Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Novecento teatrale di cui questa sezione si occupa non è tutto il teatro del o nel Novecento. Anche a cominciare dalla cronologia. Quando inizia e quando finisce il Novecento teatrale? Sono validi anche nel suo caso i limiti cronologici fissati per il “secolo breve”, dagli spari di Sarajevo, nel 1914, al crollo del muro di Berlino nel 1989? La data finale può essere all’incirca la stessa, magari leggermente anticipata: fra il 1984 e il 1985, la chiusura definitiva del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, in Polonia, e la scomparsa di Julian Beck, cofondatore e leader dello storico Living Theatre in America, rappresentano due eventi di portata simbolica tale da poter assurgere a conclusioni di un’intera vicenda teatrale; anche se quella che segue, e nella quale siamo tuttora immersi, intrattiene con essa legami organici di continuità profonda: potremmo parlare, al riguardo, di teatro postnovecentesco. In compenso l’inizio del Novecento teatrale va abbondantemente retrodatato, non solo rispetto al 1914 ma anche rispetto allo stesso incipit naturale del secolo, facendolo risalire forse sino alla fondazione del Théâtre Libre a Parigi da parte di André Antoine, nel 1887, o almeno sino alla “prima” di Ubu Roi di Alfred Jarry, al Théâtre de l’Oeuvre della stessa città, nel 1896, o – meglio ancora – alla nascita del Teatro d’Arte di Mosca, nel 1898, a opera di Stanislavskij e di Nemirovic-Dancenko e, in particolare, alla celebre “prima” del Gabbiano di Cechov.
Date a parte, la distinzione fra Novecento teatrale e teatro nel o del Novecento consentirà di rivolgere l’attenzione innanzitutto alle esperienze, alle proposte, agli artisti e agli eventi che hanno “sconvolto” il teatro contemporaneo, che lo hanno cambiato in modo irreversibile, o comunque profondo, nella sua identità e nelle sue funzioni, mettendone in luce una vitalità per tanti insospettata (visti i continui annunci di morte imminente notificati a suo carico lungo tutto il secolo) e un’incredibile capacità di trasformarsi, trasmutare, rigenerarsi. Naturalmente questi sono fenomeni e aspetti che riusciamo a cogliere solo se scegliamo il punto d’osservazione adeguato: non quello della quantità, e della cronaca, ma piuttosto quello della qualità, e della storia, ovvero dei teatri possibili, oltre che dei teatri realizzati.
La regia e l’attore
Nel Novecento assistiamo alla crisi della drammaturgia, che non è tanto crisi di grandi autori – i quali infatti non mancano certo, da Pirandello a Beckett e oltre – quanto di crisi strutturale della forma dramma, anche se il testo resta poi a tutt’oggi il punto d’avvio e d’appoggio di gran parte del teatro che si fa in Occidente. Di conseguenza, nel Novecento, la relazione fondamentale (pubblico a parte) non è più – come nei secoli precedenti – quella autore-attore ma diventa quella regista-attore; che in qualche caso può trasformarsi in un triangolo, autore-regista-attore (dove però l’autore è spesso ridimensionato a Dramaturg, ovvero a “consigliere letterario”).
Non vi sono dubbi sul fatto che il regista costituisca la più vistosa novità teatrale del Novecento, il nuovo “signore della scena”. Checché se ne dica, e per quanto si cerchi di retrodatarne gli inizi fino ad Antoine o addirittura ai Meininger e a Wagner, dunque in pieno Ottocento, la regia teatrale resta un fenomeno specificamente e tipicamente novecentesco, con le figure di alcuni artisti-teorici come “padri fondatori” (Appia, Craig, Fuchs, Stanislavskij, Mejerchol’d).
