Introduzione alla storia del Vicino Oriente antico
Siamo da tempo abituati a considerare il Vicino Oriente antico come la “culla della civiltà”, se non altro per il fatto che questa etichetta ha fattola fortuna editoriale di centinaia di libri. Eppure questa definizione ci mette oggi a disagio, nonostante l’affascinante prospettiva di poter risalire nel tempo – grazie ad un’enorme quantità di fonti scritte e di testimonianze archeologiche – a vicende che in quella parte del mondo precedono di millenni la formazione delle “civiltà” classiche. E il motivo del disagio è proprio nel binomio “culla” e “civiltà”, che ha a lungo dominato la cultura dell’occidente e che implica un assunto molto semplice: che quella “civiltà” per noi rappresentata dall’eredità del mondo classico, prima greco e poi romano, abbia alle spalle qualcosa di più antico a farle da premessa. Tanto meglio se questo qualcosa è al tempo stesso geograficamente lontano (o almeno relativamente lontano), ma culturalmente congruo, come è il caso di quelle antichissime popolazioni del Vicino Oriente che utilizzavano la scrittura, che costruivano città e praticavano contabilità e commercio. Peraltro la nozione di “culla”, cresciuta assieme alle grandi collezioni di antichità orientali che nel XIX e XX secolo hanno arricchito i maggiori musei europei e statunitensi, non è destinata a scomparire presto, perché, per motivi affatto differenti da quelli della storiografia occidentale, serve oggi per molti versi a rafforzare l’orgoglio nazionale dei giovani stati presenti nella regione.
Chi leggerà le pagine di quest’opera si accorgerà fin dall’inizio che un tale approccio alla storia del Vicino Oriente non ha alcun senso. In primo luogo perché si è straordinariamente dilatato, con lo sviluppo delle ricerche, l’orizzonte spaziale e cronologico delle conoscenze che riguardano tutto il mondo antico, da quello mediterraneo a quello del Vicino Oriente; e poi perché fenomeni che potevano sembrare circoscritti o caratterizzanti di determinate civiltà si dimostrano invece sempre più interrelati, e in modo non univoco. Quel che oggi sappiamo per esempio del mondo egeo prima ancora del sorgere della civiltà micenea – non solo in termini di insediamenti portati alla luce dagli scavi, ma anche di dati socio-economici e religiosi che ne derivano – mostra, già a partire dal Medio Bronzo, contatti di lunga durata con il mondo orientale, che si riflettono nella cultura artistica, ma anche nel modo di funzionare delle città e nel loro rapporto con la realtà rurale. Un caso non meno significativo è quello dell’Anatolia centrale, una regione di cerniera, dove fin dal Bronzo Antico, a seconda delle epoche o delle vicende politiche, i rapporti sono intensissimi sia con l’Asia Minore, sia con il Sud mesopotamico e con la Siria, sia con il Nord-Est caucasico: e si tratta anche qui di rapporti che riguardano la circolazione di tecniche e di produzioni artistiche, i traffici commerciali di prodotti di lusso, o le innovazioni nella tecnologia della guerra e degli armamenti. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma citiamone ancora uno, quello che riguarda la storia della Babilonia in epoca neobabilonese ed ellenistica, un periodo sul quale si sono intensificati gli studi negli ultimi due decenni: una Babilonia di cui oggi conosciamo, da un’impressionante mole di fonti cuneiformi, aspetti della vita economica, sociale e religiosa che ci permettono di cogliere quale impatto potè avere la cultura babilonese, erede della tradizione imperiale assira, sul mondo coevo, sia verso Oriente (la Persia), sia verso l’Occidente ellenizzato, per il tramite della monarchia seleucide. In altre parole, la storia del Vicino Oriente antico non può e non deve più essere considerata la storia di un prima, ma piuttosto la storia di un durante, che rende a noi più comprensibili, talvolta per la loro omogeneità, ma più spesso per la loro alterità, istituzioni, fenomeni e processi di sviluppo presenti nelle vaste aree di contatto.
