Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una filosofia del XIX secolo?
Secondo gli schemi più diffusi la filosofia dell’Ottocento (ma c’è una filosofia del XIX secolo?) sembra rappresentare una delle smagliature più curiose tra le tendenze di un’epoca (in politica, scienza, tecnologia, economia) e il pensiero dei filosofi. Più che in ogni altra epoca precedente, l’uomo sembra sottomettere la natura trasformando questo secolo in un trionfo della tecnologia, popolando la Terra di macchine a vapore, edifici di metallo e di cristallo, illuminandola coi prodigi del gas e dell’elettricità, solcando il mare con navi corazzate e il cielo con aerostati, scoprendo nuove leggi del mondo fisico, stabilizzando le tassonomie del mondo animale, colonizzando tutti i continenti, debellando infermità millenarie con i prodigi della chimica, signoreggiando dunque il mondo della materia e arricchendo la natura di infiniti nuovi oggetti creati dalla tecnologia.
Invece le grandi costruzioni filosofiche paiono celebrare lo Spirito, il Sentimento, l’Arte, la Storia, elaborando un’idea di sapere che non ha nulla a che fare con la conoscenza quale la praticano gli uomini di scienza.
Il filosofo professionista
Se le cose stessero davvero così, il fenomeno sarebbe sociologicamente spiegabile. È infatti in questo secolo che nasce una figura curiosa, ignota ai secoli precedenti, e cioè quella del “filosofo professionista”, professore universitario della propria disciplina. Aristotele, il filosofo per definizione, si occupava del sapere in generale, dal moto degli animali alla natura dei cieli. Nei secoli medievali c’erano stati i professori d’università, ed erano teologi, maestri di logica o di retorica, ma nessuno di essi faceva soltanto filosofia. Nel Rinascimento si filosofava riscoprendo testi antichi, proponendo nuovi strumenti concettuali per indagare il mondo naturale, discutendo di medicina, di astronomia, persino di scienze fisiche e di meccanica: Bacon, Galileo, Cartesio, Pascal o Locke non avevano molto in comune con un professore di filosofia ottocentesco.
Nel Settecento essere “philosophe” era una scelta intellettuale e morale, non una professione. Nel XIX secolo sembra invece che quelle scienze naturali che un tempo erano oggetto di discorso filosofico si siano definitivamente emancipate e la filosofia cerchi uno spazio autonomo. La filosofia potrebbe, e per alcune correnti lo fa, trasformarsi in riflessione sul metodo scientifico o sui fondamenti delle matematiche; ma in altri casi si pone come sapere autonomo e superiore, unica chiave per la comprensione del reale, capace di irreggimentare, limitare e talora deprimere le conoscenze settoriali.
Kant lascia al nuovo secolo una proposta fondamentale: se abbiamo esperienza del mondo è perché nel Soggetto esistono strutture del conoscere che del mondo non sono lo specchio passivo bensì l’attività legislatrice. La filosofia si pone ora il problema di come questo Soggetto “crei” il mondo: si tratta di capire non come sia il mondo ma quali siano le operazioni fondamentali attraverso le quali il Soggetto lo costituisce, e questo può dircelo solo la riflessione filosofica. Il resto, come si dirà ancora al tramonto del secolo e all’alba del successivo, la capacità di scoprire il siero antirabbico, di far muovere una macchina, di illuminare elettricamente una città, dipende da “pseudoconcetti” che con la filosofia, nel suo senso più alto, non hanno nulla a che fare. Se un tempo la filosofia era ancella della teologia, ora ogni forma di sapere, umano e divino, dovrebbe diventare ancella della filosofia e demandarle il compito non solo di spiegare come si conosce quello che ci appare, bensì come tutto quello che ci appare sia effetto dell’attività legislativa del Soggetto.
Lo Spirito del Tempo
C’è da stupirsi se, presa da tale delirio di onnipotenza, la filosofia dei professori paia separarsi dalle altre forme di conoscenza che il secolo pratica in modo più o meno empirico, e nel cercare di porsi al di sopra di esse ne rimanga stratosfericamente separata? Eppure non si può capire il pensiero del XIX secolo nelle sue svariate sfaccettature se non si vede come uno “Spirito del Tempo” (idea molto cara ai filosofi idealisti) avvolga e unifichi in qualche modo questi universi di sapere apparentemente separati.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel
La poesia drammatica
Estetica, Parte III
Il materiale propriamente sensibile della poesia drammatica, come abbiamo visto, non è solo la voce umana e la parola pronunziata, bensì tutto l’uomo che non solo esterna sentimenti, rappresentazioni e pensieri, ma, coinvolto in una azione concreta, opera secondo la sua esistenza totale sulle rappresentazioni, i propositi, l’agire e il comportamento di altri ed esperimenta analoghe reazioni oppure di fronte ad esse riafferma se stesso.
