Integrazione europea, sovranità statale e sovranità popolare
Un errore di prospettiva
Non si va molto lontani dal vero se si osserva che a nessun evento di trasformazione istituzionale sono stati dedicati più scritti che al processo di integrazione europea. Filosofi, politologi, economisti, sociologi, giuristi, storici, hanno formulato le più varie letture di quel processo, delle sue radici, dei suoi tratti attuali, dei suoi possibili esiti. Nonostante la straordinaria abbondanza di letteratura in materia, però, non si può fare a meno di avvertire un certo senso di insoddisfazione, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione del rapporto fra i poteri delle istituzioni comunitarie e quelli degli Stati membri. La ragione sta in un evidente errore di prospettiva.
Prima di affrontare questo argomento, è indispensabile una precisazione. In che senso possiamo parlare di un processo di integrazione europea? La categoria dell’integrazione, in effetti, è al centro di uno dei più elaborati tentativi di costruzione di una teoria generale del diritto costituzionale: quello di Rudolf Smend.
Le linee essenziali del concetto giuridico-costituzionale di integrazione sono state abbozzate, da Smend, già nel saggio Die politische Gewalt im Verfassungsstaat und das Problem der Staatsform del 1923 (ora in Staatsrechtliche Abhandlungen, 1955, pp. 68 e sgg.), ma soltanto nel 1928, con Verfassung und Verfassungsrecht (trad. it. in Costituzione e diritto costituzionale, a cura di F. Fiore, J. Luther, 1988) la dottrina dell’integrazione è apparsa nella sua forma compiuta. Secondo Smend, lo Stato non è un «tutto in istato di quiete», dal quale promanano leggi, atti amministrativi, sentenze oppure qualche altra manifestazione di vita (Lebensäußerung), ma è qualcosa che viene a esistenza proprio attraverso e per il tramite di tali manifestazioni di vita. È qualcosa, dunque, che esiste e vive solamente in questo processo di continuo rinnovamento. Lo Stato, in definitiva, è l’integrazione attraverso la quale e grazie alla quale esso si costituisce in quanto Stato.
Così stando le cose, è possibile parlare di integrazione a proposito della progressiva intensificazione dei vincoli che ormai coinvolgono la maggior parte dei Paesi europei? Nella (problematica) prospettiva smendiana, invero, si dovrebbe rispondere negativamente, perché l’integrazione non è solo una tecnica o un processo di costruzione di un’unità, ma è quell’unità nel processo del suo continuo farsi e rinnovarsi. Poiché quella europea, tuttavia, non è un’unità politica paragonabile a uno Stato, la categoria dell’integrazione parrebbe inutilizzabile.
Una risposta positiva, però, può essere data se si prendono le mosse non già dalla prospettiva giuridica smendiana, bensì da quella sociologica proposta da Amitai Etzioni in Political unification: a comparative study of leaders and forces (1965; trad. it. 1969). Per Etzioni è politica quella comunità che possiede tre tipi di integrazione e precisamente: a) l’esercizio di un efficiente controllo sull’uso della forza; b) una struttura decisionale centrale capace di determinare in modo significativo la distribuzione delle risorse e dei compensi in tutta la comunità; c) la capacità di porsi come il centro fondamentale dell’identificazione politica per la grande maggioranza dei cittadini politicamente consapevoli. Ora, se è vero che l’Unione Europea «non è una comunità politica» nel senso suggerito dallo stesso Etzioni (atteso che non possiede meccanismi integrativi autosufficienti), non è meno vero che l’integrazione può essere più o meno intensa e può essere conseguentemente misurata. È pertanto possibile parlare, se non di una condizione, di un processo di integrazione, anche se questo non si è compiuto dando luogo a una comunità specificamente politica. È in questi limiti, dunque, che qui si discute di un processo di integrazione europea.
Ma torniamo all’errore segnalato in apertura. Almeno in maggioranza, euroscettici ed euroentusiasti sono accomunati dall’idea che l’integrazione europea stia comportando – se non ha già comportato – la dissoluzione della sovranità statale. Quest’idea, però, sembra doppiamente insostenibile.
Alcuni caratteri della sovranità statale
L’idea di una dissoluzione della sovranità statale non è sostenibile, anzitutto, nelle sue premesse. La sovranità della quale si lamenta o si celebra la dissoluzione, infatti, non ha mai avuto i contorni che i suoi apologeti o i suoi critici hanno immaginato.