L’estensione dell’orizzonte culturale (in senso antropologico, di rapporti tra culture) è dunque un primo modo per integrare la storia del Vicino Oriente alle altre “storie” del mondo antico; ma ce n’è anche un altro, che è quello di vederne le specificità in una chiave strutturale e paradigmatica, come è suggerito a più riprese nel corso di queste pagine. Il Vicino Oriente è infatti una realtà composita, in cui il principale elemento di unificazione è costituito dal fatto che per millenni si sia usato, quasi dappertutto, uno stesso codice per la trasmissione della cultura: si tratta della scrittura cuneiforme che, quasi certamente inventata in una piccola zona intensamente urbanizzata della Mesopotamia meridionale sullo scorcio del IV millennio a.C., è stata poi utilizzata per oltre due millenni; fino ad essere poi affiancata e lentamente sostituita da un alfabeto (quello che per semplicità chiamiamo “fenicio”) che si è gradualmente imposto in un’area ancora più vasta. La complessità del sistema cuneiforme (un sistema misto di segni sillabici e logografici) e il suo uso esclusivo da parte degli scribi, che lo apprendevano studiando e copiando lessici e testi esemplari della tradizione letteraria sumerica e accadica, portò ad una canonizzazione di questo materiale e poi ad una sua ampia diffusione, superando barriere linguistiche, geografiche e culturali. Dalla Mesopotamia all’Armenia, dall’Elam alla Siria-Palestina, fino agli altopiani centrali dell’Anatolia, il Vicino Oriente fu progressivamente accomunato da una familiarità con gli stessi modelli di espressione letteraria, benché ciascuna regione e ciascuna cultura sviluppasse parallelamente proprie tradizioni nelle lingue locali. Questo processo conobbe il suo apice intorno al XIV-XIII secolo a.C., quando anche in Egitto troviamo scribi in grado di utilizzare il cuneiforme babilonese per corrispondere con le cancellerie del tempo in lingua accadica, divenuta la lingua franca in tutto il Vicino Oriente.
Questa apparente uniformità – che ha costituito nei secoli un potente strumento di coagulo culturale – non deve però oscurare i tratti di profonda diversificazione e di gelosa autonomia che caratterizzano il mondo di cui ci stiamo occupando: un mondo che è differenziato tanto dal punto di vista della realtà geografica quanto per il tipo di popolamento, di strutture insediamentali e di realtà politiche. Tutto ciò sembrerà ovvio a chi guardi un atlante storico o geografico del Vicino Oriente, ma lo è assai meno nel nostro immaginario, nella consuetudine delle nostre rappresentazioni ideologiche o mentali: perché ancor oggi questo territorio è visto dai più come uno spazio indifferenziato, dove dominano la steppa e il deserto e in cui l’unico elemento geograficamente rilevante è costituito dalla presenza dei grandi fiumi, il Tigri e l’Eufrate. In realtà sono proprio le caratteristiche di questi fiumi ad attrarre l’attenzione sulle differenze. Il loro corso si disegna infatti sul territorio in modo tutt’altro che uniforme, con larghi meandri nella parte più meridionale dell’alluvio e con lunghi tratti, più o meno lineari, in cui falesie rocciose ne delimitano l’alveo, con la formazione di microambienti che presentano condizioni ecologiche molto specifiche, che condizionano il raggio di deposito dei sedimenti, la composizione dei suoli, il loro livello di salinità e quindi le possibilità di sfruttamento delle campagne. C’è poi la realtà di una serie di affluenti dalla portata abbastanza considerevole (non molti, ma significativi per le loro implicazioni storiche) e quello dei corsi d’acqua minori, sia perennni, sia stagionali (wadi), che ha molto condizionato il carattere dell’antropizzazione; e ci sono le profonde differenze climatiche, che interessano non solo le grandi aree, come il Nord e il Sud della regione mesopotamica, ma anche nicchie assai circoscritte, dove la presenza di rilievi, di acquitrini o di risorgive incide sulle possibilità di adattamento delle popolazioni, sui modi di vita e sulle scelte economiche. Questo complesso di problematiche geografiche non riguarda soltanto la Mesopotamia, ma investe, con conseguenze di volta in volta specifiche, le altre regioni del Vicino Oriente, come la Siria (suddivisa tra la fascia costiera e le zone interne, a carattere collinare o stepposo), la Palestina, l’Anatolia (con altipiani e poderose catene montane) e l’Arabia (prevalentemente desertica).
