Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se davvero il Novecento verrà consegnato alla storia come il secolo breve (Hobsbawm) bisognerà riconoscergli, nella compressione temporale, un dinamismo molto accentuato. E questo perché gli intrecci fra arte, politica, società hanno prodotto ribaltamenti e cancellazioni e rinascite di modelli artistici oscillanti fra la ricerca di un ordine nuovo e la fascinazione per l’irrazionale, fra l’assunzione dell’arte come strumento politico e il rigetto di ogni ideologia, fra la tensione a un’arte individuale e aristocratica o al contrario anonima e collettiva. Ciò che naturalmente mandava in pezzi l’idea di progresso lineare introdotta dal modernismo, in nome di una discontinuità altamente soggettiva.
Piuttosto che canonizzare in una sintesi riduttiva vicende non ancora sedimentate (inadatte per ora al montaggio), si è preferito – a introduzione del Novecento – segnalare alcune trame complesse che hanno accompagnato la fine del secolo, lasciando alla progressione tematica dei testi che seguono, il compito di ricostruire la mappa, provvisoria e frammentaria, dei fenomeni artistici del XX secolo.
L’esaltazione del nuovo
Nella collisione di fine Ottocento fra tradizione e novità dirompenti colava a picco l’idea di continuità nella storia: il secolo si apriva all’insegna della rottura e delle sperimentazioni più ardite in termini di linguaggio e di contenuti.
Le avanguardie – cubismo, espressionismo, futurismo, neoplasticismo, costruttivismo – alleate in un percorso di astrazione, tagliano traguardi che sembrano senza ritorno: la cancellazione del soggetto, la forma come forma assoluta, la nuova preminenza del linguaggio, la negazione del racconto, l’esilio dei sentimenti… conquiste liberatorie che sanciscono ancora una volta il primato culturale dell’Europa. Nell’arco di alcuni decenni però si verifica un capovolgimento di prospettiva sul piano della storia (il ritorno al figurativo) e della geografia, con uno spostamento del cuore culturale dall’Europa verso New York (e Los Angeles), rimesso più tardi in discussione dall’emergere della nuova polarità dell’Asia.
Il dato più appariscente – parliamo di arti figurative – è il primato riconosciuto all’architettura rispetto alle “arti sorelle” e il suo clamoroso affermarsi come arte dominante che impronta il secolo e catalizza le idee guida del Novecento.
Per riprendere il filo della storia, sono le avanguardie, in apertura di secolo, a innescare un processo di rinnovamento radicale esasperando il concetto di modernità. Gli epicentri di un fenomeno che sarà pervasivo sono inizialmente Parigi, Berlino, Dresda, Monaco, Mosca, Milano, Londra, i Paesi Bassi.
Il dato comune molto vistoso è l’assunzione della modernità come criterio di giudizio. Di conseguenza la corsa frenetica all’innovazione tende a neutralizzare quella funzione normativa ed esemplare che a lungo era stata attribuita al passato. Smaltita per così dire un’overdose di memoria storica e di legami troppo stringenti con un mondo remoto, l’ideale dell’arte subisce uno spostamento verso il futuro, che appare a quel punto molto più orientativo del passato.
Il risultato è un’arte internazionalista, senza radici e senza memoria, dotata di una lingua aniconica universale, che cancella i confini delle identità nazionali e corre sul filo di un mutamento che poi si dirà globalizzazione.
Il primato dell’architettura: la città, il museo
Su questo sfondo continuamente mutevole è l’architettura a prendere il largo, e a costruire la storia del Novecento. Alcuni campioni prelevati dal tessuto architettonico-urbanistico possono quindi valere come frammenti per comporre un ritratto del nostro tempo nei mutamenti strutturali che lo hanno attraversato e nelle emergenze di fine secolo. “Il secolo breve”, nella prospettiva dello storico marxista Eric Hobsbawm, si chiude nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e il successivo collasso dell’impero sovietico. Ma i vessilli del XX secolo avevano cominciato a vacillare già prima.
Le avanguardie, per esempio, che avevano scardinato e disarticolato il sistema e rinnovato profondamente il linguaggio (e anche il pensiero e l’immagine), risultano a un certo punto archiviate, non solo per il tasso di distruttività che fin dall’inizio le ha percorse, ma per il protagonismo della comunicazione, in primo luogo visiva, che viene a scalzare la collocazione privilegiata delle arti, la cui conoscenza, sempre meno diretta, avviene soprattutto attraverso l’emporio mediatico.
La delegittimazione investe in primo luogo pittura e scultura nelle molte varianti del fare artistico che si presentano nel corso del secolo, le quali non sono più in grado di esprimere le grandi rivoluzioni formali del mondo contemporaneo. Mentre l’architettura si trova a incrociare le esigenze pressanti della società tecnologica, sullo sfondo di un processo di urbanizzazione che sconvolge gli assetti e le tipologie che avevano dato volto all’Europa, nella sua forma geografica peculiare di costellazione di città.
È la città, infatti, ad accusare drammaticamente la crisi. È la sua forma chiusa e disegnata, entro la griglia di strade e di piazze che sono il marchio dell’abitare europeo, ad andare incontro a un processo di sfaldamento e di erosione. Quella che avanza, nel premere di un’urbanizzazione temeraria e impetuosa che è simmetrica all’esodo dalle campagne (metà della popolazione del mondo vive oggi nelle città), è una diversa tipologia della città, dispersa, nebulosa, che tende a smarrire la sua filiazione dall’antica polis per diventare metropoli e megalopoli, e poi città diffusa e infinita, che campagne sempre più urbanizzate saldano a un’altra bolla edilizia, ugualmente dilagante ed espansa. Questo naturalmente è l’orizzonte del mondo (da Dhaka a Lagos, da Città del Messico al Cairo a Mumbai), dove lo sprawl urbano genera slums accerchianti e abnormi, e dove baracche e materiali di scarto compongono agglomerati che nulla hanno a che vedere con quella forma urbis elaborata nei secoli, che dava identità a un luogo e insieme a una comunità sociale (civitas), attribuendo all’architettura un ruolo primario.