Di contro a questa determinazione, che è fondata sull’essenza della poesia drammatica stessa, rientra oggigiorno nelle nostre opinioni correnti, particolarmente fra noi Tedeschi, il considerare l’organizzazione di un dramma al fine dell’esecuzione come un’aggiunta inessenziale, sebbene propriamente tutti gli autori drammatici, anche se considerano l’esecuzione con indifferenza o con disprezzo, coltivano il desiderio e la speranza di portare sulle scene la loro opera. Così la maggior parte dei nostri drammi moderni non riescono mai a vedere il palcoscenico, appunto per il semplicissimo motivo che non sono drammatici.
(...) secondo il mio parere, non dovrebbe essere stampato nessun dramma, ma senz’altro, come presso gli antichi, ogni dramma dovrebbe essere incluso manoscritto nel repertorio teatrale ed avere solo una circolazione limitatissima. Noi allora non vedremmo, per lo meno, apparire tanti drammi che hanno, sì, una lingua colta, bei sentimenti, eccellenti riflessioni, profondi pensieri, ma che sono difettosi proprio in ciò che rende il dramma tale cioè nell’azione con la sua mossa vitalità.
G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Torino, Einaudi, 1963
Il secolo XIX è un periodo di conquiste e di progresso che, a differenza di altri secoli, è conscio e orgoglioso di essere tale, e avverte il sentimento che all’azione umana non si possono porre più confini. Casomai enfatizza la nozione di Progresso, ne fa una religione, un dogma – e solo nelle meditazioni di alcuni spiriti solitari si rende conto che questo progresso presenta delle falle, dei sussulti, dei rovesciamenti.
Crede nell’Uomo conquistatore che trasforma la natura. A un certo punto crede che questo processo di trasformazione sia ineluttabile, che non dipenda neppure dalla volontà individuale ma da una cieca e vittoriosa disposizione delle specie a garantire la vittoria del più forte. È il secolo in cui l’uomo si scopre vittorioso non malgrado discenda dalla scimmia, ma proprio perché ne costituisce il superamento. Pensa che nuovi fantasmi si aggirino per l’Europa e nuove categorie sociali, sottratte a una servitù millenaria, possano porre sui piedi quello che prima marciava sulla testa, trasformando i rapporti di produzione e l’assetto sociale.
Spirito, Cultura e Utopia
Ora andiamo a rileggere, contro queste speculazioni che sono state dette “materialistiche”, le varie filosofie dello Spirito, dell’Idea, del Soggetto che pare porsi come creatore della stessa realtà naturale. Nessuno dei filosofi detti idealisti (tranne alcune manifestazioni di “idealismo magico”) ha mai pensato che noi, in quanto individui, creiamo il mondo o che il mondo sia pura apparenza. Essi sapevano e dicevano che ci sono le cose e le leggi di natura: e quindi cerchiamo di tradurre espressioni che ci suonano come incomprensibili, come a esempio “Spirito”, in termini più comprensibili parlando di Cultura. Tutta la filosofia idealistica è una celebrazione della Cultura, come patrimonio collettivo che va al di là delle decisioni e dei capricci del soggetto individuale, e che crea, insieme alle rappresentazioni del mondo, il modo incui lo trasformiamo. Non c’è Natura che non sia già foggiata dalla Cultura. Questa entità sovraindividuale può assumere nomi diversi, ma si manifesta come energia sociale, propria della specie, che si sviluppa e, definendo il mondo in modo sempre nuovo, crea la Storia.
La filosofia del XIX secolo inizia sotto il segno ineliminabile di Kant, ma cerca di andare oltre: il mondo è qualcosa di conosciuto non attraverso un soggetto individuale che compartecipa con tutti gli altri soggetti la stessa struttura conoscitiva, ma è il grande teatro della Storia umana che sviluppa, migliora (certamente, e sempre) le nostre disposizioni a conoscere e produce imperi, rivoluzioni, trasformazioni dei rapporti etici e sociali, e le stesse rappresentazioni che l’umanità via via dà del mondo.