Perché quest’insistenza sulla varietà del quadro regionale, sui chiaroscuri, sulle differenze? I motivi sono prevalentemente due: il primo è quello di avvertire il lettore sulla specificità dei fenomeni di carattere strutturale che caratterizzano le società del Vicino Oriente a livello regionale, dalle forme della produzione a quelle del commercio e della politica; il secondo è quello di richiamare la sua attenzione sul ritmo dei processi, che sono profondamente connessi al rapporto con l’ambiente naturale e alle trasformazioni del paesaggio, che ne è la sua proiezione nella storia. Per queste società (in forma assai più appariscente e drammatica che per altre) il ritmo è segnato dai successi e dagli insuccessi nella capacità di controllare la produzione e il procacciamento delle risorse, in un ambiente che è quasi sempre strutturalmente a rischio: un rischio rappresentato – tanto per citare i fenomeni più macroscopici – dalla siccità o dall’impoverimento dei suoli provocato da un eccessivo sfruttamento; dal rapido degrado delle opere idrauliche e di canalizzazione, dove queste sono indispensabili all’agricoltura (si ricordi per esempio che le piene dell’Eufrate, a differenza del Nilo, avvengono al momento del raccolto); dalla necessità di importare materie prime (legname e metalli) da regioni lontane. Questa situazione provoca non solo ciclici fenomeni di ristagno o di crisi sotto il profilo economico, ma anche fenomeni di ristrutturazione del rapporto tra città e campagna, di riorganizzazione topografica degli insediamenti, di ridefinizione di funzioni amministrative e di equilibri politici. È un ritmo accelerato, nei due sensi dello sviluppo e della periodica involuzione, che diventa esso stesso elemento di sistema all’interno di processi storici che appaiono per altri versi dominati da un’apparente stabilità: con realtà cittadine che mantengono per secoli, nonostante cambino le forme dell’organizzazione politica e le forme di assoggetamento (con piccoli e grandi regni, stati di carattere regionale o sopraregionale, imperi centralizzati), le loro caratteristiche di autonomia, che sono pronte a far valere ogniqualvolta si presentino delle crepe nel potere centrale. Le cosiddette “città-stato” non perdono quasi mai le loro prerogative, mantengono un saldo rapporto con il loro retroterra rurale, ricostituiscono eserciti, continuano a combattersi, almeno fino a quando le grandi organizzazioni imperiali (nel I millennio a.C.) non impongono una rifunzionalizzazione del loro ruolo all’interno dell’apparato statale.
Quello della stabilità apparente è un utile paradigma che serve a sottolineare le molte eccezioni: la realtà non si ripropone mai identica e aspetti evolutivi di grande portata, di carattere socio-economico e istituzionale, si possono apprezzare ad ogni tornante della storia del Vicino Oriente. Vi sono tuttavia fenomeni che fanno da contrappunto a questi cambiamenti con una significativa ricorrenza, quasi a rappresentare un’emblematica spia dell’emergere (o del ricomporsi) dei momenti di crisi. Il più noto di questi fenomeni è quello del nomadismo, che coincide con una delle più potenti immagini ideologiche che l’Occidente ha costruito a proposito dell’Oriente. A partire dal XIX secolo, quando si diffonde il gusto romantico per l’Oriente e per le sue antichità, quando Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania cominciano a finanziare le grandi imprese archeologiche in Egitto e in Mesopotamia, la figura del beduino e la società nomadica diventano per il viaggiatore occidentale uno degli elementi di maggiore fascino e suggestione all’interno di quel mondo, fino ad incarnarne in qualche modo l’essenza e il mistero. Per lungo tempo – fino a non molti decenni fa, per dire il vero – è prevalsa l’idea che il