Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Cinquecento: “La storia diventa veramente interessante…”
Nelle sue Osservazioni sul modo di studiare e scrivere la storia, Voltaire suggerisce di iniziare “uno studio serio della storia all’epoca nella quale essa diventa veramente interessante per noi, e quindi alla la fine del XV secolo...”. E nelle righe seguenti spiega il perché la storia diventi “veramente interessante” a partire dai decenni fra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento: l’avanzata dei Turchi e la conquista di Costantinopoli, la fioritura artistica e letteraria del Rinascimento, la diffusione della stampa, la scoperta dell’America e di nuove rotte per l’Asia circumnavigando l’Africa, la Riforma protestante e la conseguente lacerazione della cristianità occidentale, la costituzione di un sistema organico degli Stati europei nel quale “tutte le parti sono fra loro legate da una corrispondenza costante”, nonostante le guerre suscitate dalle ambizioni dei sovrani o dal fanatismo religioso.
Quello che Voltaire vuol dire è, in sostanza, che il Cinquecento è il primo secolo moderno, durante cui comincia a prendere forma il mondo come lui lo conosceva. Tra noi e Voltaire è trascorso un lasso di tempo grosso modo pari a quello che separa Voltaire da Colombo, circa 250 anni in entrambi e casi. Il nostro punto di osservazione è ovviamente molto diverso da quello del filosofo illuminista, eppure il suo giudizio rimane sostanzialmente condivisibile, e condivisibile mi sembra anche la scelta degli eventi e dei fenomeni che contribuiscono a fare del Cinquecento, e in particolare dei suoi primi decenni, uno spartiacque decisivo: mondializzazione della storia, divisione della cristianità occidentale, Rinascimento e avvio della rivoluzione scientifica, costruzione di un sistema pluricentrico di Stati sovrani.
Un secolo di transizione quindi? Ovviamente sì, come del resto tutti gli altri. Tuttavia il mutamento storico, anche se incessante, non è un moto rettilineo uniforme. Conosce lunghe fasi di relativa stabilità interrotte da improvvise accelerazioni, seguite talvolta da rallentamenti e anche involuzioni. Periodizzare, cioè individuare, nel flusso continuo del tempo, fasi storiche dotate di una fisionomia specifica, è un esercizio difficile ma una responsabilità alla quale lo storico non può abdicare. Sono le sfasature e le asincronie a rendere questo compiuto particolarmente arduo. I diversi aspetti del mondo storico – economia, religione, società, cultura… – non mutano con lo stessa velocità. Una periodizzazione proposta a partire dai ritmi della storia politica o religiosa può risultare poco pertinente se applicata alle vicende economiche o culturali. La concomitanza cronologica di discontinuità radicali in ambiti diversi –e la loro interconnessione – è una delle ragioni per le quali è forse meno banale di quanto non sembri l’affermazione secondo cui il Cinquecento è un secolo che segna una svolta – o per lo meno l’avvio di una svolta – decisiva per i destini dell’Europa e del mondo.
El mundo es poco: la rivoluzione colombiana
Qualche anno dopo le osservazioni di Voltaire, un altro esponente di primo piano dell’Illuminismo, il filosofo ed economista scozzese Adam Smith individua anch’egli nello snodo fra Quattro e Cinquecento un momento di svolta epocale, uno spartiacque drammatico in una storia che solo da questo momento può essere definita veramente mondiale, perché unificata dalle imprese di Colombo e Vasco de Gama: “la scoperta dell’America e quella della via verso le Indie Orientali attraverso il Capo di Buona Speranza sono i due avvenimenti più grandiosi e significativi che gli annali della storia umana ricordino”.
Il 1492 è tuttora considerato istituzionalmente il terminus a quo della storia moderna ed è una delle date che meglio resistono alla progressiva dissoluzione, nel corso della vita, delle nozioni apprese a scuola. In verità, negli ultimi decenni si è spesso preferito ridimensionare il significato di questa svolta, asserendo che il 1492 è stato una “falsa frattura storica”, perché per gli uomini del tempo sono stati altri gli avvenimenti che hanno avuto maggior risonanza immediata: la caduta di Granada, la morte di Lorenzo il Magnifico o la calata di Carlo VIII. Forse è vero, ma l’idea di subordinare interamente l’interpretazione a posteriori ad opera dello storico all’immediatezza della percezione del vissuto dei contemporanei non convince.
E comunque fin dai decenni del Cinquecento gli osservatori più attenti avevano realizzato che la scoperta di un Nuovo Mondo da parte degli Europei implicava l’ingresso in un tempo nuovo: “Siamo entrati in questo nostro tempo così nuovo e così diverso da ogni altro”, scriveva ad esempio Bartolomé de Las Casas.
