Introduzione alle arti visive del Medioevo Centrale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’XI secolo si apre con l’imperatore Ottone III, della casa di Sassonia, al potere. Figlio di Ottone II e della principessa bizantina Teofano, gli è promessa a sua volta in sposa una “porfirogenita” (figlia dell’imperatore) bizantina, che è appena sbarcata a Bari quando l’imperatore prematuramente muore, giovanissimo, all’età di 22 anni (1002). Non fosse stato così, come ne scrisse lo storico tedesco Carl-Richard Brühl, l’erede che ne sarebbe nato sarebbe addirittura stato per tre quarti di sangue “greco” e solo per un quarto tedesco, determinando chissà quali conseguenze al momento della sua incoronazione come re di Germania. Ma il destino ha voluto altrimenti e la storia segue altri percorsi.
Sul trono papale resta ancora Silvestro II, quel Gerberto di Aurillac, già arcivescovo di Reims che il giovane Ottone ha lui stesso insediato sul trono pontificio nel 999, e con il quale ha in comune la volontà di riportare il mondo cristiano alla grandezza delle origini, del tempo di Costantino e del primo Silvestro.
Questo intreccio di personalità, di alleanze, di matrimoni e di idee, segna dunque emblematicamente l’inizio del secolo XI. Un secolo cruciale nei rapporti fra le due potenze imperiali e le due Chiese, fra l’impero d’Occidente e il papato di Roma, segnato da avvicinamenti e distacchi, siglato da un lato dallo scisma del 1054 e dalla perdita dell’Italia da parte di Bisanzio, dall’altro dalla forza di penetrazione dei modelli artistici bizantini nell’Europa del tempo, caratterizzato anche dalla volontà comune dell’imperatore e del papa di un “ritorno alle origini” e poi dal dissidio che condurrà l’imperatore Enrico IV a Canossa.
È il secolo che dalla sua seconda metà vede gli albori e il consolidamento di quella che la storiografia artistica definisce convenzionalmente l’età “romanica” e che, nella realtà storica, è piuttosto il secolo in cui, a Occidente, Chiesa e impero, spalleggiati dalle rinnovate possibilità di un’economia in espansione, affermano con uguale forza e intensità una propria ideologia e rivendicano pretese del loro potere.
A Oriente, nei territori dell’impero, il secolo XI vede ancora regnare per un altro quarto di secolo Basilio II, mentre nel suo ventennio conclusivo sarebbe salito al trono Alessio I Comneno, due grandi imperatori il cui nome sigla anche due delle più grandi stagioni artistiche dell’impero, l’età macedone e l’età comnena. Conclusa nel 1185 con la tragica morte di Andronico I, l’età comnena segna per l’arte costantinopolitana un’epoca di espansione incondizionata dei suoi modelli artistici: dalla Russia alla Sicilia, dalla Macedonia alla Terrasanta.
Il sogno di Ottone III di far rivivere la grandezza dell’Urbe è infranto in primo luogo dalla sua morte prematura, quasi, fantasticando, che con essa si volesse colpirne quell’ambizione che, come si è qui già visto, ha portato addirittura a raffigurare l’imperatore non solo incoronato dal Signore, ma persino affiancato dai simboli degli evangelisti. Avesse visto una tale immagine Gregorio VII, esponente paradigmatico di quel movimento di riforma ecclesiastica che da lui trae il nome, di certo ne sarebbe seguita una scomunica; ma durante il regno degli imperatori sassoni e dei loro successori della dinastia salica i tempi non sono sufficientemente maturi per una tale reazione da parte dei pontefici, scelti o imposti dall’imperatore stesso.
La Riforma “gregoriana” è l’evento centrale della storia spirituale di questo secolo, dal momento che si riflette anche nel più vasto contesto sociale. Dal suo centro romano essa può avvantaggiarsi della capillare riorganizzazione ecclesiastica delle decime e avvalersi di nuove ricchezze che indubbiamente favoriscono e incrementano lo slancio di attività costruttive, già sperimentate nei territori imperiali, dalla Sassonia alla Renania.