nomadismo costituisse una tappa evolutiva specifica nel modello di sviluppo delle società umane del Vicino Oriente, e che il processo di sedentarizzazione progressiva dei gruppi nomadici fosse unilineare. Agli inizi del secolo scorso, quando negli studi linguistici era molto in voga il problema delle “origini”, si era ritenuto di poter ricercare l’origine dei semiti e l’area di irradiazione delle lingue semitiche nel deserto sudarabico, popolato da nomadi che si spostavano su lunghe distanze. Ma, a parte le critiche che possiamo rivolgere a quel modo di porre il problema (con una insufficiente attenzione, tra l’altro, alla differenza tra nomadismo pastorale e il pieno nomadismo, praticato nel Vicino Oriente solo dalla fine del II millennio a.C., dopo l’introduzione del cammello) non si disponeva ancora della grande massa di dati sul fenomeno del nomadismo fornite dagli archivi di tavolette cuneiformi. Le ricostruzioni storiche del Vicino Oriente preclassico, specie per quanto riguarda gli aspetti sociali e istituzionali, avevano al centro il grande affresco letterario delle storie bibliche dei patriarchi, che non avrebbero potuto in alcun modo illuminare un dato oggi incontrovertibile: che cioè le più antiche attestazioni di genti di lingua semitica in epoca protodinastica, tra il 2600 e il 2400 a.C., sia in Mesopotamia, sia in Siria (da dove provengono gli archivi di Ebla), si situano in contesti compiutamente urbanizzati, dove non risulta nessuna presenza di un elemento nomade.
Tra le molte fonti che hanno portato a ridefinire l’intera problematica, le più significative sono comunque quelle che provengono dalla città di Mari (l’odierna Tell Hariri), che significativamente non si trova in Arabia, ma vicino al corso dell’Eufrate, poco a nord del confine tra la Siria e l’Iraq. Qui sorgeva un grande insediamento urbano che nel XVIII secolo a.C. controllava un’area molto vasta, che comprendeva un’ampia fetta dell’alta Mesopotamia, tra la valle del fiume Khabur e il Tigri. I nomadi, i beduini ante litteram, sono qui una realtà onnipresente, in parte integrata nella società e nell’economia cittadina, in parte separata, con proprie tribù di appartenenza, proprie istituzioni e un proprio modo di vita. Sono pastori di greggi di caprovini (per i quali è più appropriata la definizione di seminomadi) che si muovono su estensioni limitate e su percorsi collaudati, che praticano una transumanza orizzontale, che li porta in primavera-estate ad abbeverare il bestiame sulle rive dell’Eufrate, dove gli agricoltori coltivano i propri campi. Hanno in qualche caso una propria organizzazione politica e militare, che si presenta come relativamente indipendente, fin quando il potere statale non provvede a imbrigliarla, e mantengono equilibri di convivenza, variabili nel tempo, con la popolazione sedentaria; ma la loro consistenza e il loro potere conoscono fasi di espansione (talvolta aggressiva) e di contrazione anche nel giro di pochi decenni: un principe amorreo originario di una delle loro casate riesce persino a cosituire un regno di cui Mari rappresenta uno dei maggiori caposaldi ed è significativo che le strutture cittadine e l’assetto economico della città non subiscano per questo nessun particolare contraccolpo. Il quadro di questo nomadismo è insomma quello di una presenza sistemica, che probabilmente si manifesta in modo simile anche in altre porzioni dello scacchiere vicino-orientale ancora insufficientemente documentate: con gruppi di pastori raccolti in casate gentilizie – più o meno integrati (a seconda dei casi) nel tessuto cittadino – che mantengono un forte rapporto col territorio per motivi strutturali, per il tipo di economia che praticano e per il rapporto, relativamente indipendente, dai palazzi e dalle istituzioni cittadine.
