Intolleranza/tolleranza
Quella che noi definiamo correntemente «tolleranza» si riferisce, com’è noto, a parametri molto precisi e a modelli concettuali fortemente ancorati ad alcuni testi che possiamo a ben diritto considerare fondamentali in tale ambito, oltre che tout court per la cultura occidentale: anzi, potremmo sostenere che il concetto e la pratica della tolleranza tanto religiosa quanto, lato sensu, etica, sia uno degli irrinunciabili e innegoziabili contenuti di fondo della modernità e dell’Occidente.
Si sbaglierebbe se si cercasse di definire l’idea di tolleranza alla luce esclusiva della ragione: anzi, essa è appunto caratteristicamente «moderna» e «occidentale» in quanto appare sostanziata di elementi desunti dall’esperienza, secondo un connotato tipico del pensiero scientifico occidentale moderno che non si appaga di definizioni teoriche ma ne esige la verifica di «laboratorio». E il «laboratorio» nel quale andò maturando, non come generosa aspirazione bensì come urgente e indispensabile pratica, quella che sulle prime fu definita mutua inter christianos tolerantia (e che, per ragioni in quel momento evidenti, escludeva pertanto da tale orizzonte in linea teorica i non cristiani, ma praticamente il turco), fu quella dei campi di battaglia e delle stragi, della barbarie, della desolazione del «secolo di ferro» aperto con la Riforma luterana e conclusosi con le paci del 1648-59, alla fine della guerra dei Trent’anni. Fu non tanto dalla comoda e serena prospettiva delle biblioteche in cui lavoravano e discutevano i dotti, ma dalla carne e dal sangue di un’Europa dilaniata ed esausta che scaturì con prepotenza l’ideale della tolleranza: che vediamo appunto precisarsi durante il settimo decennio del 17° sec., prima con gli scritti giovanili di J. Locke, tra 1661 e 1662, quindi con il suo Essay concerning toleration del 1667, nel quale dal godimento della tolleranza egli escludeva tuttavia tanto i cattolici quanto gli atei, da lui ritenute entrambe categorie naturaliter intolleranti. Ma fu il Tractatus teologico-politicus di B. Spinosa, nel 1670, a imprimere un deciso salto di qualità all’intera materia e a farla progredire tanto da condurre a sua volta alla matura Epistola de tolerantia in cui Locke, nel 1689, formulò i termini ancor oggi considerabili basilari in materia di libertà di pensiero e di culto: nessuna opinione religiosa o speculativa riguarda lo Stato, e tutte hanno il diritto d’illimitata tolleranza a patto di non ledere gli interessi etici ed economici della comunità (ed è questo limite lockiano la breccia attraverso la quale si è tentato in seguito d’introdurre molteplici cavalli di Troia); le eventuali censure di tipo religioso non debbono aver riflesso sui diritti civili; qualunque problema riguardi l’anima è estraneo ai poteri e alle prerogative dello Stato. Sappiamo come, attraverso lo sviluppo del deismo, dell’umanitarismo e del cosmopolitismo, si sia giunti nel 1763 alla maturazione del Traité sur la tolérance di Voltaire e alle varie edizioni del Dictionnaire philosophique, in cui si combattono «fanatismo» e «superstizione» e si affermano i principi della libertà religiosa come della tolleranza politico-ideologica. È questo filo che, forse più volte spezzatosi nel corso degli ultimi due secoli e mezzo ma tenacemente riannodato, ha condotto alle elaborazioni teoriche della società democratica come possiamo verificarle in K.O. Apel o in J. Habermass e alla stessa generale ridefinizione dell’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti della democrazia moderna che è dato di cogliere in una prospettiva che dal Concilio vaticano II giunge alle esplicite affermazioni del magistero di Giovanni Paolo II.
È evidente che questo atteggiamento aveva, fin dal suo nascere in pieno Seicento, illustri precedenti filosofici già nel mondo greco, al quale i vari autori non mancano di fare riferimento in modi differenti e in diversi contesti, dal pensiero socratico per un verso, ma anche sofistico per un altro (e i rapporti tra le due dimensioni, al di là delle polemiche superficiali, sono ben noti), sino al cosmopolitismo e al concetto di «diritto naturale» sostenuto dalla scuola stoica e ribadito da Seneca, su cui s’innestò profondamente il pensiero cristiano, com’è comprovato dalla tradizione – forse tardoantica, probabilmente ancor più tardiva – della pretesa corrispondenza epistolare tra Seneca stesso e Paolo di Tarso. Ma che esistesse un diritto alla ricerca della verità raccordata alla cultura di ciascun popolo rimase parere radicato e diffuso nello stesso Medioevo, è provato per es. già dagli intensi e tormentosi dubbi di Dante a proposito della possibile salvezza eterna dei pagani, cosa che lo poneva in un rapporto problematico con il principio dell’extra Ecclesiam nulla salus. Gli aveva dato voce l’apologo conosciuto come «fiaba delle tre anella», raccolto anche da Giovanni Boccaccio (Decameron I, 3) e che ci conduce dritti al paradosso illuministico dell’idea di tolleranza.