La questione della sovranità statale, per la verità, risale al Medioevo, ma diventa centrale solo alla fine del 18° sec., con la Rivoluzione francese. La dottrina della sovranità, sin dall’inizio, era funzionale a un preciso scopo pratico: essa serviva, infatti, a dissolvere il principio universalistico sul quale si fondava il tradizionale equilibrio del mondo cristiano, sostituendo il molteplice particolarismo retto dal principio rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator all’universalità imperiale e papale (considerata doppia nella prospettiva di molti o unica nella prospettiva di Ernst-Wolfgang Böckenförde, per come esposta nelle sue riflessioni sul processo di secolarizzazione dello Stato). È grazie a quel principio che gli Stati nazionali si emanciparono dall’autorità (universale) dell’imperatore e del papa ed è grazie a quel principio che la respublica christianorum venne sostituita da una pluralità di Stati-nazione, i cui rapporti cominciarono a essere regolati da un diritto che non poteva non chiamarsi inter-nazionale. Più avanti, in periodo rivoluzionario, la dottrina della sovranità servì a fondare un nuovo ordine politico-sociale, riuscendo a spiegare (e a legittimare) la distruzione dell’ordine vecchio, ottenuta addirittura a prezzo del taglio della testa di un re di diritto divino. Nel primo caso è la dottrina della sovranità esterna dello Stato che serve alla bisogna; nel secondo è quella della sua sovranità interna. In nessuno dei due momenti, però, la sovranità è predicata di una totale assolutezza.
Riguardo alla sovranità esterna, si deve registrare anzitutto l’esistenza di principi comuni a tutte le genti, capaci di vincolare l’azione di qualunque Stato (a prescindere, dunque, dagli eventuali autovincoli negoziati in sede pattizia). In secondo luogo, occorre ricordare che all’elaborazione della nuova dottrina della sovranità statale diede un notevole contributo la dottrina canonistica, nel presupposto (pur rivelatosi, successivamente, fallace) che essa potesse essere utilizzata in funzione solamente antimperiale e che potesse essere invece neutralizzata quanto ai suoi effetti nei confronti dell’egemonia del papa.
Riguardo alla sovranità interna, è ben vero che già nel Medioevo si affermò il principio della plenitudo potestatis del monarca, ma questa non fu mai tale da pretendere di sottrarsi, in diritto, a qualunque limite o contenimento. Il potere del re, anzi, anche più avanti, in periodo assolutista, rimase giuridicamente limitato da tutta una serie di leggi fondamentali di natura essenzialmente pattizia, che conferivano benefici e privilegi sottratti alla piena disponibilità del monarca (tanto che anche la più estrema delle dottrine della sovranità interna, quella elaborata nel 16° sec. da Jean Bodin, per un verso resterà alquanto vuota di contenuti, e per l’altro non offrirà mai una descrizione fedele della realtà istituzionale della sua epoca). La stessa rottura rivoluzionaria del vecchio ordine non seppe produrre qualcosa di più della riduzione della sovranità al potere costituente (il cui concetto, ovviamente, fu indispensabile introdurre per lo scopo di legittimazione cui si è accennato più sopra). In questo modo, certo, si poneva nelle mani degli uomini l’inaudito potere di disegnare liberamente le regole di funzionamento della società, ma questa novità si pagava a caro prezzo, sganciando la sovranità dalla funzione di governo e confinandola al solo momento fondativo degli ordinamenti. Ridotta (seguendo Raymond Carré de Malberg, Contribution à la théorie générale de l’État, 1920, t. 2, p. 538) alla souveraineté des grands jours, però, essa cedeva la maggior parte del terreno sul quale avrebbe potuto dispiegarsi, perdendo – potremmo forse dire – in estensione quanto andava guadagnando in intensione. Da ultimo, non si deve dimenticare che nei moderni ordinamenti democratici non ha molto senso parlare di sovranità interna dello Stato, poiché (sia pure con formule diverse e non sempre perspicue) tutte le costituzioni democratiche qualificano titolare della sovranità interna il popolo e non più lo Stato.
Quando si parla di crisi, di sparizione, di dissolvimento della sovranità statale, dunque, si deve stare bene attenti a ciò di cui si discute. Altrimenti si finisce per seguire il medesimo percorso di alcuni noti critici del parlamentarismo (per primo Carl Schmitt, Der Hüter der Verfassung, 1931; trad.it. 1981), che, per dimostrare la crisi del principio rappresentativo, hanno capziosamente raffrontato i parlamenti di oggi con una nozione del tutto idealtipica di parlamento, in ordine alla quale era facile gioco dimostrare l’inadeguatezza e le insufficienze della realtà.
Sovranità residua degli Stati
Anche per un’altra ragione l’idea che si viene qui criticando non sembra sostenibile. Essa, infatti, muove dalla premessa che il processo di integrazione europea avrebbe determinato una vera e propria spoliazione degli Stati membri dell’Unione, ai quali sarebbero state sottratte le prerogative essenziali della sovranità, per consegnarle alle istituzioni europee. Sebbene (come poi vedremo) si metta in luce in questo modo un punto assai importante, le cose non stanno nei termini estremi che comunemente si immaginano.
