Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’epoca drammatica e convulsa delle guerre d’Italia, inaugurata nel 1494 dalla spedizione di Carlo VIII che - come registra con dolente impassibilità Guicciardini - segna l’inizio d’“innumerabili calamità, di orribilissimi accidenti”, coincide con un periodo di straordinaria fioritura culturale che, mentre segna la conclusione delle grandi illusioni cosmopolite e universalistiche dell’umanesimo, avvia il processo di formazione delle letterature nazionali moderne, irradiandosi, con tempi ed esiti diversi, dall’Italia verso il resto d’Europa.
L’epoca drammatica e convulsa delle guerre d’Italia, inaugurata nel 1494 dalla spedizione di Carlo VIII che - come registra con dolente impassibilità Guicciardini - segna l’inizio d’“innumerabili calamità, di orribilissimi accidenti”, coincide con un periodo di straordinaria fioritura culturale. Nel corso del Cinquecento, infatti, perdono vigore le grandi illusioni cosmopolite e universalistiche dell’umanesimo, e si avvia il processo di formazione delle letterature nazionali moderne, che si irradia, con tempi ed esiti diversi, dall’Italia verso il resto d’Europa. In effetti la nuova trattatistica critica, legata da una parte alla riscoperta Poetica di Aristotele e dall’altra alla grande e ininterrotta tradizione della retorica, fornisce un’adeguata teoria entro la quale si ordinano le letterature nazionali sull’esempio del classicismo greco e latino. L’imitatio, ossia la dottrina della riproposta dei modelli antichi nelle nuove lingue nazionali, è insieme il principio dell’aemulatio, ossia della gara e del superamento. Il ritorno ai classici predicato dall’umanesimo del Quattrocento italiano diviene il paradigma di una nuova esperienza tutta moderna. Va da sé, a questo punto, che all’interno della diversificata realtà europea il Rinascimento abbia modi dissimili e sviluppi tutt’altro che omogenei, anche per il diverso rifrangersi della cultura medievale e la forza perdurante dei suoi costumi e delle sue credenze.
Il Rinascimento è a tutti gli effetti un fenomeno italiano e, almeno per la sua fase più splendida, di breve durata, dal momento che già nel 1527 il sacco di Roma mette drasticamente fine all’ambizioso sogno di unificazione politico-culturale dell’età di Leone X, lasciando i letterati in una condizione di permanente incertezza e precarietà. Ma, per quanto devastata dagli eserciti stranieri in lotta per la supremazia, anche dopo questo terribile episodio la penisola resta il centro vitale di elaborazione di una cultura che si pone come obiettivo la fondazione di una teoria generale della letteratura moderna: dall’Italia, giunta all’apice della propria forza espansiva nella sfera artistica e letteraria, il clima rinascimentale migra per l’Europa, assumendo caratteri distinti secondo le singole realtà politico-culturali. In particolare, le discussioni sull’unità linguistica, non più differibile nell’età della piena affermazione della stampa, costituiscono il punto di partenza comune nella nascita delle letterature nazionali moderne: se in Italia la “questione della lingua”, codificata dalla soluzione letteraria di Bembo e dalla sua consacrazione dell’esempio petrarchesco, risulta - per così dire - un risarcimento rispetto alla frammentazione e al particolarismo politico, nelle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Inghilterra) l’unificazione linguistica si lega invece proprio al consolidamento in senso assolutistico dello Stato, mentre in Germania costituisce uno degli effetti della predicazione di Lutero, straordinario inventore della lingua letteraria che sta alla base del tedesco moderno.
