INTERVENTO (fr., ingl., ted. intervention; sp. intervención)
In diritto internazionale significa l'intromissione di uno stato negli affari interni o esteri di un altro stato per ottenere da quest'ultimo un determinato comportamento o nell'esercizio della sua potestà statuale o nei rapporti con un terzo stato. Esso è lecito solo quando si basa su un titolo giuridico costituito da una speciale norma convenzionale o da una norma generale di diritto intemazionale. Nella prima ipotesi si ha da una parte il diritto subiettivo di intervenire e dall'altra il dovere giuridico di subire l'intervento; nella seconda invece si ha da una parte il dovere di non intervenire e dall'altra il diritto di respingere l'intervento. Poiché la sfera di libertà lasciata a ogni stato dal diritto internazionale postula il diritto di respingere qualunque intromissione nei proprî affari, si può dire che il diritto internazionale sancisca in via generale il divieto dell'intervento con eccezioni determinate.
Un'opinione assai largamente seguita considera l'intervento come un mezzo lecito per la tutela degl'interessi internazionali senza che alcun titolo giuridico lo giustifichi, e anzi ritiene che l'espressione d'intervento nel suo senso tecnico debba essere riservata esclusivamente a tal mezzo di tutela d'interessi, mentre l'ingerenza di uno stato negli affari interni o esteri di un altro su base giuridica rientrerebbe in altri istituti internazionalistici oppure nella massa indistinta delle obbligazioni internazionali.
Non v'è dubbio che l'ordinamento giuridico internazionale conferisce ai semplici interessi una tutela parziale o indiretta coi mezzi che gli sono proprî. Ma fra questi mezzi non può certamente comprendersi l'intervento, che è di per sé stesso atto lesivo del diritto altrui, indipendentemente dalla illiceità propria dei mezzi coercitivi che in fatto adopera o il cui uso rimane pur sempre allo stato potenziale. Ora nessuno è mai riuscito a dimostrare che esista anche un solo interesse, per la cui tutela lo stato sia dal diritto internazionale autorizzato alla lesione di un diritto altrui. È stato giustamente osservato che se vi sono degl'interessi, che conferiscono liceità all'azione diretta alla loro tutela, benché questa sia lesiva di diritto altrui, ciò significa che questi interessi per ciò solo debbono essere considerati giuridici; ma la risposta non può essere che negativa, se s'insiste a discutere della ammissibilità giuridica di lesioni di diritto per il soddisfacimento d'interessi non giuridici.
Come saggio dell'impossibilità di costruire giuridicamente l'intervento quando lo si consideri come mezzo di tutela d' interessi non giuridici si possono prendere in brevissima considerazione l'intervento per ragioni umanitarie e l'intervento collettivo. Anche fra gli scrittori della vecchia scuola non sono pochi quelli che negano la legittimità dell'intervento per ragioni d'umanità, mossi a ciò non da motivi giuridici, ma dalla considerazione delle difficoltà pratiche che s'incontrano nell'accertare la lesione dell'umanità e dal desiderio di evitare abusi. La verità è che la lesione dei sentimenti di umanità, per quanto essa interessi l'insieme degli stati rappresentanti la società umana, nello stato del diritto positivo attuale non autorizza affatto né un gruppo di stati, né uno stato isolato per mandato tacito o espresso degli altri, a ledere il diritto di un determinato stato. La sola cosa che potrà dirsi in proposito è questa, che versiamo qui in una di quelle ipotesi non rare, nelle quali il diritto positivo non ha potuto adeguarsi alle esigenze morali: ciò potrà essere deplorevole, ma non cambia la situazione per chi anche nel campo dei rapporti internazionali voglia mantenersi fedele al metodo di ricerca positivo. Un analogo ragionamento può farsi per l'intervento collettivo. È evidente che l'intervento per sé non può acquistare liceità per il semplice fatto di essere esercitato da un gruppo più o meno numeroso di stati, anziché da uno solo: né su tale liceità può esplicare influenza alcuna la generalità degl'interessi, per i quali l'intervento collettivo si manifesti. Soltanto il carattere di giuridicità degl'interessi potrebbe giustificare la lesione del diritto altrui, il che è fondamentalmente diverso dalla loro maggiore o minore estensione. Dal punto di vista storico è poi dato rilevare che l'intervento cominciò proprio con l'essere intervento collettivo, quando le grandi potenze, erigendosi a tutrici della pace europea e del benessere dei popoli, si arrogarono il diritto e il dovere d'imporre a tutti gli altri l'osservanza di quei principî di politica interna e internazionale che esse avevano creduto di fissare. Si trattò dunque in origine di un puro fatto politico, che con tale carattere rimase lungo tutto il corso del secolo passato, dando luogo alle più vivaci proteste e opposizioni da parte degli stati che ne venivano lesi.
