzione della fotografia è stata culturalmente “prevista” – e preparata nei tagli, nelle inquadrature, nella messa a fuoco ravvicinata – da una tradizione pittorica di nobile origine, che ha radici nel Settecento.
Sullo sfondo di uno sviluppo scientifico e industriale che non conosce battute d’arresto, sono tantissime le intersezioni fra l’arte e la scienza: la scoperta dell’inconscio e degli enigmi figurativi di Böcklin o Redon; la formulazione delle leggi dell’ottica e l’esaltazione della luce nelle tele abbacinanti degli impressionisti o nei colori fondamentali del divisionista Seurat, il cui termine di riferimento è il ciclo cromatico di Chevreul; i traguardi raggiunti dai procedimenti della stampa e il trionfo del design, dell’illustrazione, della nascente pubblicità.
Cambiano intanto lo status sociale e il mobilissimo identikit dell’artista: in una commistione profonda fra l’arte e la vita, venata di pessimismo, l’artista è esteta, dandy, flâneur; o invece propositivo, sperimentale e fortemente engagé quando l’idea di un’arte d’élite viene erosa alla base dalla dilatazione di campo che comporta l’assunzione di nuove tecniche.
La “scuola nativa” americana
Il XIX secolo, caratterizzato in Europa dalle rinascite nazionali, rivendica sul piano dell’arte un orgoglio patriottico che spegne per sempre i sogni universalistici dell’età dei Lumi.
A contrastare l’idea di un’arte al di sopra delle nazioni (il cui sacrario vorrebbe essere il Musée Napoléon di Parigi), il Congresso di Vienna sancisce la restituzione dei capolavori razziati dalle armate francesi, ripristina le sedi d’origine delle collezioni e dà libero corso alla celebrazione delle diverse identità nazionali all’insegna di riscoperte e revival (il medioevo, l’esotico, il passato “primitivo” e gaelico) e di una tematica nazionalista (per l’Italia, l’apice è rappresentato dall’epopea del Risorgimento nei soggetti militari di Giovanni Fattori).
È in questo contesto che la giovane pittura d’oltreoceano si esprime per la prima volta con un linguaggio autoctono, solo in parte influenzato dal paradigma dominante europeo.
Sono gli intrepidi esploratori del Paradiso inviolato nord-americano, i pittori di frontiera della Hudson River School.
Nasce con loro la mitologia di una natura vergine e maestosa, abitata dalla divinità.
Dalla valle dell’Hudson alle terre del Labrador agli scenari dell’Ovest, la sacralità della wilderness del nuovo continente, teatro dei racconti di Washington Irving, diventa lo specchio dell’identità nazionale, il segno di un destino alto e “inevitabile”, di una missione leggendaria e forse impossibile: salvaguardare civiltà e natura, progresso e incanto dell’Eden a fronte dello sfruttamento capitalistico del territorio, della saturazione accelerata degli spazi, della nascita incontrollata delle metropoli, della perdita del senso del divino nel mondo.
Una sfida destinata a segnare molte ricerche portanti del Novecento.