Tra nomadi e sedentari non c’è dunque un prima e un dopo – delle fasi di sviluppo tra un tipo di società e l’altra – ma c’è una questione di interpretare di volta in volta il rapporto che si stabilisce tra i due elementi compresenti. Ci sono circostanze storiche in cui è proprio l’organizzazione tribale dei gruppi seminomadici a fare da serbatoio alle tendenze centrifughe che si manifestano nelle strutture cittadine in occasione di guerre o di crisi politiche: ne abbiamo diretta conoscenza dalle vicende di una piccola casa regnante del Nord della Siria (il regno di Alalakh, dipendente da quello assai potente di Aleppo), dove, a seguito di epurazioni interne, il re deposto e altri fuggiaschi trovano asilo presso i khabiru, i nomadi della zona. Si tratta di un fenomeno di instabilità sociale che tocca più in generale tutta l’area siro-palestinese fra il XV e il XIV secolo a.C., quando frequenti sono le crisi politiche e i rovesciamenti delle alleanze, sia tra i grandi regni sia tra i loro vassalli. In queste occasioni sono non solo le zone rurali a provvedere un rifugio per gli sbandati, ma anche, al loro interno, le strutture gentilizie dei pastori seminomadi. Possiamo dire che nelle grandi fasi di trasformazione socio-politica che si pongono alla fine del periodo del Medio e del Tardo Bronzo, contraddistinte essenzialmente da crisi di carattere interno, i gruppi pastorali rappresentano il più forte elemento di persistenza e di continuità nei processi storici e giocano sempre un ruolo attivo nelle dinamiche sociali ed economiche. Nonostante vi siano periodi in cui la tendenza alla sedentarizzazione si fa più pressante e macroscopica (quando per esempio sorgono, tra Siria-Palestina e Mesopotamia, sullo scorcio del II millennio a.C., degli stati con una forte caratterizzazione gentilizia), i gruppi nomadi non scompaiono e anzi in alcune aree assumono un ruolo centrale e innovativo: per esempio in Transgiordania e soprattutto in Arabia, dove diventano protagonisti del commercio carovaniero su lunghe distanze (reso possibile, come si è detto, dall’utilizzazione del cammello), controllando il traffico dei profumi e delle spezie lungo le direttrici settentrionali.
Il quadro del Vicino Oriente che emerge dalle vicende di oltre due millenni di storia ripercorsi in quest’opera è un quadro di interrelazioni. In effetti, una nozione di Vicino Oriente non esisterebbe al di fuori di questa chiave interpretativa. Essa si materializza attraverso l’esistenza di stati che costruiscono la propria fisionomia attorno al rapporto tra una città e il suo retroterra rurale, si riconoscono nelle sue istituzioni, nei suoi templi e nelle sue divinità. Le città sono luoghi altamente simbolici, di frequente monumentalizzati e muniti di cinte murarie, con palazzi e luoghi di culto che sono al tempo stesso espressione dell’ideologia di corte ed efficienti macchine amministrative, che convogliano le risorse delle campagne, gestiscono la manodopera e cementano al tempo stesso il senso di appartenenza della popolazione alla comunità mediante rigidi calendari di festività e di celebrazioni religiose. L’ipotesi (tutt’altro che improbabile) di antiche leghe anfizioniche, che nella Mesopotamia protodinastica avrebbero politicamente unito tra loro alcuni importanti centri urbani, non muta questo quadro di comunità enucleate territorialmente, e ideologicamente motivate a mantenere la propria autonomia: dove naturalmente i fattori strutturali esercitano un forte elemento di coesione che si basa sul legame di gran parte della popolazione alla terra che lavora, alla scarsissima mobilità sociale e alla centralità delle istituzioni politiche e religiose, che ruotano attorno ad un sovrano e ad un sacerdote che hanno in mano tutte le leve del controllo sociale. I tentativi di creare formazioni statali di carattere regionale attraverso politiche di conquista, di annessione o di subordinazione si moltiplicano durante tutto l’arco della storia mesopotamica, come dimostra l’accesa conflittualità tra le città-stato protosumeriche o in seguito la competizione tra Ebla e Mari per il controllo delle vie commerciali tra Siria e Mesopotamia.
Con Sargon di Akkad si assiste alla creazione di un impero che supera i confini della Mesopotamia includendo vaste zone dell’altopiano iranico ad est e della Sira ad ovest: si tratta di un’esperienza durata circa due secoli, che inventa inedite formule di amministrazione provinciale, ma che crolla repentinamente, restituendo autonomia e iniziativa agli stati cittadini. Il regno della III Dinastia di Ur dura ancora meno, circa 100 anni, che conosciamo con un dettaglio incomparabilmente superiore a quello di qualsiasi altro periodo della storia vicino-orientale sulla base di oltre 100 mila tavolette cuneiformi: l’epilogo è di nuovo drammatico, ma è proprio la resistenza dei nuclei cittadini a determinare una ripresa con la dinastia amorrea di Hammurabi, che si insedia sul trono di Babilonia.