Il «paradosso» consiste nella figura storica e nello sviluppo leggendario di Yussuf ibn Ayyub Salah al-Din (Saladino), il principe curdo divenuto sultano di Siria e d’Egitto nell’ultimo quarto del 12° sec. e nella letteratura occidentale del Duecento passato, dall’iniziale ruolo di crudele «nemico della croce» (è a lui che si deve la cacciata dei crociati da Gerusalemme, nel 1187) a quello di specchio e modello delle virtù cavalleresche. È già paradossale che fosse un musulmano l’esempio massimo di quel distillato di valori tipicamente europei e cristiano-occidentali ch’erano riassunti nella «cortesia». Ma ancor più importante è che lo stesso Illuminismo scegliesse a sua volta il Saladino quale eroe della tolleranza nel dramma di G.E. Lessing Nathan der Weise, scritto nel 1779, in cui si riprende appunto la narrazione delle «tre anella».
Che il paladino «cavalleresco» e «illuminista» della virtù occidentale della tolleranza sia la figura, quanto si vuole «mitizzata», di un musulmano fornisce una sfumatura d’ironia al fatto che nei giorni nostri l’attacco ai valori della tolleranza, in qualche modo palingenetico rispetto a modi di pensare che fino a pochi anni fa si aveva la diffusa ed evidentemente erronea certezza di ritenere irreversibili, si presentino qua e là, ma con notevole frequenza, in ambiti tanto cattolici quanto laici che pur si dicono in entrambi i casi «liberali», ma da parte dei quali si sta sviluppando una polemica rigorosa, e in qualche caso accanita, contro il «relativismo»: con una corrente confusione di fatto tra il relativismo etico (che si risolve in alibi strumentali per comportamenti poco corretti) e quello antropologico (che con molta precisione rivendica la necessità di comprendere qualunque cultura esclusivamente iuxta sua propria principia). Nella sua forma più compiuta, matura e pacata, queste tesi antirelativiste si volgono al tema dei diritti umani, gran parte della definizione e della sostanza dei quali è in evidente contatto con i valori difesi dal principio di tolleranza. Al riguardo si constata che i «diritti umani» si rivolgono non solo agli Stati, bensì anche agli individui in quanto soggetti di diritto internazionale: essi sono pertanto uno strumento per concorrere alla libera autodeterminazione, da parte di chiunque, del proprio destino. Ma, si obietta, non è per nulla detto che chi vive in condizione di subalternità sia culturalmente e politicamente in grado di appropriarsi dei diritti umani e di servirsene; e non è neppure detto che sia in grado di farlo. Considerazione senza dubbio corretta, che tuttavia può preludere a una dicotomia sul piano delle scelte pratiche da parte di chi sia in grado di sostenere l’acquisizione dei diritti umani di chi non ne dispone o ne difetta: o si ritiene che previa conditio sine qua non per godere di diritti da noi considerati irrinunciabili sia la piena accettazione, da parte di tutti, della cultura che tali diritti ha concepito; o si pensa che essi non possano riguardare chi non sa concepirli o non condividendoli li avversa. In entrambi i casi, la scelta conduce a soluzioni etnocentriche e repressive.
Può apparire strano che questo tipo di polemica affiori nel contesto di proposte di pensiero che si dicono, si considerano e non c’è ragione di dubitare siano autenticamente liberali. Ma non v’è da stupirsene, quando si rifletta a un interessante parere espresso, magari en passant, da B. Croce, il «filosofo della libertà»: il quale, richiesto di un parere appunto sulla tolleranza, ebbe una volta a rispondere che tale valore viene difeso dai «retori» e dagli «indifferenti», mentre al contrario gli spiriti forti ammazzano e si fanno ammazzare per le loro idee (Pagine sparse, I, p. 247).
Non è affatto necessario, anzi sarebbe erroneo, attendersi pertanto che nuovi attacchi alla pratica della tolleranza e alla Weltanschauung che la sostiene possano provenire soltanto da ambienti estremisti o «fondamentalisti». I rischi pratici che possono impedire l’esercizio di un rapporto di tolleranza o renderlo addirittura sospetto se non pericoloso e odioso sono legati all’idea che il «dialogo» tra fedi e culture diverse sia di per sé uno stratagemma messo in atto da chi, forte della consapevolezza della propria forte identità, intende erodere le basi dell’identità altrui che avverte come più debole, e appunto una prova di debolezza da parte di chi accetta di misurarsi su tale piano, evidentemente svantaggioso per lui: in questi casi «identità», «radicamento» e «territorialità» vengono rivendicati come basi per una limitazione drastica se non una negazione pratica dell’applicazione del principio di tolleranza, come vediamo in atteggiamenti del tipo adottato da quanti ritengono necessaria misura di tutela del proprio spazio, dei propri diritti e del proprio sentire il rifiuto di concedere a rappresentanti di una fede religiosa minoritaria il diritto a ottenere spazi di culto e a edificare edifici a ciò deputati. A questa pratica regressione del principio di tolleranza non si è arrivati, come avremmo potuto aspettarci, attraverso un rinnegamento dei principi liberaldemocratici, ma al contrario attraverso la pretesa della loro tutela e l’assunzione di un atteggiamento sentito come di esclusiva legittima difesa, del quale non si avvertono o si negano gli evidenti elementi antiliberali e illiberali.
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