Altrettanto evidente appare, almeno a prima vista, che la relazione regista-attore cui ho appena accennato si presenti per lo più non sotto la forma della pacifica convivenza ma sotto quella, ben diversa, del conflitto e della rivalità. Più che di un rapporto (ancorché dialettico) sembra trattarsi in effetti quasi sempre di un vero e proprio dualismo, spesso esasperato. Il regista come colui che interviene ad arginare lo strapotere dell’attore e delle compagnie, colui che opera (in sintonia con l’autore o comunque con l’ideologia del testo drammatico quale valore da preservare e soprattutto da ripristinare) per restituire allo spettacolo vivente dignità d’arte e di cultura, risollevandolo dalle bassezze in cui il teatro capocomicale “all’antica italiana” lo aveva spesso precipitato. È un’immagine vulgata questa, soprattutto in Italia, nella quale (pur non essendo interamente destituita di fondamento) si riflette in maniera acritica l’ideologia teatrale che presiedette negli anni Trenta – auspice in primo luogo Silvio d’Amico – alla ritardata introduzione della regia nel nostro Paese. Per la verità, immagini simili sono state proposte spesso anche fuori dai nostri confini; ma all’estero il dualismo regista-attore, più che sulla tutela o meno del testo e dell’autore, si è fondato sulla disputa dello scettro del comando nella creazione scenica.
Che spettasse all’attore la palma del creatore in scena, è stata un’ovvietà nel teatro materiale fino all’Ottocento (e le polemiche, talvolta rabbiose, dei teorici e dei riformatori, almeno dal XVIII secolo in avanti, non fanno che confermarlo). Ma l’arrivo del regista, alla fine del XIX secolo, cambia radicalmente le cose. E non è necessario ricorrere alle teorizzazioni estreme di un Craig (il quale, in un celebre scritto del 1907, propose l’espulsione tout court dell’attore in carne e ossa, e la sua sostituzione con una Supermarionetta) per rendersi conto che, in quanto tale, il regista non può non porsi come il nuovo creatore unico dello spettacolo, l’autore della messa in scena quale nuova opera d’arte, il responsabile del principio estetico unitario che ne fa, appunto, un’opera.
C’è un vasto versante del teatro di regia che percorre l’intero secolo, per arrivare fino a oggi, ispirandosi sostanzialmente all’idea del regista come demiurgo dello spettacolo teatrale: un artista pressoché onnipotente che compone l’opera scenica utilizzando a suo piacimento, e piegandoli ai propri voleri artistici, tutti i mezzi espressivi e tutti i linguaggi scenici, con l’attore posto – almeno in linea di principio – sullo stesso piano dello spazio, della musica, delle luci e degli accessori, oltre che del testo. È un versante che annovera, fra le sue punte, nomi – oltre a quello già fatto di Craig – come Reinhardt, Ronconi, Robert Wilson, ma la cosa più interessante è che, in realtà, quasi tutti i grandi uomini di teatro del XX secolo sono passati o, più spesso, sono partiti da una fase demiurgico-totalizzante della regia e della messa in scena: anche Stanislavskij, anche Brecht anche Appia e Copeau, persino Artaud e Grotowski, cioè i più celebrati alfieri di quello che per semplicità possiamo chiamare un teatro d’attore.
Teatro d’attore è il nome che diamo all’altro, fondamentale versante della regia teatrale novecentesca: quello i cui protagonisti sono stati definiti non a caso “registi pedagoghi”. Rispetto alla regia demiurgica come “istanza totalizzante” (Squarzina), i registi pedagoghi (o maieuti), pur non rinunciando alla responsabilità complessiva dell’allestimento, cioè della composizione scenica, ne spostano significativamente il fulcro, facendo in quanto registi uno o due passi indietro e rimettendo al centro della creazione teatrale, come suo principale soggetto, l’attore: un attore nuovo, beninteso, cioè riformato, anzi rifondato, sulla base delle varie pedagogie messe in campo, tutte tendenti, pur nella diversità delle scelte estetiche e delle metodiche, a legare intimamente – fino quasi a fonderli – teatro e scuola, ovvero creazione e formazione, ricerca artistica e ricerca tecnica.