In Europa, l’erosione della città, come centro storico pulsante che si organizza intorno all’antica agorà, ha dimensioni, tempi e connotati diversi, in primo luogo per quella miscela di vita politica e intellettuale che è congenita alle nostre città, le quali da sempre trattengono le università nel cuore municipale e non nei campus lontani del territorio.
L’emergenza città tuttavia esiste ugualmente. Conosce fenomeni contrastanti che sono da un lato la perdita di popolazione delle città medie, dall’altro il crescere sproporzionato delle periferie in rapporto al nucleo originario dell’urbe concepito, fin dal Rinascimento, come luogo ideale, razionale, programmato. Fenomeni tanto complessi implicano interventi che stanno a cavallo di molte discipline (economia, antropologia, sociologia, ecologia ambientale), ma investono frontalmente l’architettura, che sul tema della città si è misurata lungo l’arco del secolo, con proposte coraggiose e innovanti.
Prima fra tutte l’introduzione su grande scala del grattacielo, moderna cattedrale gotica della città, il cui skyline viene a essere profondamente modificato dalla struttura colonnare e seriale dei buildings verticali, resi possibili dalle nuove tecnologie e così necessari ormai alle metropoli antinaturalistiche del Novecento da non essere stati messi in discussione neppure dalla catastrofe dell’11 settembre 2001, che ha abbattuto i propilei di Manhattan.
Rispondendo all’esigenza di salvare l’idea antica di città come luogo fisico d’incontro, gli architetti tendono a realizzare piccole città dentro le città (cities within the city), edifici dominanti ad alta valenza simbolica in grado di restituire alla metropoli il suo magnetismo e la sua capacità di aggregazione contro il deserto affettivo della vita moderna. In questa sfida a riqualificare e a restituire un’aura ad alcuni edifici-simbolo, il crinale che separa l’invenzione artistica dal gioco esibito di molte “archistar”, architetti dal successo planetario e mediatico, risulta facilmente valicabile.
La linea di confine fra meraviglia e intrattenimento appare ad esempio molto labile se si segue l’evolversi di un edificio – il museo – che nel corso del Novecento ha tracciato uno degli assi della ricerca architettonica, imponendosi come nuovo tempio della fede intorno al quale si organizza la città, non solo quella di recente fondazione ma anche quella storica della tradizione europea: Parigi, Londra, Francoforte, Mönchengladbach, Lione, Nîmes, Lille, Bilbao, Rovereto. Il museo infatti, nella seconda metà del secolo – punto di partenza è forse la spirale del Guggenheim Museum (1946-1959) di Frank Lloyd Wright a New York; l’icona di oggi è il Museo Guggenheim di Bilbao (1997) che Frank O. Gehry ha modellato in lamine di titanio –, è venuto a imporsi come monumento eclatante nella città, luogo perfetto per rilanciare e amplificare il mito dell’architettura, la sua vocazione di ponte fra Oriente e Occidente, in una prospettiva decisamente globale.
In competizione con la scultura, il museo degli anni recenti tende a privilegiare l’impatto visivo (altamente spettacolare) piuttosto che la funzione cui è destinato, di custode della vocazione creativa dell’uomo. Nella città, il museo assume talvolta una visibilità scioccante e autoreferenziale; è addirittura investito di una missione taumaturgica e miracolistica in termini di rilancio economico della città, anche se il rischio è diventare una conchiglia sontuosa, che ha tradito il suo obiettivo fondante, quello di istituzione che conserva e trasmette le invenzioni dell’arte.
Il rischio in questi casi – avverte Jean Clair – è quello di innalzare cenotafi possenti ma deserti di opere, percepite come “disturbo” alla contemplazione di un involucro che sembra essersi affrancato da ogni premessa funzionalista e razionale. Come succede nel Museo Ebraico di Daniel Libeskind a Berlino, che si autocelebra nelle superfici taglienti della sua stessa “pelle” metallica (1996).
Il trionfo dell’ipermuseo quale emblema architettonico della città ha prodotto tuttavia, lungo il cammino, sperimentazioni e ricerca, regalandoci alcuni fra i capolavori del secolo. Musei che hanno saldato le potenzialità di una tecnologia avanzatissima e computerizzata a nuove esigenze espressive e formali. Musei che, senza rinunciare a un segno architettonico forte, hanno recuperato il valore estetico del contenuto e riattribuito all’opera d’arte la sua storica centralità. Musei che, per citarne solamente alcuni, portano la firma di un pioniere quale Louis Kahn, autore delloYale Center for British Art a New Haven, Kimbell Museum a Forth Worth; di Renzo Piano nei suoi “edifici della luce” (La Menil Collection a Houston, Paul Klee Zentrum a Berna), di Tadao Ando, creatore di spazi flessibili proiettati nel vento e sull’acqua (Museo di Arte Contemporanea a Naoshima). Nell’ambito perimetrato dell’edificio-museo, i maestri del Novecento hanno saputo elaborare progetti e riflessioni a largo spettro, facendo del museo un laboratorio architettonico d’avanguardia dove testare ricerche sulla luce, i materiali, le forme, e dove attivare un rapporto, a volte straordinariamente poetico, fra ambiente naturale e architettura.