Vediamo allora che sotto questo segno possono stare sia i grandi filosofi dell’idealismo, sia i celebratori della ragion positiva. Semplicemente alcuni dei primi pensano che il mondo in cui la cultura umana si sviluppa attraverso la storia sia dominato da leggi immanenti di una Ragione sovraindividuale che in una lotta continua si manifesta nel corso degli eventi umani, in un processo che non ha mai fine ma che in qualche modo non conosce regressioni perché tutto quello che è reale (che avviene ed è avvenuto) è razionale. E di qui una esplorazione della storia remota, un ritorno all’infanzia mitica dell’umanità (che promuove una conoscenza critica del nostro passato) per capire il presente e pianificare il futuro.
Questa Ragione immanente nella Storia può assumere nel corso del secolo varie figure, lo Stato, il Popolo, la Nazione, e in questo senso molta della filosofia del secolo, che sembra separarsi dalla scienza, non è separata dalla politica e dai grandi problemi dell’etica individuale e collettiva, del diritto, dell’organizzazione sociale. Per questo si manifesta talora sotto la forma dell’Utopia. Dal Rinascimento in avanti si erano profilate delle utopie, ma erano rappresentazioni di una perfezione irraggiungibile, di un modello puramente mentale; nell’Ottocento invece l’Utopia si fa progetto sociale, il pensiero che proietta un mondo migliore vuole trasformare la storia presente. L’utopista che prefigura una società di eguali (capaci di superare la barbarie dello stato di natura) è mosso dalla stessa energia progressista che anima lo scienziato a prefigurare una società di uomini capaci di sostenere le offese della natura tenendola sotto controllo.
Arte come modello della vita
C’è un altro aspetto di molte filosofie del secolo apparentemente separato da quello di cui stiamo parlando e che tuttavia intrattiene con esso molti e complessi rapporti. È l’idea che sia lo sviluppo della natura sia quello dello spirito procedano attraverso assestamenti organici. Per questo il filosofo deve creare un sistema, per rendere ragione del modo in cui la storia umana, al di là della volontà dei singoli, si realizza sempre in Organismi o Forme che hanno la vitalità e la legalità di ogni cosa vivente. E allora si capisce perché questo sia anche il secolo dell’estetica: non che negli altri secoli non si fosse discusso dell’arte, elaborando precettistiche e spiegazioni del perché qualcosa ci appaia come bello, armonioso o sublime; ma in questo secolo l’arte non rimane relegata tra le varie attività umane, talora ne diviene modello, talora una delle forme più eminenti. Si ritiene – e si afferma per la prima volta in modo quasi provocatorio – che l’arte ci rivela, nel suo farsi e nel suo evolversi, il modo in cui la cultura produce e inventa forme nuove, capaci di sostenersi per virtù di perfezione interna; l’arte diventa il modello della vita perché come la vita si annuncia, cresce, si sviluppa, si trasforma, e vince sul disordine di un “informe” naturale a cui essa – con la Cultura – provvede finalmente un senso.
Friedrich Nietzsche
Musica e mito tragico appartengono all’attitudine dionisiaca di un popolo
La nascita della tragedia
Musica e mito tragico sono in uguale maniera espressioni dell’attitudine dionisiaca di un popolo e inseparabili l’una dall’altro. Entrambi provengono da un dominio artistico che è al di là dell’apollineo; entrambi trasfigurano una regione, nei cui accordi di gioia si smorza incantevolmente tanto la dissonanza quanto l’immagine terribile del mondo; entrambi giuocano con il pungolo del disgusto, fidando nelle loro oltremodo potenti arti magiche; entrambi giustificano con questo giuoco perfino l’esistenza del “peggiore dei mondi”. Qui il dionisiaco, confrontato con l’apollineo, appare come la potenza artistica eterna e originaria, che suscita in genere all’esistenza tutto il mondo dell’apparenza: in mezzo a questo diventa necessaria una nuova luce di trasfigurazione, per mantenere in vita il mondo animato dell’individuazione. Se noi potessimo immaginare un farsi uomo della dissonanza - e che cos’altro è l’uomo? - questa dissonanza avrebbe bisogno, per poter vivere, di una magnifica illusione, che coprisse con un velo di bellezza il suo stesso essere. È questo il vero fine artistico di Apollo: nel suo nome riassumiamo tutte quelle innumerevoli illusioni della bella apparenza, che in ogni momento rendono l’esistenza degna in generale di essere vissuta e spingono a vivere l’attimo successivo.
