Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’ultimo periodo del Medioevo, il Medioevo gotico, introduce un rapporto privilegiato con la natura, la vita, la realtà, dopo le incursioni irrazionali e fantastiche dell’iconografia romanica, così incline a rappresentare ibridi, mostri, portenti e prodigi.
Nel vasto mondo neolatino, il cui cuore è la Francia, è la cultura gotica ad assumere il ruolo di referente attorno al quale si organizza un sistema del sapere che si rivelerà fondante per la cultura d’Occidente, che in questo modo si affranca dall’ultima egemonia bizantina, dalla sua struttura atemporale e teocratica.
È questo l’asse di sviluppo dominante.
Sarebbe riduttivo però, dal punto di vista della ricchezza e complessità di quel mondo – parliamo dei secoli XIII e XIV –, dimenticare gli intrecci che saldano la civiltà d’Occidente alla simbologia orientale ed esotica e le contaminazioni formali, fertili e creative, che scaturiscono dall’incontro dei tramandi classici con le tradizioni decorative dell’Asia.
Émile Mâle (in L’art religieux de la fin du Moyen Âge en France, 1908) e poi Jurgis Baltrusaitis (in Le Moyen Âge fantastique. Antiquités et exotismes dans l’art gothique , 1955) hanno segnalato la fragilità di una concezione europocentrica del Medioevo, dando risalto a quel “dualismo perenne che, anche nella sua ricerca della realtà, spazia continuamente verso regioni lontane e chimeriche, e conserva, sino alla fine, la propria universalità”. In pieno Trecento – sono gli anni trionfanti del gotico – anche nell’ambito di una geografia circoscritta e italiana, clamorose conferme di un’attrazione fatale fra le due civiltà sono venute dal versante della storia.
La scoperta più avventurosa? È il 1921. Per celebrare il sesto centenario delle morte di Dante, il conte Pier Alvise di Serego-Alighieri, a Verona, ha l’idea stravagante di ispezionare l’arca di Cangrande della Scala, il cui vaticinio profetico ha largo spazio nel Paradiso della Divina Commedia (XVII, 76-93).
La missione improbabile di portare luce al testo enigmatico di Dante fallisce naturalmente, ma la tomba si rivela piena di sorprese a cominciare dal dato antropometrico del Gran Mastino Signore di Verona (un metro e 82 centimetri!), assolutamente anomalo per gli uomini del tempo.
Lo choc tuttavia viene dalle stoffe del corredo funebre, approdate alla corte di Verona attraverso l’emporio veneziano. Stoffe tessute alla maniera del broccato a oro lamellare, di origine islamica, databili al primo Trecento, di poco precedenti la morte di Cangrande (1329). Tecnica di origine cinese, tessuti prodotti nell’Iran ilkhanide (sia per l’impianto che per i dettagli del disegno), fatti viaggiare lungo la via della seta.
La scoperta rilancia con forza l’idea di un Medioevo favoloso e senza confini, un Medioevo d’Occidente che l’Oriente non ha cessato di sedurre. Tanto che, di fronte alla statua equestre di Cangrande, anonima e misteriosa, collocata a coronamento dell’arca, l’allora direttore del Museo di Verona scrive: “Mi colpiva il rapporto straordinario, così diverso da quello delle statue equestri di tradizione classica e anche germanica, tra Cangrande e il suo proporzionalmente piccolo destriero, legati in una simbiosi tra animale e guerriero, che mi fa sempre pensare, lo confesso, ai veloci cavalieri della steppa, piuttosto che alla solennità del Marc’Aurelio capitolino o del cavaliere di Bamberga” (Licisco Magnato, Le stoffe di Cangrande: ritrovamenti e ricerche sui tessuti del ‘300 veronese , 1983).
Tuttavia nei secoli che, in Europa, vedono il processo di urbanizzazione e di concentrazione nelle sedi cittadine degli interessi spirituali, temporali, intellettuali, negli anni appunto in cui la città diventa il polo di attrazione e di rilancio della campagna che le sta intorno, è, in primo luogo, il cantiere della cattedrale a dare una nuova impronta, stilistica e tecnologica, agli ideali del mondo occidentale.