L'intervento collettivo non è giuridicamente ammissibile neppure come reazione contro le violazioni del diritto internazionale. Ciò potrà essere fondato soltanto in una forma di organizzazione della società internazionale: ma allora, per quanto sembra, d'intervento non si potrebbe più parlare, bensì e soltanto di funzioni degli organi sociali, di sanzioni per l'inosservanza dei doveri sociali e infine dell'esecuzione federale. Per ciò appare giusto il rilievo che il patto della Società delle Nazioni, che non parla mai d'intervento, non abbia portato alcun elemento nuovo nella costruzione di quest'istituto. A tal proposito è poi assolutamente inammissibile la tesi che l'art. 17 del patto abbia costituito una specie d'intervento collettivo, la cui legittimazione starebbe nell'interesse supremo di mantenere la pace internazionale, che la Società delle Nazioni ha preso sotto la sua salvaguardia. Le disposizioni di quell'articolo non possono in alcun modo obbligare gli stati estranei alla società: quindi l'azione spiegata dalla società verso stati non membri in base all'art. 17 è un'azione da qualificarsi soltanto alla stregua dei principî del diritto comune e non acquista certo legittimità per il fatto di essere messa a servizio del mantenimento della pace, che, se è causa giuridica della messa in giuoco di dati procedimenti nell'ambito della società, per il mondo estraneo è un semplice per quanto elevato interesse.
A sostegno della liceità dell'intervento come mezzo per la tutela di interessi non giuridici si è creduto di trovare un forte argomento nella guerra, in quanto questa, secondo un'opinione ancor oggi abbastanza diffusa, si ritenga appunto come un mezzo lecito per la tutela d'interessi internazionali senza giustificazione giuridica. Data l'esattezza del presupposto da cui si muove, si potrebbe opporre che l'integrità della sfera di libertà rilasciata agli stati dal diritto internazionale è cosa troppo grave e delicata per autorizzare quella forma d'argomentazione, che concluda alla liceità del meno per il fatto che il più è consentito. Ma in realtà quell'esattezza, già vivamente contrastata nel campo dottrinale, può considerarsi quasi completamente distrutta in virtù del patto della Società delle Nazioni, del patto Kellogg, del protocollo di Ginevra del 1928, del "patto a quattro" parafato il 7 giugno 1933 e dei numerosi presidi giuridici particolari, da cui oggi è circondato il mantenimento della pace.
Relegato in principio nell'illecito internazionale, l'intervento può in dati casi essere autorizzato da una norma particolare o generale. La prima ipotesi si verifica abbastanza frequentemente nei trattati coi quali uno o più stati assumono l'impegno di far rispettare una situazione stabilita dal punto di vista internazionale, quale la neutralizzazione, oppure l'indipendenza e integrità territoriale di uno stato, il mantenimento di una dinastia o di una data forma di governo, lo svolgimento di una certa attività finanziaria, la salvaguardia dei diritti di certe popolazioni o di certe categorie di persone in uno stato per altri lati indipendente. Appartengono a questa categoria e presentano un particolare interesse i trattati che stabiliscono un controllo finanziario.
Esempî tipici di trattati che expressis verbis conferiscono a uno stato il diritto d'intervenire negli affari interni di un altro all'effetto di garantirne "l'indipendenza e il mantenimento di un governo atto a proteggere la vita, la proprietà e la libertà individuale" sono i trattati che gli Stati Uniti hanno stipulati il 22 maggio 1903 con Cuba (art. 3), il 18 novembre 1903 col Panama (art. 7) e il 16 settembre 1915 con Haiti.