La ricerca di un’unità politica, religiosa o linguistica rappresenta anche, d’altra parte, una risposta alle grandi lacerazioni che attraversano il Cinquecento, e soprattutto alla scissione della Riforma protestante che divide il mondo della cristianità occidentale, portando a compimento un processo che era già iniziato alla fine del Quattrocento. Ma l’inquietudine religiosa percorre tutto il secolo, tra il dilagare dell’“eresia” protestante e la controffensiva della Chiesa di Roma: la seconda metà del Cinquecento appare dominata dal Concilio di Trento e dalla riorganizzazione politica e religiosa promossa dalla Riforma cattolica, in un lungo processo nel corso del quale l’ansia di rinnovamento delle prime generazioni tende nel tempo a ripiegarsi su se stessa, contraendosi in un rigido apparato repressivo. Tuttavia anche per conservare viene richiesto un eccezionale sforzo innovativo, dal momento che le vecchie strutture istituzionali non hanno retto di fronte alla sfida di Lutero e di Calvino. I Gesuiti, che, a partire dalla metà del Cinquecento, formano l’élite intellettuale della Riforma cattolica, si assumono così il compito di affiancare al disciplinamento delle coscienze un’opera capillare di riconquista culturale da attuare sul campo attraverso la creazione di una fitta rete di scuole e collegi, nei quali educare le future classi dirigenti. Sul piano più propriamente letterario, la pedagogia gesuitica - a cui si lega, forse per la prima volta, la prassi di un’istituzione scolastica internazionale, dalla Spagna all’Europa orientale - ripropone le istanze di un classicismo moralistico che però non esclude il ricorso alle risorse dei sensi, unendo al docere didascalico del pensiero il movere affettuoso dell’immagine e della metafora. È proprio Ignazio di Loyola, il fondatore dell’ordine, a raccomandare di materializzare sensibilmente la metafisica, visualizzandola attraverso la compositio loci nella ricostruzione di uno spazio interiore. In questo modo la cultura gesuitica apre la strada all’analisi introspettiva della coscienza moderna, che comincia con il Rinascimento e, nell’arco del XVI secolo, trova due campioni straordinari quanto diversi in Montaigne e in Tasso: se il primo, dall’alto della torre del suo castello a Périgord, indaga attraverso se stesso l’universo mobile della soggettività, il secondo, dalla sua “prigione” ferrarese, ne sperimenta invece la controparte notturna, l’insidia della scissione, la “melanconia” esistenziale. E del resto il mondo della malinconia viene esplorato tanto dai filosofi quanto dai medici: è il mondo di Saturno, il mondo del ripiegamento interiore e della sterilità, che i nuovi moralisti indagano a fianco dei poeti. Il teatro della coscienza viene analizzato nel movimento e nel conflitto degli “umori”, cioè degli elementi che costituiscono l’uomo e il suo microcosmo, specchio psicologizzato del più grande macrocosmo. La nuova visione copernicana non modifica ancora l’immagine dell’uomo così come la propongono l’aristotelismo e il platonismo nelle loro combinazioni più o meno eclettiche. Accanto al classicismo “apollineo” di Raffaello o Ariosto - ma i Cinque canti sono già oltre l’ironia vitale dell’Orlando Furioso-, vi è anche un classicismo “dionisiaco” legato al pathos, al movimento drammatico delle emozioni, all’esplorazione degli spazi profondi e misteriosi dell’io: entro quest’orizzonte si situa per l’appunto il romance eroico e introspettivo della Gerusalemme Liberata, con la sua iconicità intima e patetica in cui la voce del narratore si adegua a una prospettiva teatrale partecipando in prima persona agli eventi narrati.
L’esperienza poetica e critica di Tasso è insieme culmine e sintesi di un lungo periodo di discussioni e ricerche intese a trovare una mediazione tra la fedeltà all’insegnamento di Aristotele e il gusto “isvogliato” dei moderni. E che dire della vitale sperimentazione di Ronsard e, accanto a lui, della Pléiade? In ogni ambito i letterati del Cinquecento sembrano optare per un classicismo che si anima di nuove ragioni: la rinascita dell’epos, legata al mito di un’Europa mediterranea e al processo storico di neofeudalizzazione, riscopre i temi dell’eroe, dell’onore e della guerra, ma li intreccia agli elementi avventurosi e sentimentali derivati dal romanzo ellenistico e dalla tradizione cavalleresca, proprio nel tentativo di definire in modi nuovi la classicità omerica e virgiliana.