Cattedrali come summae del pensiero teologico e dei suoi schemi dottrinari complessi, cattedrali come “immagine del mondo”, che scultori e architetti hanno plasmato nella pietra.
Sul piano politico sono gli anni dell’affermazione dei Comuni e delle autonomie vissute a livelli diversi, più accentuate in Italia dove la città molto spesso coincide con il piccolo Stato e non è quindi sottoposta all’autorità del sovrano.
Si dimenticano a volte il ritmo febbrile e l’entità delle costruzioni (una chiesa ogni 200 abitanti) realizzate nell’arco di soli due secoli: “La sola Francia ha estratto dalle sue cave milioni di tonnellate di pietre per edificare ottanta cattedrali, cinquecento grandi chiese e qualche decina di migliaia di chiese parrocchiali. Ha trasportato una più grande quantità di pietre la Francia in tre secoli che l’antico Egitto in qualsiasi periodo della sua storia” (Gimpel, Les bâtisseurs des cathédrales, 1980).
Genialità degli architetti-costruttori, ripresa economica legata al rilancio dei commerci e, naturalmente, la forza trainante della fede: sono questi gli elementi all’origine della sequenza di cattedrali, imponenti e abnormi in rapporto alla città che si stringe alla loro base. È il caso della cattedrale di Amiens che, con i suoi 7.700 mq di superficie, è in grado di accogliere l’intera popolazione di 10 mila abitanti.
Cattedrali elaborate e “parlanti” in virtù delle tecniche (affresco, oreficeria, intaglio dell’avorio, miniature e, in seguito, vetrate e scultura monumentale) che sono “tecniche di espressione” di un’epoca, tecniche visuali che riflettono il pensiero religioso e morale di una società in rapida evoluzione e in crescita economica tumultuosa. Il trionfo della vetrata, per fare un esempio – favorito dalla funzione non più strutturale e portante della parete, che nella cattedrale gotica diventa diaframma e preziosissimo schermo –, si spiega anche in rapporto alle dottrine metafisiche di interpretazione dell’universo nelle quali la luce (e dunque il fulgore mistico e colorato delle vetrate) ha un’importanza assolutamente cruciale (Enrico Castelnuovo, Vetrate medievali. Officine, tecniche, maestri, 1994).
Questa spinta costruttiva trascinante (conventi, abbazie, basiliche, palazzi pubblici, castelli) conosce a un certo punto una battuta d’arresto, che idealmente potrebbe coincidere con il segnale drammatico e premonitore costituito dal crollo della volta della cattedrale di Beauvais (1284, nel nord della Francia), che con i suoi 48 metri d’altezza detiene il primato nel mondo medievale. Anche se la storia è ovviamente più complicata e la chiusura di molti cantieri va messa in rapporto ad altri fattori determinanti del primo Trecento (guerre, carestie, crisi economica, la ricomparsa della peste in Europa).
A questo punto, volendo mettere a fuoco il processo costitutivo di un canone artistico d’Occidente nei secoli XIII e XIV, il ruolo della pittura si rivela primario e trainante, mentre si profila lo sfaldamento dell’Impero bizantino d’Oriente e la fine del suo ciclo storico.
Nella pittura (e già prima nella scultura) una serie di rappresentazioni calate nella storia, di azioni situate in un tempo e in uno spazio vissuti contrastano la fissità ieratica dell’icona bizantina dove, per scelta ideologica, si tende a far coincidere filosofia e teologia, e dunque a elaborare un’immagine eternamente valida, oltre la storia, scandita su rapporti, simmetrie, concordanze più che su una proiezione di realtà ed esperienza.
C’è un pensiero di fondo che è alla base del mondo occidentale così come esso si definisce in quegli anni, ed è la coscienza della storia come recupero dell’eredità classica e tardoantica, evidente soprattutto nella scultura.