Tuttavia di quel fondamento di ogni esistenza, del sostrato dionisiaco del mondo, può passare nella coscienza dell’individuo solo esattamente quello che può essere poi di nuovo superato dalla forza di trasfigurazione apollinea, sicché questi due istinti artistici sono costretti a sviluppare le loro forze in stretta proporzione reciproca, secondo la legge dell’eterna giustizia. Dove le forze dionisiache si levano così impetuosamente come noi possiamo sperimentare, là deve essere già disceso sino a noi, avvolto in una nube, Apollo; le sue più rigogliose espressioni di bellezza saranno certo contemplate da una prossima generazione.
Ma che quest’espressione sia necessaria, è cosa che ognuno avvertirebbe, per intuizione, nel modo più sicuro, se si sentisse una volta riportato, sia pure in sogno, a un’esistenza della Grecia più antica: camminando sotto alti colonnati ionici, guardando davanti a sé verso un orizzonte delimitato da pure e nobili linee, vedendo accanto a sé la sua immagine trasfigurata che si riflette nel luminoso marmo, intorno a sé uomini dall’incedere solenne, dai movimenti leggiadri, dalle voci armonicamente risonanti, dai gesti che parlano ritmicamente - non dovrebbe costui esclamare, in questo continuo afflusso di bellezza, con la mano levata verso Apollo: “Beato popolo degli Elleni! Come dev’essere grande fra voi Dioniso, se il dio di Delo ritiene necessari tali incantesimi per guarire la vostra follia ditirambica!”? - Ma un vecchio Ateniese, guardando col sublime occhio di Eschilo chi avesse tali sentimenti, potrebbe però replicare: “Ma aggiungi anche questo, tu, bizzarro straniero: quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel tempio delle due divinità!”.
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, introd. di G. Colli, trad. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1993
Nata nell’ambito dei fervori del romanticismo, molta della filosofia del XIX secolo sembra celebrare la libertà del sentimento e della volontà individuale, ed è forse la forma sistematica e onnicomprensiva che la filosofia spesso assume a far pensare a pulsioni titaniche. In effetti anche le più radicali filosofie della soggettività, memori della lezione kantiana, intendono la libertà come una capacità di comprendere, rispettare e introiettare come principio morale e sociale le esigenze della libertà altrui. È solo nella narrativa di quel secolo che vengono messi in scena personaggi che interpretano la pulsione romantica come assoluta affermazione della propria individuale energia, contro ogni regola e ogni legge: ma il romanzo ce li mostra appunto come titani sconfitti; l’arte spesso non ama i vincenti e ce li raffigura spesso con colori sordidi e foschi, ma ne riconosce la realtà e in qualche modo, a malincuore, celebra la Necessità di una ragione storica e sociale che distrugge l’eroe solitario e anarchico.
Verso il tramonto della civiltà occidentale
Ma questo quadro – che dipinge le filosofie dominanti del secolo – non lascia vedere le linee di resistenza, di delusione, di dubbio. Questa religione del Progresso e della perfezione inarrestabili della Storia conosce cedimenti e rinnegamenti, a mano a mano che il secolo comincia a perdere fiducia nelle proprie utopie. Pensare lo Spirito come Cultura induce a domandarsi se non esistano culture diverse, più arcaiche ma non per questo meno organiche, e in questo secolo nasce attraverso studi etnografici quella che sarà l’antropologia culturale del nostro secolo. La filosofia riflette sui miti del passato, cerca una logica della storia, ma non solo della storia delle idee ma di quella dei comportamenti, dei costumi, delle superstizioni. La scienza positiva vuole diventare anche scienza della Società, e delle differenze tra i gruppi sociali, ovvero Sociologia.
Auguste Comte
Progresso sociale e rapporto con il pensiero antico
Corso di filosofia positiva, Lezione XLVII
Ogni idea di progresso sociale era necessariamente interdetta ai filosofi dell’antichità, per mancanza di osservazioni politiche abbastanza complete ed estese. Nessuno di essi, anche tra i più eminenti e saggi, si è potuto sottrarre alla tendenza, allora tanto universale quanto spontanea, a considerare direttamente lo stato sociale contemporaneo come assolutamente inferiore a quello dei tempi precedenti.