Intanto, sul fronte della riflessione critica, dopo l’ingresso ufficiale di Aristotele nella cultura del Rinascimento (fra la traduzione della Poetica, apprestata nel 1498 da Giorgio Valla, e il primo commento del 1548), un dibattito vivace e articolato promuove la fondazione di uno spirito critico moderno, attualizzando i paradigmi del pensiero aristotelico in rapporto alla pluralità dell’esperienza.
All’estetica platonica, vaga e dogmatica nella sua ripugnanza alla varietà e al molteplice, e alle poetiche di ascendenza oraziana fa così riscontro vittorioso il programma di Aristotele, ricco di concrete e lucide distinzioni, regolate sempre da criteri razionalmente scientifici. E proprio l’apporto della nuova dottrina filologica di Trissino, Speroni, e Castelvetro, con il suo senso del passato riscoperto o risorto, favorisce l’aggiornamento della Poetica aristotelica, quanto più essa sembra adattarsi all’universo dei moderni e fornire l’unità di misura critica per scrutinare i nessi o i grovigli tra poesia e vita, parola e prassi. Il Cinquecento è anche il secolo di una scienza filologica sempre più rigorosa che, dopo lo splendore delle generazioni umanistiche, soprattutto in Francia, in Inghilterra e in Germania, si rivolge tanto ai testi antichi quanto e più ancora al testo sacro della Bibbia e alla sua interpretazione. La razionalità critica aggredisce così anche la verità storica della parola divina, invoca l’esattezza e la libertà della coscienza.
In questa dimensione di pensiero si muovono e crescono i problemi più appassionati della teoria letteraria del Cinquecento: dalla mimesi, che investe non più semplicemente un fenomeno testuale ma tutta la sfera emotiva dell’uomo, alla catarsi come processo antropologico d’identificazione tra immagine e coscienza che contempla, fino al meraviglioso che deve rappresentare la magnificenza e la solennità dell’inatteso in modo sempre coerente al disegno della peripezia. Con pari acutezza si discute la natura morale e gnoseologica della poesia, il divario ontologico fra l’universale poetico e il particolare storico, l’ardua conciliazione del verisimile idealizzato con l’attendibilità razionale, giungendo a definire un’ampia tassonomia che accanto ai generi consacrati dalla tradizione aristotelica, ossia l’epica e la tragedia (ma l’elemento drammatico proviene ora anche dalla storia, sicché il teatro può scegliere la stessa realtà contemporanea come luogo dei conflitti), fa spazio anche a tipologie nuove come il romanzo o la tragicommedia. Così ai vecchi generi si aggiungono nuove forme e nuovi processi combinatori, mentre al mondo della fantasia si aggrega anche quello della storia e della sua verità fattuale. Il teatro diventa allora uno dei luoghi in cui si rispecchia e si indaga una storia nazionale, nel passato come nel presente.
Per quanto riguarda il linguaggio lirico e quello della prosa letteraria, già negli anni Venti Bembo, sostituendo la Poetica aristotelica non ancora operante con un’opzione platonico-ciceroniana, elabora un codice normativo attraverso una scelta genialmente storica. Le Prose della volgar lingua, per l’appunto, ordinano e sistemano l’universo delle forme letterarie, assumendo ad archetipo assoluto il Petrarca e il Boccaccio attraverso un triplice processo di semplificazione, accentramento e intensificazione, con cui sembra chiudersi definitivamente ogni ipotesi prammatica di osmosi tra scrittura e oralità, letteratura e uso. Tuttavia la codificazione di Bembo, per quanto destinata a prevalere tanto sul piano linguistico quanto su quello retorico, trova contestazioni e dissensi, provenienti soprattutto da fronti culturali divergenti, inclini piuttosto alla commistione dei linguaggi, al pluristilismo e alla sperimentazione, nell’orizzonte di quello che è stato definito, volta per volta, il “controrinascimento” o l’“antirinascimento”. Ma, se anche la tendenza al coagulo delle forme finisce con l’imporsi quanto più ci si inoltra nel secolo, l’allargamento della mappa della produzione letteraria prova che non si tratta di un superamento dialettico delle alternative, anche per la persistenza, sul piano del dibattito critico, di istanze platoniche a più valenze che proclamano il primato della natura sull’arte come entusiasmo, eros e vitalità.