Si tratta anche qui di un periodo di grandi trasformazioni sul piano politico e sociale, con l’assunzione del potere da parte del gruppo etnico degli Amorrei, che ha origini tribali ma che si è integrato lentamente alla popolazione prevalente delle città del Sud, sumerica e in parte accadica. Proprio in virtù dei loro legami tribali, le dinastie amorree riescono a legittimare l’aspirazione ad un potere regionale: nel costruire artificiosamente le loro genealogie, tanto i sovrani assiri, quanto quelli babilonesi attingono al comune patrimonio della tradizione amorrea, ma è evidente che la loro ideologia affonda le proprie radici nella realtà urbana e riflette le trasformazioni che vi sono intervenute dopo il crollo degli imperi del III millennio a.C. I re babilonesi continuano a essere pastori dei loro sudditi, come già lo erano stati quelli sumerici, ma ora si caratterizzano soprattutto per essere “re giusti e retti”, garanti della stabilità di prezzi e tariffe, che assicurano la stabilità del paese, e impegnati in periodiche remissioni dei debiti nei confronti di una popolazione permanentemente afflitta da pesanti condizioni di soggezione creditizia; i re assiri, d’altra parte, si fanno assertori delle “libertà” cittadine, in pratica una promessa di sgravi fiscali che vanno inquadrati nelle politiche di riequilibrio dipendenti dallo straordinario incremento dei traffici mercantili promossi dalla capitale Assur.
Con il crollo della dinastia babilonese, a seguito di un’incursione degli eserciti ittiti che devasta Babilonia (1595), si aprono spazi alla competizione tra diversi stati di raggio regionale, gli Assiri, i Mittani (che dominano sull’alta Siria), gli stessi Ittiti (il cui regno occupa l’Anatolia centro-meridionale): le interrelazioni sono mediate a questo punto da centri di potere che si identificano nelle potenti cancellerie di questi regni, che guidano il delicato assetto delle relazioni internazionali, e soprattutto degli scambi mercantili, con forme di accentuata cerimonialità. L’Egitto entra in questa fase nell’arena politica vicino-orientale come un soggetto politico di primo piano e anzi come protagonista: la capitale egiziana di el-Amarna ci ha conservato gli archivi epistolari del faraone, alcune centinaia di lettere scritte su tavolette d’argilla in lingua accadica che documentano la rete dei rapporti tra l’Egitto, i grandi regni asiatici e le decine di piccoli regni siro-palestinesi sottoposti con alterne vicende a vincoli di soggezione politica o di vero e proprio vassallaggio nei confronti degli Egiziani o degli Ittiti. È uno scenario dominato dalle città-capitali, che in quanto tali simboleggiano l’autorità dei loro sovrani, legittimati a dialogare tra loro come fossero parte di un circolo esclusivo. Questa personalizzazione della politica, che non lascia spazio, nella documentazione ufficiale, ad altre voci che quelle dei sovrani nella gestione degli affari di stato, è un sintomo della tenuta generale del sistema di gestione politico-amministrativa dei regni di questo periodo: che continua a fondarsi su un rapporto tutto sommato equilibrato tra città e campagna, sulla centralità dell’economia templare e palatina e su meccanismi di fiscalità compatibili.