In primo luogo, non si deve mai dimenticare che, come si suol dire, gli Stati sono pur sempre ‘i signori dei trattati’. Ciò significa che sono gli Stati che si autovincolano tramite lo strumento pattizio, stabilendo se, quando e quanto entrare nel processo di integrazione. In questo modo, però, è proprio lo strumento classico del diritto inter-nazionale, del diritto fatto dagli Stati nazionali e per gli Stati nazionali, che consente o impedisce l’avanzamento del processo di integrazione. Non solo. Conformemente alla Convenzione di Vienna, sono gli Stati che determinano e usano le regole costituzionali da rispettare per procedere alla ratifica dei nuovi trattati o delle modificazioni di quelli in vigore. Come hanno dimostrato alcune esperienze recenti, per es., scegliere se sottoporre o meno i nuovi trattati al voto popolare tramite un referendum non è affatto ‘innocente’, ma può determinare il successo o l’insuccesso della nuova iniziativa.
Sono gli Stati, poi, che restano i protagonisti delle istituzioni comunitarie, vuoi perché il Parlamento europeo è ancora lontano dall’essere paragonabile alle assemblee rappresentative conosciute e teorizzate dal diritto costituzionale, vuoi perché sono gli Stati che direttamente compongono le istituzioni comunitarie (come nel caso del Consiglio) o ne scelgono i membri (come nel caso della Commissione, sebbene in ‘compartecipazione’ con il Parlamento europeo).
Infine, sono pur sempre gli Stati che definiscono, in notevole misura, tempi, funzioni e possibili contenuti della normazione comunitaria. È vero che le istituzioni comunitarie hanno conquistato margini di autonomia sempre più significativi, cominciando a funzionare secondo logiche a esse interne, ma non è meno vero che esse sono tuttora pervase dall’invadente presenza degli Stati. È dunque ingenuo parlare di un’Unione distante e separata, contrapposta a Stati sottoposti ai suoi dicta, senza alcuna capacità di difesa. La realtà è ben diversa e si dovrebbe esserne adeguatamente avvertiti, anche per imputare correttamente la responsabilità politica di questa o di quella scelta di policy.
Fonti comunitarie e fonti interne
Per capire meglio cosa è accaduto e cosa sta accadendo nella vicenda della sovranità statale in rapporto al processo di integrazione europea occorre chiarire, preliminarmente, quali siano le regole giuridiche che sono andate man mano affermandosi. Poiché è impossibile, in questa sede, esaminare l’intero quadro istituzionale europeo nei suoi rapporti con quello nazionale, è bene limitarsi all’analisi del fenomeno della produzione normativa, chiedendosi che tipo di relazione esista tra le fonti comunitarie e quelle interne (nella prospettiva dell’ordinamento italiano).
A parte il caso del Trattato del Laterano con la Santa Sede, unico trattato considerato nominatim dalla Costituzione, i soli trattati che occupano nel nostro ordinamento una posizione particolare sono proprio quelli istitutivi delle Comunità europee (nonché ovviamente quelli che modificano gli accordi originari continuando a perseguirne le finalità). Essi infatti godono di una speciale ‘copertura costituzionale’, offerta dall’art. 11 Cost., secondo il quale «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». È proprio la copertura assicurata da questa disposizione costituzionale che, secondo la Corte costituzionale, conferisce ai trattati in questione una peculiare forza, sia attiva (poiché – come ha stabilito già la sentenza n. 183 del 1973 – essi possono derogare alla Costituzione) sia passiva (poiché – come si legge nella sentenza n. 86 del 1982 – possono resistere all’abrogazione da parte di leggi ordinarie o di atti con forza di legge).