Le esplorazioni del Quattro-Cinquecento provocano una vera e propria rivoluzione spaziale che si traduce, contraddittoriamente, sia in una vertiginosa dilatazione degli orizzonti, perché destini individuali e collettivi si giocano ormai su scala planetaria, sia una compressione degli spazi, perché le dimensioni e i contorni del mondo appaiono ormai definiti e misurabili: “A partire dal 1492” – scrive Tzvetan Todorov – “il mondo è chiuso… Gli uomini hanno scoperto la totalità di cui fanno parte, mentre sino a quel momento essi erano una parte senza un tutto”. El mundo es poco, come aveva già intuito Colombo, ingannandosi sulle sue dimensioni fisiche ma cogliendo in fondo nel giusto. Almeno nell’ambito del Vecchio Mondo – Asia, Europa, Africa –contatti culturali, rapporti politici e scambi commerciali non erano mai mancati, nel corso dei millenni, e la storia di ciascuna delle grandi civiltà non è comprensibile se non si tengono presenti le interazioni con le altre. Tuttavia, con i viaggi e le scoperte del Quattro e Cinquecento, vi è un salto di qualità, un’accelerazione senza precedenti verso una storia effettivamente mondiale. Il senso forse più profondo del Cinquecento risiede forse proprio nell’avvio di un processo planetario di integrazione economica, politica e culturale fra spazi e popoli che sfocerà, nel XIX secolo, in una vera e propria globalizzazione.
La Riforma
Se il 1492 rappresenta l’avvio di un processo di unificazione, per quanto discontinuo e drammatico, il 1517 segna al contrario l’inizio della dissoluzione dell’unità spirituale della Res Publica Christiana. Per oltre mille anni quella entità che noi definiamo oggi Europa o Occidente si era definita e pensata innanzitutto come cristianità, riconoscendo nella dimensione religiosa l’aspetto qualificante della sua identità verso l’esterno e della sua pur problematica unità interna. E ancora, almeno nei primi due secoli dell’età moderna, gli Europei non immaginano il versante culturale e ideologico della loro espansione mondiale come un’opera di civilizzazione – sarà così più tardi, nel Sette e Ottocento – ma come dovere di evangelizzazione, di diffusione di una Rivelazione vissuta come verità ultima. Al di là degli oceani, gli Europei, oltre alle spezie, cercano, secondo la celebre frase forse apocrifa di de Gama, cristiani. Cristiani antichi e perduti con i quali ricongiungersi, come quelli del mitico regno di Prete Gianni o cristiani nuovi, ovvero pagani e idolatri da conquistare alla vera fede e da condurre alla salvezza. La perdita dell’unità religiosa comporta quindi una ridefinizione dell’identità europea e il fatto che la rottura di questa unità all’inizio del Cinquecento sia il precipitare di tensioni da tempo operanti nella cristianità, nulla toglie al suo carattere drammatico.
Ma non è solo l’unità dell’Europa a essere messa in questione. Oggi, al di là delle contrapposizioni confessionali, si tende a vedere nella Riforma protestante e nella Controriforma e Riforma cattolica, due risposte “diverse, più rivoluzionarie o riformistiche […], a un unico problema, quello della modernità, in un processo che vede nella sfera privata l’affermarsi di un nuovo rapporto tra la coscienza e il sacro. Privato della sua inserzione tradizionale nel cosmo, l’uomo-individuo moderno pone in primo piano il problema della ‘salvezza’ individuale, il problema teologico della ‘grazia’ che diventa centrale nei secoli dell’età moderna, sia nei paesi cattolici […] sia nei paesi riformati: l’uomo si salva per i propri meriti, per le proprie buone opere, o la corruzione dovuta al peccato originale impone l’abbandono alla predestinazione o a un’imperscrutabile misericordia divina””, scrive lo storico Paolo Prodi in Introduzione allo studio della storia moderna. La frattura rappresentata dall’epoca della Riforma e Controriforma rappresenta in questa prospettiva un’altra accelerazione drammatica di processi più che secolari, quella verso una sempre maggiore trascendenza, separatezza di Dio rispetto alla Creazione, dell’uomo rispetto al Cosmo. Questa de-sacralizzazione del mondo – e quindi anche della società e della natura – spalanca prospettive – o abissi – prima impensabili nellla riflessione politica, filosofica e scientifica.
Lo Stato e il sistema degli Stati
Per quanto riguarda la dimensione politica, il Cinquecento vede da un lato l’affermazione definitiva dello Stato territoriale moderno – per lo più in forma monarchica, come modulo di base dell’Europa moderna e contemporanea, e dall’altro l’articolazione di questi Stati in un sistema organico di relazioni, in equilibrio certamente instabile, ma comunque durevole. Anche in questo caso gli sviluppi cinquecenteschi sono il punto d’arrivo di processi con radici profonde, e inoltre, come per le scoperte geografiche e la Riforma, la discontinuità rispetto ai secoli precedenti è netta. Il Cinquecento chiude una fase plurisecolare, quella feudale e dei poteri con aspirazioni universali – papato e impero – e ne apre un’altra destinata a durare anch’essa alcuni secoli e che forse solo ora sta tramontando: l’era appunto del sistema degli Stati nazionali, prima europeo e poi globale.
