Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel suo momento più alto la civiltà figurativa del Quattrocento ha due polarità preminenti, Firenze e le Fiandre, e due visioni del mondo che dialogano, interagiscono ed elaborano un pensiero culturale che investe la Spagna e la Francia e il mondo d’Occidente, nell’ambito di un Rinascimento che parla una lingua europea. “Rinascimento” come recupero di valori e di modelli di un grande passato, che lo storico svizzero Jacob Burckhardt selezionò e ricompose nel volume La civiltà del Rinascimento in Italia (1860). Quello studio è all’origine della moderna riflessione sul mito del Rinascimento e sull’immagine programmatica che il Quattrocento ha voluto dare di sé, un’immagine polemicamente ribelle e insieme innovatrice, dove la rinascita ideale è posta sotto il segno di un ritorno all’antichità (Eugenio Garin, Introduzione a J. Burckhardt , La civiltà del Rinascimento in Italia , 1955).
Firenze, lo spazio prospettico
È nella città di Firenze che, ad apertura di secolo, si attua il punto di svolta. Per le arti figurative, esso presuppone un’attitudine razionale e scientifica nella resa prospettica dello spazio e dei corpi e, dunque, l’introduzione di un metodo matematico per la rappresentazione, su due dimensioni, dello spazio tridimensionale.
Insieme all’applicazione delle leggi della geometria euclidea, la nuova visione prospettica, sperimentata da Brunelleschi e teorizzata da Leon Battista Alberti, introduce il principio del rapporto armonico e proporzionale fra le parti e il tutto, in nome di una concezione antropomorfica dell’universo, in cui l’uomo è assunto a misura delle cose.
È ovvio che tutto questo si gioca nella persistenza di un’altissima civiltà antagonista tardo-gotica e nella realtà di intrecci culturali che non consentono periodizzazioni schematiche.
Contrario ai parallelismi forzati con i diagrammi della storia (politica, economica, sociale), un grande storico dell’arte, Federico Zeri, poneva invece una domanda paradossale e provocatoria, chiedendosi brutalmente “Il Rinascimento, quanto dura?”. Per concludere poi, nel suo modo di ragionare spiazzante, ma molto vicino alla verità, che a Firenze nel 1430 tutto, di quello che è il cuore del pensiero rinascimentale, era già stato formulato ed espresso: “allo scadere dell’anno ’30, Filippo Brunelleschi e Donatello avevano già prodotto i testi più significativi, Masaccio era già morto…morto era già stato indicato tutto ciò su cui, nei decenni successivi, si eserciterà la rielaborazione, l’innesto, la variazione tematica” (Federico Zeri, “Premessa”, in La Pittura in Italia. Il Quattrocento, 1987).
In altre parole, è su quel ceppo iniziale di razionalità che cresceranno la visione incantata di Beato Angelico e il cromatismo aristocratico di Domenico Veneziano, le geometrie immaginarie di Paolo Uccello stregato – scriveva Ennio Flaiano – “dalla trigonometria degli spazi invisibili” (Ennio Flaiano, Paolo Uccello, 1971), e il “sublime, matematico intellettualismo di Piero della Francesca” (Zeri). Senza dimenticare, nel panorama screziato dell’arte fiorentina, le molte declinazioni del termine prospettiva, che esalta l’accordo con il dato luminoso – nella pittura di Domenico Veneziano, Paolo Uccello, Fra’ Carnevale, Andrea del Castagno, Piero della Francesca – o porta alle estreme conseguenze una vocazione illusionistica e proiettiva – Donatello, Andrea Mantegna, Melozzo da Forlì – o invece si ritrae, nel secondo Quattrocento, di fronte al disegno espressivo e antiplastico di Pollaiolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli.
Il mondo del Nord. La Francia, le Fiandre
Stiamo parlando di una cultura figurativa altissima che è soprattutto cultura di città, perché uno degli elementi unificanti della civiltà del secolo XV è la dominante urbana, l’essere la città il centro di un sistema di potere che spesso coincide con lo Stato. Accade soprattutto in Italia, dove il Rinascimento ha connotazioni diverse in rapporto ai territori geografici, ma dove comunque risaltano, accanto a Firenze, alcuni grandi centri urbani di elaborazione artistica, in primo luogo Milano e Venezia, ma anche Urbino, Padova, Mantova, Ferrara, Napoli, Genova.
Molto presto, dunque, in Italia, entro una costellazione di città-signorie, si va elaborando una concezione dello spazio fondata sulla prospettiva e su una visione strutturale e di sintesi.
Al di là delle Alpi, invece, dalla Francia alla Germania alle Fiandre, il cambiamento privilegia piuttosto la resa analitica di un microcosmo del quale si celebra la verità lenticolare e mutevole.