Questa copertura costituzionale garantita ai trattati istitutivi si è riflessa anche nelle stesse fonti prodotte dalle istituzioni comunitarie. Se all’inizio (si veda la sent. n. 14 del 1964) la Corte costituzionale affermava il principio della natura paritaria dei rapporti tra leggi nazionali e fonti comunitarie, e tutt’al più riconosceva ai regolamenti comunitari il privilegio della diretta applicabilità nell’ordinamento italiano (sent. n. 173 del 1983), già nel 1975 (con la sent. n. 232) introduce un principio esattamente opposto a quello iniziale, in virtù del quale la legge italiana in contrasto con un regolamento comunitario deve, anche se posteriore, essere dichiarata illegittima dal giudice costituzionale. Anche l’ostacolo del necessario intervento del giudice costituzionale salta, però, nel 1984 (con la sent. n. 170), quando – adeguandosi a una precedente giurisprudenza della Corte di giustizia – la nostra Corte afferma che la legge contrastante con il diritto comunitario deve essere direttamente disapplicata (recte: non applicata) dal giudice comune. E altri passi nella direzione di un sempre maggiore rafforzamento del diritto comunitario sono fatti negli anni immediatamente successivi: con la sent. n. 113 del 1985 è imposta la disapplicazione delle leggi italiane contrastanti con le statuizioni della Corte di giustizia rese in sede di giudizio pregiudiziale ex art. 177 del Trattato di Roma (vecchia numerazione); con la sent. n. 399 del 1987 è esplicitato il principio secondo cui le norme comunitarie che derogano a norme costituzionali sono ‘equiparate’ a queste ultime; con la sent. n. 389 del 1989 è esteso l’obbligo di disapplicazione anche al caso in cui si sia in presenza di statuizioni della Corte di giustizia rese in sede contenziosa ex art. 169 (vecchia numerazione) del Trattato e in genere a «qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria»; con la stessa pronuncia si afferma che il diritto comunitario vincola direttamente non solo il giudice ma anche la pubblica amministrazione; con la sent. n. 168 del 1991 è esteso l’obbligo di disapplicazione delle leggi nazionali all’ipotesi in cui il giudice italiano si trovi di fronte a una direttiva ‘autoapplicativa’. Non ha influito granché sui rapporti tra fonti interne e fonti comunitarie, invece, il nuovo art. 117, 1° co., della Costituzione, introdotto dalla l. cost. n. 3 del 2001, secondo il quale «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Se, infatti, questa nuova disposizione (che incredibilmente fu introdotta senza che ci si rendesse conto della straordinaria novità che implicava) ha rivoluzionato i rapporti fra il diritto interno e il diritto internazionale (tanto che, oggi, le leggi italiane contrastanti con norme internazionali pattizie sono da ritenere incostituzionali: Corte cost., sentt. n. 348 e n. 349 del 2007; n. 39 del 2008), tuttavia essa non ha avuto effetti a livello di fonti comunitarie, dal momento che per quelle già operava, come si è detto, l’art. 11 della Costituzione.
L’assetto ora descritto, comunque, non esclude che i trattati istitutivi delle Comunità europee e le fonti comunitarie incontrino dei limiti costituzionali. Tanto gli uni che le altre sono infatti tenuti a rispettare il limite dei principi costituzionali fondamentali, con la differenza, però, che il controllo sui trattati è, potremmo dire, semidiretto, in quanto mediato da quello sulle leggi che li immettono nell’ordinamento nazionale, e quello sulle fonti comunitarie indiretto: la Corte costituzionale non può mai assoggettare a controllo una fonte comunitaria, ma tutt’al più può dichiarare (sempre colpendo la legge italiana che lo ha immesso nel nostro ordinamento) l’incostituzionalità del Trattato di Roma (o dei trattati successivi), nella parte in cui consentono la produzione di norme comunitarie contrarie ai principi costituzionali fondamentali.
La premessa teorica di questa conclusione (normalmente qualificata come dottrina dei controlimiti) è la stessa che regge tutto il sistema dei rapporti tra fonti interne e fonti comunitarie secondo la nostra Corte: le seconde sono considerate fonti di un ordinamento diverso da quello italiano e le loro relazioni con quelle italiane sono ricostruite in base al principio della separazione delle competenze. Per quanto riguarda il controllo di costituzionalità, è evidente che, potendo la Corte sindacare solo le leggi e gli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni (ai sensi dell’art. 134 Cost.), essa non potrebbe mai assoggettare a controllo fonti di un diverso ordinamento.
Tutto questo pone di fronte ad almeno due formidabili nodi problematici, l’uno pratico, l’altro teorico. Anzitutto: è davvero realistica l’ipotesi di un controllo di costituzionalità (diretto o indiretto) sul Trattato di Roma e sulle sue successive modificazioni? E poi: è teoreticamente soddisfacente la tesi della separazione fra ordinamento comunitario e ordinamento italiano, in presenza della diretta applicabilità nel secondo delle fonti del primo?
Quanto alla prima questione, si può rilevare come anche in Italia il giudice costituzionale abbia cercato di bilanciare in qualche modo l’acquiescenza all’espansione del diritto comunitario con il mantenimento di un controllo sul rispetto, almeno, del nucleo essenziale dei principali diritti e valori costituzionali. Un fenomeno analogo si è avuto, in contemporanea, soprattutto in Germania con la sentenza Solange I del 1974, con la sentenza Solange II del 1986, e infine con la sentenza Maastricht del 1993 (di particolare interesse per gli svolgimenti in materia di rapporto fra integrazione comunitaria e osservanza del principio democratico).