Il fenomeno centrale però è analogo a quello che caratterizza il mondo delle letterature ed è la nascita di un nuovo linguaggio “volgare”, legato a una dimensione tattile e terrena del mondo, non più mentale e trascendente, un linguaggio profondamente originale nell’elaborazione di forme classiche, tardoromane, barbariche, bizantine.
In particolare, per attenerci al linguaggio figurativo d’Occidente, del romanico e del gotico, è la persistenza di una tradizione culturale tardoantica che permette il rilancio delle “arti monumentali”. In primo luogo dell’architettura, memoria della continuità storica che attiva quel processo di razionalizzazione della forma che sta alla base dell’arte di Giotto.
È Giotto a siglare per la pittura in Europa l’uscita dalla crisalide bizantina.
È Giotto a imprimere quel timbro occidentale che caratterizza i più alti valori creativi dell’ultimo Duecento.
Ed è Giotto a imporre un’egemonia culturale che scaturisce da un nuovo codice delle forme, destinato a valicare i confini della Toscana: quell’“impero di Giotto” che, sulla base di un “dipingere dolcissimo e molto unito” (la definizione è dello storico Giorgio Vasari), tocca l’Umbria e la Lombardia, Padova e Rimini, Napoli e Roma, aree lontane e diverse conquistate a un linguaggio comune, in parallelo all’azione compiuta sulla lingua da Dante.
Dante e Giotto, pilastri di un autunno del Medioevo in cui l’artista si afferma come personaggio storico, con una precisa visione della religione e del mondo; e, in ambiti più specifici, con una concezione rinnovata, e soggettiva, dello spazio, della natura, dei sentimenti.
La percezione moderna del Medioevo è fortemente condizionata dal filtro romantico, dalla malinconia dell’esilio, dall’idea di un passato nel quale cercare rifugio per fuggire al presente. Un passato artigianale e prescientifico, permeato di religiosità.
La rivisitazione di quel mondo ha infatti conosciuto, a partire dal Romanticismo, forme diverse nel variare dei tempi e dei protagonisti (Gothic Revival, Nazareni, Preraffaelliti, Horace Walpole, William Morris, August Welby Northmore Pugin, Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, Alfonso Rubbiani).
Mi limito a ricordare un solo episodio che è stato all’origine, in Francia, di quel “ Retour au Moyen Age ” scatenatosi con l’apertura del Musée des Monuments Français, il museo che nel 1795 Alexandre Lenoir allestisce a Parigi, nel convento dei Petits Augustins.
Sono gli anni delle devastazioni anticlericali della Rivoluzione Francese, quando le tombe medievali dei re di Francia vengono profanate nell’abbazia di Saint-Denis e le statue divelte e frantumate. Il cittadino Lenoir recupera, e poi fantasiosamente rimonta nel convento agostiniano, carrettate di pezzi e sculture violate, coniugando passione antiquaria e senso del pittoresco, accordo con le autorità rivoluzionarie e desiderio di salvare il patrimonio artistico.
Il museo di Lenoir si presenta come una successione di “sale d’epoca” e di sepolcri ricomposti fra i cipressi dei viali del convento, dove a contare non è solo la fascinazione per un Medioevo filtrato dalla nostalgia, ma la reintroduzione ideologica di un passato che la Rivoluzione aveva estirpato e che Lenoir rievoca nell’incanto degli spazi sacrali e nella liberazione dei sentimenti, come ricorda Jules Michelet, giovane storico contemporaneo segnato da quell’esperienza: “Ricordo ancora l’emozione, sempre la stessa e sempre viva, che mi faceva battere il cuore quando, ancora piccolissimo, entravo sotto quei voltoni e contemplavo quei volti pallidi [...] Cercavo che cosa? Non so: la vita di allora, senza dubbio, e il genio dei tempi. Io non ero ben sicuro che tutti quei dormienti di marmo distesi sulle loro tombe non fossero vivi [...] E quando passavo nella sala bassa dei Merovingi, in cui si trovava la croce di Dagoberto, non sapevo liberarmi dal pensiero che forse avrei visto rizzarsi a sedere Chilperico e Fredegonda” (J. Michelet, Histoire de la Révolution française , 1989).