Il vero spartiacque della storia orientale si apre con l’eclissi di questo sistema, con il crollo dei grandi regni, con le invasioni dei Popoli del Mare e il passaggio alla cosiddetta età del Ferro. Tra la fine del II e l’inizio del I millennio scompare in Anatolia e in Siria-Palestina la civiltà dei palazzi, aprendo la strada a modelli di organizzazione territoriale meno strutturati e a società più mobili, dove si stemperano o scompaiono i vincoli di dipendenza personale tipici dell’età del Bronzo. È il periodo in cui si sviluppano le città fenice sulla costa siro-libanese e gli stati neo-ittiti e aramaici in Anatolia e nel Nord della Siria, mentre l’entroterra palestinese conosce una fase di profonda ristrutturazione, con un parziale reinsediamento delle zone più favorevoli e l’aggregazione di gruppi tribali da cui nasce il regno d’Israele. Anche nell’area mesopotamica si apre uno spartiacque con l’inizio dell’età del Ferro, ma questo investe soprattutto le forme dell’azione politica. Si tratta in sostanza della nascita dell’impero assiro: un impero costruito nell’arco di tre secoli, che tocca il suo apogeo tra VIII e VII secolo a.C., fino a conquistare l’Egitto, e cade, abbastanza repentinamente, nel 612 a.C., quando Ninive viene distrutta dalle armate congiunte dei Medi e dei Babilonesi. La creazione di province, l’opera tenace di deculturalizzazione nei confronti delle zone assoggettate, l’imposizione di divinità assire e la centralità imperiale del culto di Assur: sono tutti aspetti che riflettono l’originalità del progetto assiro, totalizzante fin nelle sue premesse ideologiche, rispetto ad altri progetti imperialistici del passato.
È soprattutto la dimensione dei fenomeni a dare la misura del cambiamento: l’estensione geografica della conquista; il ritmo annuale e il raggio delle spedizioni militari; la consistenza della leva militare; l’entità delle deportazioni e degli spostamenti di popolazioni; la ricchezza accumulata nelle città; l’apparato celebrativo del sovrano, che fa programmaticamente dell’arte un mezzo di persuasione ideologica e che si manifesta negli affreschi e nei bassorilievi dei palazzi; la circolazione inusitata dei beni di prestigio, che affluiscono a corte da regioni lontane; e così via. È la prima grande rivoluzione nelle forme della politica, che porta con sé, ancor più delle trasformazioni amministrative (dalla provincializzazione all’apparato militare) cambiamenti di fondo nella gestione territoriale delle risorse, e soprattutto muta, dal punto di vista culturale, la percezione che le genti coinvolte in questo processo hanno di se stesse. Ciò non riguarda tanto la popolazione autoctona delle aree rurali, dove i deportati non fanno altro che rimpiazzare la forza lavoro assente o insufficiente, impegnata nelle guerre; ma piuttosto le élites cittadine, i funzionari, i sacerdoti e gli scribi di corte, i detentori di quella cultura che per secoli e millenni aveva rappresentato un elemento di straordinaria continuità per l’identità delle genti mesopotamiche, conservata gelosamente nelle raccolte di templi e di privati e riversata da ultimo nella grande biblioteca di Ninive, che fortunatamente è giunta fino a noi. Gli eruditi di corte (i letterati, gli indovini, gli astrologi) compiono un grande sforzo di conservazione, di copiatura, di studio e di commento dei testi della tradizione, ponendosi al servizio delle ragioni del sovrano e del suo programma “civilizzatore”. Al di fuori di questi circoli ristretti, la lingua accadica viene intanto progressivamente sostituita, anche negli usi amministrativi, dall’aramaico, che meglio si piega alle esigenze della molta varietà di genti che compone l’impero.
Con la fine dell’impero assiro le città del sud della Mesopotamia si propongono come le depositarie più autentiche di quella cultura. A Babilonia, a Sippar, a Uruk, nel periodo neobabilonese, persiano, e poi in età seleucide, i templi hanno ancora le loro biblioteche e i loro eruditi che scrivono e padroneggiano il cuneiforme, più che mai produttivi; ma il funzionamento di quel mondo non è più lo stesso: i santuari, dove continuano a svolgersi rituali e sacrifici che ripercorrono tradizioni millenarie, sono diventate organizzazioni pressoché finanziarie, che distribuiscono prebende e incarichi, che hanno perso la loro centralità strutturale e che vanno perdendo a poco a poco anche il loro prestigio culturale.