Lo stesso ritratto ideale del perfetto gentiluomo, delineato nel Cortegiano di Castiglione, è una sorta di mito platonico, trasferito però nell’universo sociale e mondano della corte, con il suo rituale pubblico di comportamenti e relazioni mutevoli.
Nell’universo ludico della festa rinascimentale ogni uomo di corte si adegua a un protocollo, alla parte assegnatagli da una raffinata etichetta, inventando una maschera da indossare con totale coerenza, perché ogni gesto riproduce il carattere di prestigio a esso legato, in quanto simbolo della gerarchia del potere. Il teatro delle apparenze risulta quindi garantito dalla perfetta identità tra il soggetto e il ruolo che di volta in volta esso si trova a rappresentare, mentre l’ideale della “sprezzatura” diviene il codice comportamentale più adeguato per tale gioco di ruoli, in un difficile e mobilissimo equilibrio tra naturalezza e artificio, spontaneità e finzione, verità e dissimulazione. Così il Cortegiano rifugge da ogni normativa scolastica, affidandosi piuttosto, platonicamente, a un dialogo aperto e fertile, capace d’inverare i suoi moventi edonistici nella difesa conflittuale di opposti argomenti. Ma di questo sogno arioso e magnanimo sopravviverà soltanto, con il mutare del clima culturale e delle situazioni politiche contingenti, un’ideologia che analizza i rapporti sociali come “forma del vivere”, rintracciando nella sprezzatura di Castiglione le premesse esplicite dell’inganno e della concorrenza spietatamente cortigiana, in uno spazio sempre più buio, già pronto ad accogliere la “dissimulazione onesta”. Al dialogo si sostituisce di conseguenza una trattatistica minuziosa, in cui spira una temperie più dimessa e comune: se il Galateo di Della Casa, con la sua dettagliata e manualistica normativa, corrisponde meglio alle esigenze di una società aristocratica in crisi, la fortunatissima Civil conversazione di Guazzo - ormai al declinare del Rinascimento - auspica addirittura un’integrazione della classe nobiliare con gli altri ceti, ipotizzando un modo di favellare che valga non solo nel mondo cortigiano, ma anche nei più modesti interni “borghesi”.
La corte, peraltro, non è soltanto il luogo della “conversazione” e della festa, ma anche il centro della vita politica e dei rapporti di potere: alla riflessione “sociologica” sul perfetto cortigiano si deve dunque affiancare l’analisi e la definizione del principe ideale. Il Rinascimento è per l’appunto il secolo in cui, con Machiavelli e Guicciardini, si afferma insieme alla storiografia moderna una scienza politica nuova, legata alle leggi e ai conflitti della realtà. Nel pensiero vigoroso e implacabile dell’autore del Principe, la nova methodus (come la chiamerà poi Bodin) rinnova attraverso “l’esperienzia delle cose moderne” la “lezione delle antique”, trasformando il concetto umanistico d’imitazione in uno studio critico del passato che riscontra di volta in volta i paradigmi storici con la “verità effettuale”. Ma per assicurare nella prassi la vittoria della virtù sulla fortuna non è sufficiente la razionalità: per quanto ferma e acuminata, essa deve sempre unirsi all’impeto, alla gagliardia, alla violenza generatrice di vita, secondo l’emblema - caro a Machiavelli - del centauro che denota non solo il volto ferino della lotta politica, ma la stessa natura duplice dell’uomo.