Almeno nell’Europa occidentale, nel Cinquecento, le monarchie territoriali impongono, verso l’esterno e verso l’interno, la loro sovranità, parola chiave di questo secolo. Sul primo versante, la partita in fondo è già stata decisa, tra la XIII e XIV secolo, con le crisi concomitanti del papato e dell’impero, anche se proprio nella prima parte del Cinquecento, l’elezione di Carlo V nel 1519 era sembrata per un po’ ridare corpo al fantasma imperiale.
Sul fronte interno gli sviluppi sono più contrastati. L’aristocrazia, i patriziati e la Chiesa riescono a conservare gran parte della loro influenza sociale, della ricchezza economica e anche una porzione certo non irrilevante del potere politico. Il Cinquecento e parte del Seicento sono punteggiati da sollevazioni e rivolte nobiliari o cittadine – promosse e guidate cioè dalle oligarchie urbane – variamente intrecciate con altre istanze, soprattutto religiose, dalla rivolta dei comuneros alla Fronda, passando attraverso il Pellegrinaggio di Grazia o le guerre di religione in Francia. Ma ognuna di queste crisi si risolve di fatto in un rafforzamento dell’autorità centrale e del potere della corona. E in ogni caso il diritto/dovere di rivolta al quale l’aristocrazia non intende rinunciare si declina ormai comunque all’ìnterno dello Stato. La posta in gioco di queste sollevazioni non è la distruzione delle istituzioni centrali ma la loro conquista.
Ma se ormai “ogni regno è un impero”, per parafrasare l’ Act of Restraint of Appeals del 1533, attraverso il quale l’Inghilterra afferma la sua piena sovranità e indipendenza da ogni istanza esterna, ciò non significa che ogni idea dell’esistenza di una dimensione sovranazionale sia andata perduta con il declino dell’impero e la divisione confessionale. Questa dimensione, a partire dall’ultimo scorcio del Quattrocento si concretizza in un sistema di Stati: “La grande importanza storica dell’impresa italiana di Carlo VIII di Francia nel 1494-95” – ha scritto Giuseppe Galasso – “stette, appunto, nell’aver dato avvio al moderno sistema degli Stati europei […] che, stretto allora non si sarebbe più dissolto, ma si sarebbe alla fine trasformato in un sistema mondiale”.
L’orgoglio dei moderni
Il sistema degli Stati europei ha il suo corrispettivo culturale nella Respublica literaria europea che prende forma all’inizio del Cinquecento, anch’essa, secondo lo spirito dei tempi, in forma monarchica, quando Erasmo da Rotterdam viene incoronato “monarca di tutta la Repubblica delle Lettere” (Amerbach).
Questo spazio europeo di confronto intellettuale è tanto più necessario dopo la frattura confessionale che ha diviso l’Europa in campi contrapposti. Proprio questa frattura e la crisi della Riforma, insieme alla crisi del sapere europeo provocata dall’ampliamento degli orizzonti geografici e antropologici, è all’origine di quel sovvertimento intellettuale etichettato solitamente come “rivoluzione scientifica”. Quest’ultima viene per lo più accreditata al Seicento, e con buone ragioni, ma le precondizioni intellettuali e spirituali che la rendono possibile (e a dire il vero anche alcune delle sue prime decisive acquisizioni, basti pensare a Copernico) sono cinquecentesche.
Come nel campo della politica, l’accentuata trascendenza apre spazi all’autonomia della riflessione e della pratica politica, così in quello della filosofia naturale il fatto che Dio sia visto “non tanto come colui che interviene continuamente nel destino dell’uomo, quanto come creatore di un mondo da lui dotato di leggi sue proprie” (Prodi), incoraggia e legittima l’indipendenza dell’indagine scientifica, che ha per oggetto appunto la scoperta di queste leggi, dall’annuncio della verità rivelata.
Il sapere ereditato dalla triplice antichità – greca, romana e giudaico-cristiana – su cui l’Europa medievale e umanistica si era fondata, viene nel frattempo messo profondamente in discussione dalla sbalorditiva ondata di novità che sommerge l’Europa in seguito alle scoperte: “Né solo” – scrive Francesco Guicciardini – “ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche anzietà agli interpreti della Sacra Scrittura…”. Né la sapienza degli autori classici – fonte primaria di ispirazione per gli “scrittori di cose terrene”, né la Rivelazione offrono lumi per interpretare la nuova realtà, anzi, sono da essa messe in discussione.
Il ridimensionamento del valore indiscutibile del sapere della tradizione non genera comunque solo incertezza, disorientamento e inquietudine. È anche il movente per un nuovo orgoglio dei moderni. La querelle des Anciens et des Modernes è anch’essa un episodio che appartiene al Seicento, ma la consapevolezza di vivere un’epoca e un’esperienza senza precedenti è già diffusa tra gli uomini del Cinquecento: “Acquistiamo più conoscenza in un giorno grazie ai portoghesi… che in cent’anni grazie ai romani”.