Sia la giurisprudenza tedesca sia quella italiana sono di grande importanza per la ricostruzione dello stato attuale dei rapporti fra ordinamento comunitario e principi costituzionali degli Stati membri, non fosse altro perché, come disse il presidente della Corte di giustizia Gil Carlos Rodríguez Iglesias in occasione di un incontro con la nostra Corte costituzionale svoltosi a Roma nel 2002, le Corti costituzionali dell’Italia e della Germania, rispetto a quelle degli altri Paesi fondatori, hanno avuto per motivi storici una particolare influenza sullo sviluppo dei rapporti tra il diritto comunitario e i sistemi giuridici nazionali. Nondimeno, è utile ricordare che una posizione non dissimile è rinvenibile nella giurisprudenza di altri importanti Paesi europei, come la Spagna (si veda, per es., la Declaración del Tribunal constitucional, n. 1/2004 del 13 dicembre 2004) e la Francia (si vedano le decisioni del Conseil constitutionnel n. 2004-496 del 10 giugno 2004; n. 2004-497 del 1° luglio 2004; n. 2004-505 del 19 novembre 2004).
È evidente, comunque, in Italia come altrove, che questa riserva di controllo di costituzionalità, se formalmente vale quanto meno a confermare che gli Stati membri e le loro Costituzioni restano, rispettivamente, gli arbitri e le stregue cui commisurare il processo di integrazione europea, in sostanza, si qualifica come una sorta di arma finale, che c’è per non essere mai utilizzata. Se la forma potrebbe acquietare tutti coloro i quali vorrebbero che il processo di integrazione comunitaria fosse prudente e progredisse nella sola misura in cui progredisce la legittimazione democratica delle istituzioni europee, la sostanza non è affatto confortante: la possibilità di dichiarare l’incostituzionalità del Trattato di Roma è un’arma tanto forte da esserlo addirittura troppo, sicché il suo uso, nella realtà di economie, di fatto, sempre più integrate, potrebbe risultare suicida.
Quanto alla questione teorica (che è strettamente allacciata a quella pratica), vi è in effetti chi (ci si riferisce a Federico Sorrentino) ha negato che il dualismo di ordinamento interno e ordinamento comunitario, che a parole viene sostenuto dalla nostra Corte costituzionale, sia stato davvero tenuto fermo a partire dalla sent. n. 170 del 1984. L’argomentazione di quella pronuncia porterebbe a individuare nell’art. 189 del Trattato la norma costituzionale di conflitto, autorizzata a definire l’ambito di applicazione delle fonti comunitarie di fronte a quelle interne. Con questa conclusione, però, sarebbe in contraddizione la premessa del dualismo dei due ordinamenti, mentre la realtà sarebbe quella della supremazia sul piano formale e su quello sostanziale del diritto comunitario.
La tesi della supremazia del diritto comunitario (e quindi della conseguente unità gerarchica del sistema delle fonti interne e comunitarie), tuttavia, non sembra condivisibile. La stessa dottrina che la propone, infatti, precisa, come si è riportato, che l’art. 189 del Trattato di Roma (vecchia numerazione) è la norma autorizzata a regolare il conflitto tra norme interne e norme comunitarie. Il problema, allora, si sposta sull’identificazione dell’autorità che ha rilasciato tale autorizzazione. Ebbene, poiché il nostro Paese (così come la Germania e molti altri) ha precisato, a mezzo del proprio giudice costituzionale, che le limitazioni di sovranità assentite si spingono solo fino al – e non oltre il – confine segnato dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, sembra evidente che altrettanto italiana deve essere la fonte dell’autorizzazione. La supremazia delle fonti comunitarie, in altri termini, può essere fondata solo in apparenza e in prima battuta sull’ex art. 189 del Trattato di Roma, poiché questo stesso fondamento deve a sua volta trovare il proprio nell’art. 11 della Costituzione e nel rispetto dei valori costituzionali (italiani) fondamentali. A ritenere diversamente, si finirebbe per concedere che le fonti comunitarie si impongono da sé, addirittura contro ogni previsione costituzionale interna (così come afferma Antonio Ruggeri in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti. Studi degli anni 1987/1991, 1992, p. 264), il che, per le ragioni ora dette, non si può accettare. È invece più plausibile che sia accaduto quanto ipotizzato da altra dottrina (sostenuta da Cesare Pinelli, Le fonti del diritto nell’epoca dell’internazionalizzazione, «Diritto pubblico», 1995, 2, p. 374), e cioè che l’ordinamento italiano abbia salvaguardato la potestà sovrana di ‘normazione sulla normazione’, procedendo però a una ‘autolimitazione’ condizionata al rispetto dei principi fondamentali, determinando in tal modo la perdita del monopolio statale sull’efficacia del diritto oggettivo vigente nel Paese. Il primato del diritto comunitario, insomma, è destinato a manifestarsi nella vita fisiologica del sistema, ma (come ha osservato Marta Cartabia, Ordinamento comunitario e sovranità nazionale in una sentenza del Bundesverfassungsgericht, «Giurisprudenza costituzionale », 1988, 1, parte 2°, p. 196) vale sempre con riserva, sicché esso è votato a scomparire in presenza di fenomeni patologici che facciano riemergere la vera identità (nazionale) dell’autorità che consente al diritto comunitario di funzionare come se fosse sovraordinato.