Lo stato garante o controllante, quando ciò sia espressamente stabilito o possa dedursi per interpretazione, ha non soltanto il diritto, ma anche il dovere d'intervenire all'evenienza di uno dei casi enunciati nel trattato e lo stato garantito o obbligato ha il dovere di subire l'intervento.
In secondo luogo l'intervento può trovare la sua giustificazione in un principio generale di diritto internazionale. Qui si entra fatalmente in una folla di questioni, la cui soluzione è resa difficile specialmente dal bisogno di risolvere il problema dell'esistenza e del contenuto dei principî generali, ai quali l'intervento dovrebbe ricollegarsi per la sua legittimazione.
Così la dottrina esamina se la lesione al diritto altrui possa diventar lecita o non vietata, quando sia in connessione con l'autotutela, con la legittima difesa, con lo stato di necessità, con l'altrui abuso del proprio diritto. Di qui il bisogno di stabilire previamente se tali concetti e istituti trovino effettivo riconoscimento nel campo del diritto internazionale. Quest'esame preliminare importerebbe una deviazione incomportabile col preciso scopo della presente trattazione: la quale quindi si limita a brevi considerazioni, che pur attraverso le molte incertezze, che esistono circa i concetti e istituti sopra accennati, presentino qualche punto in cui sia possibile ripararsi con relativa sicurezza.
Anzitutto non par dubbio che la lesione del diritto altrui diventi lecita quando essa è un mezzo per rivendicare il diritto proprio. Come le rappresaglie, che sono atti in sé stessi illeciti, diventano lecite appunto in quanto costituiscono una reazione contro la violazione del proprio diritto, così un'ingerenza autoritativa negli affari interni o nei rapporti internazionali di uno stato diventa lecita per la violazione del diritto subiettivo di un altro stato da quello commessa. Ma non sembra consentito andare oltre questa semplice analogia e ritenere che l'intervento rivolto alla protezione di un diritto subiettivo internazionale violato perda la sua autonomia e si confonda con la rappresaglia. Bisognerebbe per ciò poter dimostrare che questa specie d'intervento non si può muovere se non entro le linee fissate dal diritto internazionale per la rappresaglia: ora, per quanto la storia degl'interventi sia una selva di conflitti d'interessi politici, in guisa da rendere estremamente difficile l'estrarne alcun principio direttivo, sembra sia da escludere che, per sostenere o impugnare la legittimità dell'intervento diretto alla protezione di un diritto violato, gli stati si siano riferiti al diritto internazionale delle rappresaglie: si sarebbe così avuto il riconoscimento in quella specie d'intervento della figura di un procedimento autonomo. Comunque sia di ciò, il contenuto specifico degli atti in cui si concreta l'intervento e che sono rivolti a sovrapporre la propria volontà a quella di un altro stato nella condotta della politica interna o esterna di quest'ultimo, appare sufficiente a individuare tale specie d'intervento, differenziandolo dalla rappresaglia. È infine da considerare che i casi di cui si discute non possono ormai che essere eccezionalissimi di fronte ai limiti che all'autotutela hanno portato i numerosi trattati relativi alla composizione pacifica delle controversie internazionali e specialmente il patto della Società delle Nazioni. L'art. 10 del patto implica chiaramente per i membri della società l'obbligo di astenersi da ogni azione d'intervento, sia pure per la rivendicazione di un diritto leso, in quanto tale intervento disconoscerebbe quell'indipendenza che la disposizione vuol garantire. Inoltre varie disposizioni del patto (articoli 12, 13, 15) sono manifestamente dirette a sostituire un procedimento giuridico all'esercizio unilaterale dell'autotutela; poi il semplice pericolo di guerra, che è sempre possibile in seguito a un intervento, cade sotto la disposizione dell'art. 11.