In questo ubiquo clima di espansione può realizzarsi al meglio, e quasi con ostentato trionfalismo, la perenne esigenza di corredare le chiese di adeguate strutture per la liturgia e di immagini da trasmettere al clero e ai fedeli. Nuove e splendide sedi ecclesiali, cattedrali, monastiche ecc. costellano l’Europa, e in particolare l’Italia, fra la seconda metà dell’XI e l’inizio del XII secolo: a Milano, a Venezia, a Parma, a Modena, a Pisa, a Firenze, a Lucca, a Montecassino, ad Amalfi, a Salerno, a Bari, a Otranto, ad Acerenza, a Gerace e ancora altrove.
Con sculture, pitture, mosaici, le chiese si rivestono di immagini tanto all’esterno che all’interno, mostrando programmi nei quali di frequente è sotteso un sistema espositivo incentrato sulle esigenze del clima spirituale “riformato”. In realtà esiste un asse di continuità che lega strettamente lungo i secoli le scelte tematiche della Chiesa fin dai tempi della sua legittimazione e del suo primo trionfo. Specifico, o intensificato, è adesso il senso ecclesiologico, con l’insistenza, anche simbolica, sulla vittoria della Chiesa (con il papa al suo vertice) contro i suoi nemici. Solo di volta in volta, in relazione al contesto storico e soprattutto alla volontà della committenza, può stabilirsi l’inerenza e il peso di motivazioni specifiche dell’azione di “riforma”. Sarebbe certamente riduttivo alludere a un vago e generico recupero di modalità espressive del passato, in nome di un presunto parallelo con il ritorno alla purezza dei tempi antichi.
Vasto è comunque l’impiego di temi narrativi relativi alla vita dei santi che, se nei secoli dell’alto Medioevo è stata narrata, adesso viene ripetutamente riproposta, sulla base delle differenti esigenze di devozione, anche sulle numerose tavole d’altare, esposte prima davanti e poi sopra la mensa eucaristica. Un antependio rifulgente d’oro e gemme, con scene della vita di san Benedetto al tempo dovette ornare la chiesa maggiore dell’abbazia di Montecassino, scelta tanto più significativa in quanto la glorificazione di questo santo attraverso le immagini risulta estremamente rara: solo a Saint-Bénoit-sur-Loire se ne conserva un raro ciclo scultoreo su capitelli. Tale politica di uso dell’immagine, se raffrontata con quella aggressiva adottata dai Francescani nel XIII secolo, mostra un contrasto palese.
Nessun arredo viene sottratto all’esigenza di figuratività: e se ai nostri occhi di fruitori dell’esperienza artistica italiana, la figuratività viene associata soprattutto ai grandi cicli murali, è pur vero che essa nel Medioevo è ubiqua. Se frontali d’altare (antependi), si conservano soprattutto in Scandinavia e in Catalogna, là dove nei secoli post-medievali le condizioni favoriscono meno la loro distruzione o la sostituzione con altre tipologie di arredo, fra i pochi altri che rimangono altrove, alcuni testimoniano il massimo livello raggiunto in quanto a committenza e qualità: così, per esempio, l’altare d’oro di Basilea, dono dell’imperatore Enrico II il Santo, oggi al museo di Cluny. Soprattutto nei territori fra la Mosa e il Reno, oltre che in Inghilterra e in Francia, gli arredi liturgici raggiungono una magnificenza e una ricchezza assolutamente straordinarie. Valga ricordare qualcuno tra gli esempi più insigni e prestigiosi, come il Trittico di Stavelot, significativo e splendido non solo per i laterali con gli smalti “narrativi” delle storie di Costantino ed Elena, ma anche per la presenza centrale dei due trittici bizantini a smalto – il più grande dei quali è una stauroteca – forse donati dal verosimile committente, l’abate Wibald/Wibaldo, all’imperatore Manuele I Comneno in occasione della sua missione costantinopolitana del 1155-1156.