La sovraordinazione, dunque, in termini giuridici può predicarsi delle fonti comunitarie solo nei termini di una parziale finzione, poiché non possono dirsi stricto sensu sovraordinate delle fonti che poggiano la propria legittimazione proprio su una delle fonti che dovrebbero esser loro gerarchicamente sottordinate.
Probabilmente, la difficoltà di accettare la conclusione secondo la quale la supremazia delle fonti comunitarie è solo una fictio dipende tutta dal fatto che a quella finzione corrisponde, come abbiamo visto, la realtà di fatto della quasi impossibilità di far valere la perdurante riserva di autorità statale (la finzione, in altri termini, sembra così puntualmente confermata dalla realtà da non sembrare più finzione). Qui, invero, in mancanza di una definizione migliore, viene qualificato come finzione un fenomeno che non è interamente assimilabile a quelli che normalmente sono dai giuristi così definiti. Nelle finzioni giuridiche, secondo quanto osservato da Hans Vaihinger, in genere un singolo caso viene sussunto sotto una determinata struttura rappresentativa che non gli conviene in modo vero e proprio, tanto che l’appercezione si presenta come una mera analogia e si compiono una consapevole invenzione e un allontanamento dalla realtà. Tipico, a questo proposito, il caso della rappresentanza. Qui, invece, l’‘invenzione’ giuridica parrebbe registrare puntualmente la realtà, anziché segnarne un allontanamento, poiché la supremazia in diritto delle fonti comunitarie corrisponderebbe alla supremazia in fatto dell’ordinamento cui esse appartengono su quello interno.
Tuttavia, i rapporti fra ordinamenti nazionali e ordinamento comunitario sono ancora largamente in-decisi e la differenziazione tra la ‘normale’ supremazia del diritto comunitario e l’‘eccezionale’ supremazia del diritto interno esprime puntualmente la difficoltà di descrivere con una formula univoca lo stato di quei rapporti. Non è vero, dunque, che il fatto confermi in tutto la finzione (il che significa che di finzione, appunto, possiamo parlare). Inoltre, non si può confondere tra il fatto (politico ed economico) della difficoltà, per gli Stati, di sottrarsi agli obblighi comunitari, e la sostanza giuridica (che si cela dietro la – giuridica – finzione) del fondamento nazional-costituzionale della legittimazione delle fonti comunitarie. Se manteniamo ferma la distinzione, possiamo in definitiva dire che la finzione corrisponde a quella parte dello stato dei fatti in cui si manifesta l’improbabilità della denuncia del Trattato; la sostanza giuridica, invece, a quella parte in cui la denuncia è tuttora possibile.
Recuperare la necessaria distinzione fra i due piani è indispensabile per ricomporre il puzzle dei rapporti tra ordinamenti nazionali e ordinamento comunitario che a questo punto ci si presenta nella sua ricostruita unitarietà: l’ordinamento comunitario ripete pur sempre la propria legittimazione dagli ordinamenti degli Stati, così come sempre negli ordinamenti degli Stati le fonti comunitarie trovano i limiti della loro possibile efficacia per i cittadini europei.
Sovranità popolare e responsabilità politica fra competenze statali e comunitarie
Il fatto che l’impostazione dominante muova, quanto alla nozione stessa di sovranità statale, da premesse non condivisibili non vuol dire affatto che un problema di sovranità non si ponga. Si tratta, però, di un problema di sovranità popolare. È un grande merito da ascrivere al costituzionalismo l’avere identificato nel diritto il fondamento di legittimazione del potere. Con la grande svolta operata nel 17° sec. da John Locke soprattutto grazie all’opzione contrattualista, ma prima ancora (anche se molti continuano a non riconoscerlo) da Thomas Hobbes, il diritto è stato posto al centro del rapporto politico, quale strumento di legittimazione del potere. Il costituzionalismo, quindi, si è qualificato come una scienza della fondazione del potere legittimo. Così facendo, però, esso si è in qualche modo impossessato del potere, finendo quindi per qualificarsi anche (seppure non soltanto) come una scienza della limitazione del potere.