Sembra anche sicuro che l'intervento debba ritenersi lecito quando è esplicato per legittima difesa, sia che questa rappresenti un principio autonomo di diritto internazionale, sia che essa rientri nell'autotutela, come da alcuni scrittori si ritiene. Il Fedozzi propende per la prima di queste due tesi, sembrandogli che il principio della legittima difesa, a cui nulla tolgono le difficoltà d'applicazione pratica e i possibili abusi, sia incontrastabilmente un principio di diritto internazionale positivo. Quando gli stati, col patto Kellogg, han voluto vietare le guerre di qualsiasi genere, hanno espressamente riconosciuto che tale divieto non poteva colpire le guerre mosse per legittima difesa e non hanno posto questa riserva nel patto con l'intesa che essa fosse superflua, trattandosi di principio universalmente ammesso. Quanto poi all'autonomia di questa specie d'intervento di fronte alla massa indistinta degli atti internazionali, che possono essere determinati dalla legittima difesa, sono da ripetere le stesse osservazioni fatte sopra a proposito delle rappresaglie.
Secondo alcuni l'intervento potrebbe essere legittimato dallo stato di necessità, che indurrebbe a ledere il diritto altrui per salvare il diritto proprio. Ma lo stato di necessità ha cittadinanza nell'ambito del diritto internazionale? Molti lo contestano e a ragione: se infatti dai ragionamenti astratti si passi, come si deve, all'accertamento di un principio di consuetudine, che sanzioni un vero e proprio diritto di necessità degli stati, si hanno dei risultati che lasciano molto perplessi e fanno pensare al giuoco multiforme di esigenze politiche piuttosto che alla formazione di un convincimento giuridico.
Per una parte, del resto esigua, della dottrina l'intervento sarebbe legittimato in quanto fosse usato come un mezzo di reazione contro un abuso di diritto, dandosi preventivamente come dimostrata l'effettiva esistenza di questo principio anche nei rapporti internazionali. Il Fedozzi non crede si debba arrivare alla negativa assoluta, alla quale si attiene la maggior parte della dottrina, ma ritiene che si tratti di un principio in formazione piuttosto che di un principio già formato. Ritiene pertanto che sia per lo meno prematuro parlare di questa nuova possibile legittimazione dell'intervento. Osserva poi che, quando la formazione del principio fosse già divenuta, resterebbe pur sempre a vedere se esso comprenda non soltanto il divieto dell'abuso di diritto, ma anche l'autorizzazione a reagire con l'intervento contro l'abuso di diritto. Posta la questione nel campo del diritto condendo, non sembra facile ritenere che la lesione del diritto altrui sia lecita come reazione contro un atto che costituisce un esercizio, sia pure abusivo, del proprio diritto.
Bibl.: P. Fedozzi, Saggio sull'intervento, in Archivio giuridico, 1899, fascicoli 1 e 2; A. Cavaglieri, L'intervento nella sua definizione giuridica, Bologna 1913; id., Nuovi studi sull'intervento, Roma 1928; G. Ghirardini, A proposito di intervento, in Riv. di dir. internazionale, 1913, pp. 89-104; Stowell, Intervention in international law, Washington 1921; Teubaum, Die völkerrechtliche Intervention, Greifswald 1918; Heil, Begriff und Arten der Intervention, Greifswald 1920; Strisower, v. Intervention, in Wörterbuch des Völkerrechts di Hatschek-Strupp, I, p. 581 segg.; Strupp, L'Intervention en matière financière, in Rec. des cours de l'Académie de droit international, III, 1925; Hettlage, Die Intervention in der Geschichte der Völkerrechtswissenschaft und im System der modernen Völkerrechtslehre, Colonia 1927; F. Balladore Palllieri, L'intervento come istituto giuridico internazionale, in Ann. dell'istituto di scienze giur., econ., pol. e sociali della R. Università di Messina, IV, 1930; Pitmann P. Potter, L'intervention en droit international moderne, in Rec. des cours de l'Académie de droit international, II (1930), pp. 611-69: qui una notevole bibl. a pp. 686-87.
Per l'intervento nel diritto processuale civile, v. parti; processo; per l'intervento dello stato nell'economia v. liberismo.