Non meno magnifici altri reliquiari come, alla fine del XII secolo, i due cosiddetti esemplari “a cupola” oggi conservati a Berlino (Kunstgewerbemuseum) e Londra (Victoria and Albert Museum), le cui microarchitetture si rivestono di splendidi smalti a motivi geometrici e vegetali, contro i cui fondi si stagliano statuine eburnee di Cristo, degli apostoli e dei profeti, oltre a scene neotestamentarie. Il celeberrimo altare di Klosterneuburg, che originariamente rivestiva con i suoi smalti i lati di un ambone, è esemplare per la sua figuratività imperniata su un registro centrale di scene neotestamentarie, sopra e sotto il quale corrono due ordini di scene veterotestamentarie secondo il principio della tipologia biblica (cioè seguendo le corrispondenze anticipatrici di scene dell’Antico e scene del Nuovo Testamento). Tale principio è tanto largamente diffuso nell’Europa settentrionale quanto assai poco utilizzato in Italia. Fra le altre opere dove esso si affianca a un’estrema figuratività va ricordata in primo luogo la “croce dei Cloisters”, eseguita per l’abbazia inglese di Bury St Edmunds nel secondo quarto del XII secolo: all’incrocio delle sue traverse si dispone la scena dell’erezione del serpente di bronzo, già da san Giovanni ritenuto “tipo” della Crocefissione stessa (Giov. 3, 14), mentre sulla sua superficie (57 x 36 cm) si affollano oltre 100 figure intagliate in avorio di tricheco.
Non mancano peraltro casi nei quali il proliferare delle immagini (figurative) sembrerebbe a prima vista rispondere a una sorta di horror vacui, come avviene, ancora in Inghilterra, all’inizio del XII secolo, per il candelabro di Gloucester (oggi al Victoria and Albert Museum di Londra), il cui soggetto ha invece valore simbolico della rappresentazione della lotta fra le forze del bene e del male.
Sono naturalmente le facciate e le pareti delle grandi chiese cattedrali e monastiche dell’XI e XII secolo i prodotti artistici in cui figuratività e narratività s’impongono “in grande formato” e con il maggiore prestigio visivo. Giustamente celebri sono le chiese francesi, i cui densi programmi sottolineano il tema centrale della salvezza attraverso Cristo, affiancato con diversa intensità a storie cristologiche, rimandi veterotestamentari, prospettive giudiziali, temi ecclesiali, agiografia, visioni enciclopediche e cosmologiche.
A Tolosa, Moissac, Conques, Saint-Denis, Chartres, Parigi, Arles e Saint-Gilles, per non citare che un piccolo numero tra le maggiori cattedrali e chiese monastiche, le sculture di facciata e d’ingresso riflettono un universo mentale in cui la teologia predomina e sovrintende l’intero sviluppo della creazione e della storia, in un contesto anche fortemente simbolico. L’articolazione stessa delle facciate obbedisce a questa esigenza, perché è tramite i profondi strombi dei grandi portali che viene offerto lo spazio a una innumerevole quantità di figurazioni (il piano delle pareti d’ingresso, i ripetuti archivolti, la lunetta). In facciata la figurazione ha minore predominanza, ma non mancano casi come Notre-Dame-la-Grande a Poitiers, della metà del XII secolo, dove sopra le tre arcate del piano di base – di cui solo quella centrale funziona da ingresso – si dispongono un fregio con scene testamentarie, due registri a figure statuarie e, al vertice, la mandorla con il Cristo. In Catalogna è nella chiesa monastica di Ripoll che, su presumibili modelli trionfali romani, si è articolata su registri narrativi la decorazione della parete attigua al portale centrale d’ingresso. Strutture deputate a supportare una figuratività narrativa sono naturalmente anche i capitelli, sia che si trovino all’esterno degli edifici, sia all’interno – preminentemente sulle colonne della navata –, ovvero nei chiostri. Dai capitelli testamentari del chiostro dell’abbaziale di Moissac a quelli dei “toni musicali” nel coro dell’abbazia di Cluny di inizio XII secolo, fino alle rappresentazioni simboliche nel chiostro di Saint-Michel-de-Cuxa (metà del secolo), in Francia, a Santo Domingo de Silos (inizi XII secolo) in Spagna, fino in Italia, a Sant’Orso di Aosta, a Santa Sofia di Benevento o al duomo di Monreale è tutto un fiorire di narratività scultorea, a cui si associano le pitture e le vetrate.