Da questo punto di vista, la più significativa conquista del costituzionalismo è stata forse l’imposizione del principio di corrispondenza fra potere e responsabilità: dove c’è potere deve esserci responsabilità, così come, in senso inverso, qualunque forma di responsabilità implica un potere di agire (o di non agire). È proprio tale conquista che sembra oggi messa a rischio dalla reazione del potere, che, finalmente catturato dal diritto, elabora raffinate strategie di nascondimento per sottrarsi ai limiti che l’ipoteca giuridica, fatalmente, gli impone.
In questa prospettiva, la moltiplicazione dei livelli decisionali e la depoliticizzazione di alcuni di essi costituiscono risposte assai efficaci. Il processo di integrazione europea permette il dispiegamento sia dell’una sia dell’altra strategia: per un verso, molte delle sedi decisionali comunitarie sono tecniche e quindi, per definizione, politicamente irresponsabili; per l’altro, il semplice spostamento verso l’alto – e cioè verso la sede sovranazionale – consente ai governi degli Stati di scaricare appunto verso l’alto la responsabilità di scelte sgradite o impopolari. Il tutto, peraltro, a costo zero anche per il livello decisionale più elevato, poiché, anche quando non sono meramente (o anche solo apparentemente) tecniche, le decisioni comunitarie non innescano i meccanismi tipici della responsabilità politica, per la semplice ragione che la Commissione (ammesso che si tratti del vero esecutivo comunitario) e il Parlamento europeo non sono legati dal medesimo rapporto fiduciario che invece stringe i governi alle assemblee rappresentative nelle forme di governo parlamentari.
Quando, dunque, si nega il deficit democratico delle istituzioni comunitarie, osservando che il Parlamento europeo viene eletto dai cittadini dei singoli Stati e che gli altri organi comunitari hanno comunque una legittimazione democratica indiretta, si trascura l’elemento essenziale della responsabilità politica: non può avere un rendimento democraticamente soddisfacente un sistema che non rende politicamente responsabili, di fronte al corpo elettorale, i titolari di poteri di decisione politica.
La questione dei diritti fondamentali
Fra gli altri aspetti di ‘sofferenza’ del rapporto tra sovranità popolare e processo di integrazione europea è opportuno metterne in luce almeno un secondo. Si tratta della grande questione dei diritti fondamentali.
È noto che una linea di pensiero che ha avuto molto successo (e che, anzi, oggi può dirsi maggioritaria) saluta con grande soddisfazione la moltiplicazione delle sedi di tutela dei diritti fondamentali. Essi si sarebbero ormai sganciati dal potere dello Stato (contro il quale, ma anche grazie al quale, si erano inizialmente affermati) e vivrebbero di una sorta di autonoma vita nella coscienza dei popoli, dimostrandosi capaci di ricevere positivizzazione nelle più varie fonti normative (e addirittura in documenti che non sono neppure fonti ma che sono paradossalmente trattati come tali: si pensi alla Carta europea dei diritti). Muove da qui la dottrina del cosiddetto costituzionalismo multilivello.
Inizialmente, la raffigurazione della realtà istituzionale contemporanea in una prospettiva multilivello ha avuto una matrice politologica, in quanto legata all’esigenza di offrire una descrizione sufficientemente puntuale della pluralità dei piani di governance (e quindi della molteplicità dei livelli e dei centri decisionali). Fino a quando si limita alla descrizione, questa dottrina può anche essere condivisa, mentre si espone alla critica quando cessa di operare sul solo piano descrittivo e si proietta su quello normativo e prescrittivo, traducendosi nell’affermazione che, non solo vi sono più livelli decisionali anche quando sono in gioco i diritti fondamentali, ma che questa pluralità di livelli e di centri è da ritenere positiva. La tesi che la moltiplicazione delle istanze di protezione dei diritti determinerebbe anche una più alta qualità di tutela, però, non ha fondamento.
L’incremento della quantità dei diritti e la proliferazione degli strumenti di tutela non sono affatto, di per sé, dati positivi per i diritti.
In primo luogo, la proclamazione di un medesimo diritto in più documenti normativi è spesso fonte di confusione e di incertezza giuridica. Anche parole identiche, collocate in contesti diversi, esprimono diversi significati, ed è davvero singolare che giuristi assai raffinati, usualmente più che consapevoli delle complesse acquisizioni dell’ermeneutica contemporanea, finiscano per dimenticarlo facendo d’ogni erba un fascio quando raffrontano i testi normativi che su piani ordinamentali differenti danno protezione dei diritti.