Rispetto al vitalismo machiavelliano, l’uomo di Guicciardini, arroccato nella difesa del proprio “particulare” dagli assalti della fortuna, sembra collocarsi nell’orizzonte desolato di un pessimismo senza riscatto. Eppure, proprio dal risoluto antiumanesimo di Guicciardini, negatore di ogni verità universale, nasce il grandioso sforzo ermeneutico della Storia d’Italia, con la sua architettura organica e calcolata, retta anche da un’inesorabile logica narrativa. Così, mentre l’opera di Machiavelli - pur messa all’Indice e tacciata di empietà - fornirà ai teorici successivi della “ragion di stato”, da Botero a Paruta, i presupposti di un’autonoma scienza della politica, il capolavoro di Guicciardini potrà costituire il modello insuperabile della storiografia laica dei secoli a venire. Intanto, già nel Cinquecento il campo d’indagine della storia si allarga verso spazi e oggetti radicalmente nuovi, arricchendosi di informazioni sui mondi esotici e primitivi delle Americhe e dell’Oriente, grazie alle relazioni dei viaggiatori (presto raccolte nella grande silloge di Ramusio) o dei missionari, per i quali la diffusione della fede non è meno importante, in certi casi, di uno studio quasi etnografico che fa conoscere tradizioni diverse dal filone classico-cristiano incentrato nel Mediterraneo, dando luogo anche a forme singolari di sincretismo culturale, per esempio nella predicazione dei Gesuiti.
Nel corso del Cinquecento, il pensiero di Platone non viene soppiantato da quello aristotelico, ma convive con esso secondo varie sfumature spaziali e temporali, mentre parallelamente, a fronte di una vigorosa ripresa dello scetticismo, si moltiplicano le concordiae tra le scuole filosofiche.
Entro la stessa temperie si colloca la fortuna cinquecentesca della mnemotecnica che esplora i nessi analogici tra parola e immagine, così come il successo che arride, proseguendo poi per tutto il secolo successivo, alle discipline connesse dell’emblematica e dell’impresistica (di cui Paolo Giovio è il primo a fornire un prontuario nel Dialogo dell’imprese militari et amorose del 1555), ove la mistica della sapienza riposta, unita al razionalismo analitico della retorica, divengono strumenti di un raffinato ed esoterico gioco di società. Ma il processo di fusione fra tradizioni di pensiero differenti risulta ancora più evidente nell’universo dell’enciclopedismo scientifico: dal De revolutionibus copernicano, che a metà Cinquecento infrange la solida compattezza del cosmo aristotelico - tolemaico, sino all’affermazione della nuova scienza, che individuerà nella matematica lo strumento d’indagine della natura, la rivalutazione dell’esperienza diretta nello studio e nella catalogazione del mondo naturale si accompagna inestricabilmente al riemergere di concezioni magico ermetiche, mistiche e neoplatoniche. Sull’esempio di quanto accade nel mondo della pittura dove, dopo Raffaello e Michelangelo, si afferma lo stile della cosiddetta Maniera, anche nella letteratura e nell’universo delle forme culturali s’impone un gusto, uno stile della raffinatezza e dell’introspezione esasperata, a cui molti oggi amano dare il nome di manierismo. La cosa certa è che la soggettività sta cercando nuove forme di espressione, con una libertà che vuole definirsi attraverso un dialogo nuovo con la tradizione e i suoi canoni formali istituzionalizzati. In tutto questo ha forse anche parte il problema di una religiosità più individuale, in antitesi con i principi d’ordine imposti soprattutto nei Paesi cattolici dalla Controriforma, anche nella sua prima versione, intensa e severa, di Riforma cattolica.
Fra queste tensioni la letteratura del tardo Rinascimento tenta di esplorare il proprio spazio inventivo con un nuovo senso della lirica e con un impulso intimamente drammatico che si esprime tanto nel teatro quanto in un nuovo genere romanzesco, in parallelo e poi in contrapposizione con l’epos delle origini e la sua riproposizione nel presente di Carlo V e di Filippo II. Ma anche in questo caso la modernità continua a riconoscersi attraverso il rapporto con il passato e con il suo museo straordinario di idee, di figure e di temi.
Di tutto questo può essere un paradigma quasi simbolico la cosmologia magica e copernicana di Giordano Bruno, con il rogo che chiude tragicamente a Roma la sua vita di nomade europeo, proprio nell’anno 1600, mentre già sta nascendo la nuova scienza di Galilei e il linguaggio non più magico della matematica. Le aspirazioni e le conquiste si intrecciano ancora ai conflitti e alle contraddizioni della coscienza e della società.