È su questo sfondo che è interessante vedere la sostanziale eccezionalità del caso romano, ovviamente importante per la centralità di Roma nel mondo cristiano. L’Urbe non solo manca infatti di architetture consone alle grandi strutture romaniche europee, ma anche della scultura monumentale, mentre i programmi narrativi, o comunque figurativi di rilievo, seguitano a essere strutturati sul tradizionale supporto musivo. A Roma, dunque, nell’età romanica e in tutto l’arco cronologico fra XI e XII secolo la traiettoria artistica si collega in larghissima continuità ai suoi secoli della prima età cristiana o dell’alto Medioevo. Basiliche di altissima committenza papale, come Santa Maria in Trastevere, ripropongono forme paleocristiane facendo anche largo uso di spolia, nel caso in questione dalle terme di Caracalla.
Se si riflette che questa chiesa o l’altra, pure trasteverina, di San Crisogono o, anche, il rinnovato San Clemente sono coeve, se non pure posteriori, al Sant’Ambrogio di Milano oppure a chiese come quelle francesi di Vézelay o Tournus, non si può non rimanere, almeno al primo momento, esterefatti: “Roma senza romanico” sembra una contraddizione in termini, che si spiega tuttavia facilmente se si sottolinea l’errore del tradizionale approccio formalista e puro-visibilista alla storia dell’arte medievale, ormai fortunatamente in via di estinzione. A Roma è l’antichità cristiana che conta con i suoi modelli e la forza del suo prestigio e non si ritiene necessario imprimere una svolta diversa a un cammino già consolidato di perfetta coerenza fra forme architettoniche, necessità liturgiche, rispondenze di fede. Se il mosaico torna a predominare (San Clemente o Santa Maria in Trastevere lungo i decenni centrali della prima metà del XII secolo) è peraltro significativo che in precedenza, a San Lorenzo fuori le mura (inizi XI sec.) e nella chiesa inferiore di San Clemente (1080 ca.) si siano eseguiti affreschi, come un po’ dovunque nelle chiese europee. Forse è dovuto alla mancanza di manodopera qualificata (cui l’abate di Montecassino a fine anni Sessanta dell’XI secolo aveva rimediato con l’invito di maestri musivari costantinopolitani), forse, ancor più, è una risposta in sintonia con i tempi. Tuttavia, ben presto, si verificherà una inversione di tendenza quando, nella nuova San Clemente (del secondo decennio del XII sec.), si ripropone un’abside musiva, verosimilmente ripresa dalla precedente, perduta, del V secolo.
La questione della presenza e dell’incidenza di Bisanzio sull’arte d’Occidente è cruciale e l’esperienza artistica di Montecassino ne è esemplare. Già l’arte ottoniana l’aveva comunque sperimentata fortemente, anche per la presenza della principessa Teofano a corte, né erano mancati, come si è visto, altri monumenti incomprensibili senza la chiave di lettura degli apporti o dei modelli bizantini.