L’ultima tavoletta cuneiforme esplicitamente datata, di cui abbiamo conoscenza, risale all’anno 75 d.C. ed è un almanacco astronomico: dopo di allora abbiamo solo, per un altro paio di secoli, rare testimonianze di tavolette in cuneiforme babilonese con traslitterazioni in alfabeto greco. Ne sapremmo di più sulla progressiva eclisse del cuneiforme e sulla produzione letteraria degli scribi mesopotamici durante il periodo persiano, se si fosse continuato a scrivere sull’argilla, invece che su supporti deperibili: per esempio su pergamena o su tavolette cerate, che già vediamo comparire nei rilievi assiri del palazzo di Assurbanipal a Ninive – siamo a metà del VII secolo a.C. – nelle mani di funzionari impegnati a stendere il rapporto di fine battaglia per il loro sovrano, contando i nemici uccisi o il bottino razziato. La deperibilità di questi nuovi supporti, l’uso dell’inchiostro o della cera, sono responsabili del silenzio quasi totale sulle trasformazioni della pratica scribale e sull’organizzazione della cultura in Mesopotamia di fine I millennio, non solo in termini di storia del pensiero, ma anche in termini di storia sociale. A questa penuria documentaria cerchiamo oggi di supplire attraverso una rilettura in chiave critica dei testi scientifici (soprattutto medici), filosofici ed esegetici di età ellenistica e postellenistica, redatti in greco e in aramaico (si pensi per esempio alle fonti rabbiniche), ricavando da questo che il pensiero mesopotamico continuò per secoli a rappresentare agli occhi del mondo antico un patrimonio di conoscenze vivente e non solo un’eredità culturale.
I limiti cronologici di quest’opera sono convenzionali, come del resto è inevitabile per trattazioni storiche di questa natura. Gli esordi della storia del Vicino Oriente antico sono illustrati a partire dalla nascita delle più antiche città-stato in Mesopotamia per le quali siano disponibili delle fonti scritte, e, per quanto riguarda l’Egitto, dal periodo delle prime dinastie del periodo thinita. Solo qualche accenno è dedicato alle fasi formative rappresentate dal fenomeno della pre e proto-urbanizzazione. Il limite inferiore è rappresentato dalla fine dell’impero persiano, con la presa di Alessandria e di Babilonia da parte di Alessandro Magno. La fase ellenistica non segna la fine della cultura mesopotamica, né di quella dell’antico Egitto, ma inaugura una nuova fase nei rapporti tra Oriente e Occidente mediterraneo di cui vengono ampiamente descritte le premesse.
Per quanto riguarda i criteri di datazione assoluta adottati nel testo, il lettore va avvertito del fatto che esiste ancora una notevole incertezza nel datare alcuni periodi, sia della storia vicino-orientale sia di quella egiziana, in particolare per quel che riguarda il III millennio a.C. I problemi riguardano sia la successione cronologica degli avvenimenti all’interno di ciascuna delle aree, sia i sincronismi tra l’una e l’altra. Per evitare un’eccessiva problematizzazione, che porterebbe il discorso su elementi tecnici inerenti alla durata di regni e dinastie, si è preferito riferirsi al sistema di date stabilite dalla cosiddetta “cronologia media”, tenendo presente che altri tipi di cronologie (molto discusse negli ultimi due decenni) porterebbero ad oscillazioni di oltre un cinquantennio in alto o in basso rispetto a quelle qui adottate. Benché i criteri di datazione archeologica si siano enormemente affinati nel corso degli ultimi anni (grazie soprattutto alla maggiore affidabilità interpretativa dei dati ottenuti dal C14), questi non possono concorrere che in modo relativo alla risoluzione della cronologia dei periodi storici. Per ricostruire la cronologia mesopotamica del II e I millennio a.C. ci si affida a precisi ancoraggi forniti da osservazioni astronomiche descritte nei testi cuneiformi e sull’attendibilità delle successioni dinastiche e del numero di anni di ciascun regno che troviamo sia nelle fonti babilonesi, sia in quelle assire: in particolare, per queste ultime, abbiamo liste di eponimi che arrivano fino alle fasi finali dell’impero. Per l’Egitto si dispone di vari tipi di liste dinastiche. Ma anche qui, i periodi arcaici sono quelli che presentano maggiori problemi.
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, Il Vicino Oriente Antico, Storia