Il primo esempio resta anche il più celebre: si tratta di Stanislavskij, che – come s’è detto – inaugura il secolo e il teatro di regia con i suoi celebri allestimenti cechoviani e poi, dal 1911 ininterrottamente fino alla scomparsa, nel 1938, dà vita alla esperienza degli Studi, dalle cui ricerche emergerà come risultato, sempre provvisorio e in progress, il cosiddetto Sistema – chiamato Metodo nella versione americana dell’Actors Studio di Lee Strasberg. Pur avendo parlato, per semplicità espositiva, di due versanti, è il caso di insistere sul fatto che, in realtà, l’universo della regia novecentesca, comprese le sue attuali propaggini postnovecentesche, è molto più sfaccettato e articolato. Quindi, la regia demiurgica e la regia maieutica vanno considerate soltanto alla stregua di due polarità, fra le quali si disloca dinamicamente la molteplicità delle linee, delle opzioni, delle visioni registiche offerte dal Novecento.
Il segreto del Novecento teatrale
Non credo si possa mettere seriamente in dubbio il fatto che il XX secolo abbia rappresentato un momento di discontinuità forte rispetto alle pratiche e alle teorie teatrali delle epoche precedenti. Tanto meno credo che si possa essere tacciati di evoluzionismo progressista se si parla di una “rivoluzione” del Novecento teatrale. Anche perché usare questo termine per il teatro del XX secolo (dopotutto, il secolo delle rivoluzioni, in tanti campi), almeno in prima battuta, non vuol dire enunciare giudizi di valore ma semplicemente additare dei fatti, belli o brutti che siano, come ad esempio l’avvento del cinematografo e le conseguenze irreversibili che esso ha comportato anche per l’immaginario teatrale (e che non si riducono alla pur fondamentale “perdita della centralità”). Il problema vero, in realtà, non è chiedersi se si sia verificata o meno una rottura, anzi una vera e propria rivoluzione teatrale, nel corso del XX secolo ma domandarsi come si sia prodotta e – insistiamo – in che cosa sia realmente consistita.
La rivoluzione del Novecento teatrale non è stata esclusivamente e neppure principalmente estetica o espressiva (tantomeno tecnica: anche se le innovazioni tecnologiche, andando dalla diffusione della luce elettrica all’introduzione del computer e del digitale, sono state enormi); essa è invece consistita nel fatto che nel corso di questo secolo, per la prima volta (dopo la sua reinvenzione cinquecentesca), il teatro ha lasciato l’orizzonte tradizionale del divertimento, dell’evasione, della ricreazione (comprese le loro varianti colte e impegnate) per diventare anche un luogo nel quale dare voce (e, se possibile, soddisfazione) a bisogni ed esigenze cui mai fino ad allora (salvo isolate eccezioni) si era cercato di rispondere mediante gli strumenti del teatro: istanze etiche, sociali, politiche, conoscitive, spirituali e persino terapeutiche. In altri termini, per la prima volta la questione principale non è più quella – pur importantissima – del come fare teatro ma del perché farlo, per chi e dove.
Decidendo di affrontare fino in fondo la questione della sua necessità e del suo valore (entrambi sentiti fortemente minacciati oggi), il teatro nel Novecento è stato capace di andare oltre se stesso, di trascendersi, diventando more than theatre, più che teatro (cioè, innanzitutto, più che spettacolo), e arrivando così a occupare spazi inediti nella mappa culturale e nell’immaginario occidentali. E qui due territori si sono aperti, solo in apparenza separati e incomunicanti tra loro. Da un lato, un teatro che, portando fino in fondo le implicazioni della sua natura di pratica performativa, sembra arrivare a escludere dal proprio orizzonte lo spettatore (si pensi all’Arte come veicolo, sperimentata dall’ultimo Grotowski, fino alla sua scomparsa, nel 1999); dall’altro, un teatro, detto recentemente “sociale” o “delle diversità” (community based theatre, nei Paesi anglosassoni), che invece ritrova la sua fondamentale ragion d’essere proprio nel qualificarsi interamente in funzione dell’efficacia nello spettatore: dal teatro a partecipazione, o animazione teatrale, degli anni Settanta (esperienza che, fra l’altro, aveva alle spalle importanti precedenti della prima metà del secolo, come il Teatro Agit-Prop degli anni Venti e Trenta) ai fenomeni attuali del teatro nelle carceri, con immigrati o rifugiati politici, con disagiati fisici e psichici, con anziani e malati.