Questa inevitabile disposizione era tanto più naturale e legittima in quanto l’epoca di questi lavori filosofici coincideva essenzialmente, come spiegherò in seguito, con quella della necessaria decadenza del regime greco o romano. Ora, questa decadenza che, considerando l’insieme del passato sociale, costituisce certamente un vero progresso, in quanto preparazione indispensabile al regime più progredito dei tempi posteriori, non poteva essere in alcun modo giudicata in questa maniera dagli antichi, che non potevano immaginare una simile successione. Ho già indicato, nella precedente lezione, il primo schema generale del concetto, o piuttosto del sentimento, di progresso dell’umanità, come all’inizio necessariamente dovuto al cristianesimo il quale, proclamando direttamente la superiorità fondamentale della legge di Gesù su quella di Mosè, aveva naturalmente formulato quest’idea, fino a quel momento sconosciuta, d’uno stato più perfetto che sostituisce definitivamente uno stato meno perfetto, preliminarmente indispensabile fino ad una determinata epoca. Sebbene il cattolicesimo così non abbia fatto, senza dubbio, che servire da organo generale allo sviluppo naturale della ragione umana, questo prezioso compito costituirà egualmente sempre, agli occhi imparziali dei veri filosofi, uno dei più bei titoli per la nostra imperitura riconoscenza. Ma, indipendentemente dai gravi inconvenienti del misticismo e della vaga oscurità, che sono inerenti ad ogni impiego qualsiasi del metodo teologico, tale schema sarebbe certamente insufficiente a costituire una qualche valutazione scientifica del progresso sociale. Infatti questo progresso così si trova necessariamente chiuso dalla formula stessa che lo proclama, poiché esso è assolutamente limitato, nella maniera più assoluta, al solo avvento del cristianesimo, al di là del quale l’umanità non potrebbe fare un passo. Ora, poiché l’efficacia sociale di ogni qualsiasi filosofia teologica è oggi e per sempre essenzialmente esaurita, è evidente che questo concetto presenta ormai, in realtà, un carattere eminentemente reazionario, come ho già dimostrato, a conferma di una incontestabile esperienza, che non cessa d’essere compiuta sotto i nostri occhi. Da un punto di vista puramente scientifico, si comprende facilmente che la condizione di continuità costituisce un elemento indispensabile della nozione definitiva del progresso dell’umanità, nozione che rimarrebbe necessariamente impotente a dirigere l’insieme razionale delle speculazioni sociali, se rappresentasse il progresso come limitato, per sua natura, ad uno stato determinato, da lungo tempo raggiunto.
Per questi diversi motivi, si può, da questo momento, capire a prima vista, che la vera idea di progresso, sia parziale, sia totale, appartiene in modo esclusivo e necessariamente, alla filosofia positiva, che nessun’altra, a questo riguardo, potrebbe supplire. Solo questa filosofia potrà rivelare la vera natura del progresso sociale, cioè caratterizzare il termine finale, mai completamente realizzabile, verso il quale essa tende a dirigere l’umanità, e a far conoscere nel contempo il cammino generale di questo sviluppo graduale.
Auguste Comte, Corso di filosofia positiva, Torino, UTET, 1967
E d’altro canto scattano le reazioni, il ritorno (appena accennato, ma che sarà ripreso nel nostro secolo) al problema dell’esistenza individuale, del male di vivere, l’ottimismo della storia in progresso diventa il dubbio sulla storia stessa, sulla sua malattia, sul fatto che siamo oppressi dal passato, che l’immenso edificio sistematico che molte filosofie hanno costruito sia illusione, che ci sia un divorzio tra ciò che è vero e ciò che la Cultura o lo Spirito hanno costruito come mondo. È lo stesso concetto di Verità che entra in crisi nel passaggio tra i due secoli. Alla fine si insinua il sospetto che i nostri comportamenti non siano guidati dalla Ragione ma dagli impulsi dell’inconscio. All’alba del nuovo secolo qualcuno parlerà del tramonto di quella civiltà occidentale che il XIX secolo aveva riconosciuto e celebrato come l’unica e reale società del Progresso.