L’Europa del XII secolo vede la Sicilia e Venezia in prima linea su questo fronte, ma non meno importante è quanto si svolge nell’“Europa d’oltremare”, cioé nella Terrasanta riconquistata alla cristianità dai crociati, con il sigillo della presa di Gerusalemme nel 1099. È un regno effimero, per la caduta di Gerusalemme stessa a opera del Saladino nel 1187, poi dell’ultimo bastione, Acri, nel 1291. È comunque un momento d’incontro delle due civiltà artistiche, che vede in opera committenti dell’aristocrazia nobiliare o dell’alto clero di provenienza europea, architetti e artisti ivi immigrati col ricordo delle proprie esperienze e con una grande attenzione alla realtà di un contesto impregnato anche del passato romano e islamico. Sulle pagine dei codici miniati questo incontro è perfettamente bilanciato e suggellato da alcuni veri e propri capolavori, come la Bibbia di San Daniele del Friuli, eseguita probabilmente in uno scriptorio gerosolimitano verso metà secolo, mentre pittura e scultura monumentale sono orientate l’una piuttosto verso Bisanzio, l’altra verso l’Occidente: da un lato dunque gli affreschi di Abu Ghosh (Emmaus) o della basilica della Natività a Betlemme, dall’altra i capitelli di Nazareth o le sculture sulla Spianata del tempio (Haram as-Sharif) ne sono testimonianze esemplari. A Betlemme gli affreschi coesistono con i mosaici ed è significativo che la duplice iscrizione, greca e latina, che ricorda il re Amalrico e l’imperatore Manuele Comneno, riporti anche il nome dell’artista: Effrem (in latino) o Efraim (in greco), oltre alla data del 1169.
Se iscrizioni del genere fossero state apposte più di frequente, certamente la storia dell’arte avrebbe presentato meno conflitti storiografici (pensiamo solo ad Assisi e alla decorazione pittorica con il ciclo francescano). La menzione del nome dell’artista, la sua volontà a identificarsi non nascono naturalmente nell’XI o XII secolo e casi, pur sporadici, si hanno anche nell’alto Medioevo; con il secondo millennio, tuttavia, la sporadicità cede il posto a una più regolare frequenza che diverrà poi abitudine nei secoli più tardi: a esemplarne la presenza Gislebertus che a Autun (Borgogna) si ricorda ai piedi di Cristo sul timpano di Saint-Lazare, oppure i celebri casi padani di Wiligelmo – e dell’architetto Lanfranco – a Modena, di Benedetto Antelami a Parma. Un profluvio di firme e di orgogliose dichiarazioni d’opera è poi quello dei marmorari romani, che non di rado giungono a porre le basi di un repertorio di storia documentaria dell’arte, quando – come nel ciborio d’altare di San Lorenzo fuori le mura a Roma – ci informano su tutto: l’anno (1148), il nome dell’abate committente (Ugo), i loro nomi (Giovanni, Pietro, Angelo e Sasso), il patronimico (filli Pauli).
Nei primi 200 anni del secondo millennio la civiltà figurativa dell’intera Europa è improntata, al pari di quanto avviene nelle società del tempo, da un’accelerazione e da un’espansione senza precedenti. Alla fine di questo duplice arco di secoli il panorama architettonico e artistico si configura con una densità di edifici e di opere, accomunate dalle esigenze della fede e del potere, che in un certo qual modo ricostituisce, sotto diversi segni, quell’unità che Roma aveva plasmato ancor più largamente unificando col suo impero territori dalla Britannia all’Africa, dalla penisola iberica all’Asia. Con il 1200, anno conclusivo del XII secolo, la storia artistica non compie una svolta, anche se proprio questa data è servita alla storiografia per segnalare quella ulteriore, straordinaria fase di grandezza artistica che con il nome di “stile 1200” inquadra eventi figurativi di due ventenni, prima e dopo il volgere del secolo. È uno stile che unifica la Spagna di Sigena, l’Inghilterra di Winchester, la Francia di Sens, la Mosa di Nicolas de Verdun, e, in misura minore, la scultura italiana di area antelamica, sul presupposto della forte incidenza naturalistica della pittura e dei modelli ancora una volta bizantini. Il XIII secolo ne continuerà la vicenda, per poi svolgerla più articolatamente su linee nazionali, se non addirittura civiche. Così come i primi secoli lasciano l’impronta indelebile delle nuove strutture ecclesiali e della nuova iconografia, in egual modo i secoli iniziali del secondo millennio determinano il panorama di riferimento dei secoli a venire, dei grandi monumenti del XIII e XIV secolo.