Spazio italiano, ambiente fiammingo di Cesare Brandi (1960); Prospettiva italiana e microcosmo fiammingo di Enrico Castelnuovo (I Maestri del Colore, n. 259, 1968) sono due titoli, fortunati, che hanno cercato di sintetizzare due mondi per poi raccontare la loro attrazione reciproca, e segnalare strategie parallele nel contrapporre alla “bellezza forestale del gotico” (Roberto Longhi), verticale ed eccessiva, un nuovo ideale rinascimentale in cui la bellezza si definisce in rapporto alla regola, al canone, in modi però profondamente diversi, che rendono ricca e complessa la storia della nuova comunità artistica europea, negli anni fra il 1440 e il 1460.
È allora che la sintesi prospettica di forma e colore (di ascendenza toscana) conquista le Fiandre, gli Stati del re d’Aragona e il Regno di Francia, dalla Provenza alla Loira.
Ma poiché la prospettiva è solo uno strumento, o meglio “una forma simbolica”, o ancora “una poetica dello spazio”, il grande artista francese Jean Fouquet – che in Italia è documentato nel quinto decennio del secolo – la utilizza per esprimere un mondo diverso da quello rigorosamente geometrico della Toscana, “recuperando nelle sue immagini la maestosa staticità delle grandi figure di pietra delle cattedrali gotiche, il loro volume, la loro pace” (Giuliano Briganti, “Jean Fouquet”, in Racconti di storia dell’arte. Dall’arte medievale al neoclassico , a cura di Luisa Laureati Briganti, 2002). In altre parole, riversando nella spazialità più moderna e prospettica (di derivazione italiana) lo stile monumentale dei costruttori francesi del Medioevo.
In questo modo, accanto al “segreto italiano”, Fouquet introduce nel Rinascimento europeo una colorazione favolosa e arcana che emerge anche nelle sue miniature: “la visione di quei castelli appena costruiti, di pietra chiara e con i pinnacoli di ardesia, cinti dall’acqua ferma e ombrosa del fossato; quelle città fitte di case che appaiono dietro le mura in mezzo alla vasta pianura coltivata, chiusa all’orizzonte da una cerchia di colline azzurre; quelle strade cittadine, di case borghesi ben costruite, con le crociere di legno appena piallato e l’intonaco ancora fresco, percorse dai cavalli ingualdrappati dei corteggi reali fra i colori araldici delle divise dei paggi e degli arcieri” (Giuliano Briganti, Ibidem).
L’Italia, la Francia e, all’interno della stessa produttiva dialettica, la polarità delle Fiandre: i grandi pittori di Bruges e di Gand, il Maestro di Flémalle (Robert Campin), Jan van Eyck, Rogier van der Weyden, la cui intensità luminosa, la nitidezza ottica e la narrazione analitica incontrano la forma astraente del Rinascimento italiano o, per usare le parole di André Chastel, la sua “analisi cristallografica dello spazio”. Fino ad attingere, con Petrus Christus nel Nord e con Antonello da Messina in Italia, quella sintesi fra le due culture che mai più toccherà quei livelli stellari.
Il prestigio dell’artista
Il secolo XV è di quelli che non si esauriscono mai perché infinite sono le angolazioni attraverso le quali leggere mutamenti e conquiste, il rapporto tra arte e umanesimo, l’incidenza del pensiero neoplatonico, la contiguità fra arte e scienza, i classici e la natura, il riscatto sociale dell’artista.
E dove l’aspetto più radicale sta forse nell’aver infranto recinti e frontiere, nell’avere riconosciuto all’artista quella funzione di esploratore nei campi separati del sapere (matematica, geometria, anatomia, ottica) che gli avrebbe permesso di “dominare, attraverso la forma organizzata, il mondo oscuro dei fenomeni” (A. Chastel, Arte e Umanesimo a Firenze, 1964).
Un artista che, al di là delle sue conoscenze tecniche specifiche, si misura con la dimensione scientifica, filosofica, umanistica delle corti signorili, accanto a letterati, poeti, filologi, matematici, filosofi. Un artista che, nel Quattrocento, è artefice di una promozione e di un prestigio mai prima di allora raggiunto.
È dunque un secolo di innovazioni e di grande, sublime poesia, che ha esercitato un’attrazione irresistibile negli anni del decadentismo europeo, da Joris-Karl Huysmans a Joséphin Péladan (personaggio esoterico dell’età simbolista) a Walter Pater a Marcel Proust, letterati che andavano in cerca non tanto della storia reale quanto di un “clima” entro cui proiettare “ricreazioni fantastiche e ardite insinuazioni di un fremito tutto moderno” (Mario Praz, “Introduzione” a W. Pater, Ritratti immaginari, 1980), ai confini con l’autobiografia, e che nella pittura di Sandro Botticelli, nelle sue Veneri pallide, sfiorate dalla malinconia, immaginavano tangenze romanzesche con il male di vivere e il senso di smarrimento della civiltà contemporanea di fine Ottocento.