In secondo luogo, non è affatto semplice dire quando un livello di protezione dei diritti sia ‘più alto’ di un altro. Il classico esempio che si può fare a questo proposito è quello del rapporto tra libertà economiche e diritti sociali: è più alto il livello di protezione in un ordinamento che i diritti sociali non li conosce – e quindi tutela in massimo grado le libertà economiche – o in un ordinamento che, conoscendo i diritti sociali, impone, per il loro soddisfacimento, limiti e condizioni a quelle libertà? E anche su altri terreni gli esempi si possono moltiplicare: è più alto il livello di tutela in un ordinamento che, per proteggere la maternità responsabile, consente l’interruzione della gravidanza, o in un ordinamento che, per proteggere l’aspettativa di vita del nascituro, la vieta? Come si vede, si tratta di quesiti retorici, che non possono avere un solo tipo di risposta.
Ancora: la dottrina del costituzionalismo multilivello svaluta i testi normativi ed esalta eccessivamente l’opera delle Corti, chiamate all’arduo compito di ‘distillare’ una sostanza comune ai vari ordinamenti di riferimento e a identificare, al di là delle scelte compiute dalle autorità normative competenti in ciascuno dei livelli coinvolti, un astratto punto di equilibrio fra diritti confliggenti o fra diritti e contrapposti interessi sociali. Ora, sembra evidente che ridurre i diritti all’oggetto di un accertamento giudiziale delle correnti profonde della società, equivale a mortificare le istanze decisionali democratiche, sottraendo ancora una volta spazio alla sovranità popolare. Almeno negli ordinamenti di tipo europeo-continentale (che danno limitato rilievo alla tradizione e al rispetto del precedente), è riconosciuto ai popoli il diritto di decidere (anche se nei limiti di una ragionevole armonia con le compatibilità della storia: chi potrebbe mai sognarsi, oggi, di reintrodurre il diritto di possedere degli schiavi?) dei propri diritti e dei propri doveri. Si tratta di una decisione tipicamente politica (anzi, della decisione politica per eccellenza, visto che è quella che disegna i valori di riferimento che danno all’ordinamento la parte più riposta della sua specifica identità), della cui possibilità, tuttavia, i popoli tendono a essere privati. Inoltre, non tutti i conflitti fra diritti possono essere risolti da un giudice con le usuali tecniche che sono a sua disposizione (a partire da quella del bilanciamento), poiché alcuni richiedono una specifica mediazione politica (le comunità politiche hanno anche la responsabilità di decidere sulle questioni che riguardano i diritti, senza cedere alla troppo semplice tentazione di chiudere gli occhi e di attendere che sia un giudice a risolvere i problemi).
Infine, il costituzionalismo multilivello è segnato da un ottimismo che invero è alquanto ingiustificato, visto che spesso tra i diversi livelli sui quali operano i diritti fondamentali non vi è coincidenza di contenuti precettivi e che non sempre è possibile un’armonizzazione o un bilanciamento tra le diverse tradizioni normative. Se, fino a oggi, non si sono verificati scontri clamorosi, per es. tra la Corte di giustizia delle comunità europee e le Corti costituzionali degli Stati membri, è stato solo perché la prima si è ispirata a un opportuno self restraint o perché gli Stati si sono rassegnati a introdurre revisioni costituzionali per tenere conto delle sue decisioni (è quanto è avvenuto dopo la sentenza 11 gennaio 2000, C-285/98, Kreil/Bundesrepublik Deutschland, nella quale, pur ben consapevole dell’art. 12a del Grundgesetz, che andava in tutt’altra direzione, la Corte di giustizia affermò che la direttiva 1976/207/CEE approvata dal Consiglio tenutosi il 9 febbraio del 1976 metteva le donne in posizione di eguaglianza con gli uomini per quanto concerneva l’accesso all’impiego militare).
Prospettive
Il momento di grave difficoltà che attraversa il processo di integrazione europea dopo il referendum irlandese sul Trattato di Lisbona non consente di fare alcuna previsione su quelle che saranno le sue prossime tappe. Si può provare, tutt’al più, a dire qualcosa su come le cose, d’ora innanzi, dovrebbero andare.
Si sa che la direzione del processo di integrazione europea era stata tracciata già da Robert Schuman nella dichiarazione del 9 maggio 1950, pronunciata presso il Ministero degli Affari esteri: l’integrazione europea era prospettata come un approdo da raggiungere dopo aver creato le condizioni oggettive per una «solidarietà di fatto». Nella stessa direzione suggerita da Schuman si era mosso Jean Monnet (tanto che ancora oggi si parla, appunto, di metodo Monnet), elaborando la strategia che possiamo chiamare ‘dei piccoli passi’ o ‘del fatto compiuto’: l’integrazione (o addirittura l’unione) politica europea era il lontano obiettivo da perseguire, ma il suo raggiungimento sarebbe stato possibile solo grazie all’impulso dato dall’azione concreta in campo economico, piccolo passo – appunto – dopo piccolo passo.
La conseguenza di questa impostazione era che la finalità ultima (la costruzione dell’unione politica) non era negata, ma i singoli passi compiuti in tale direzione non dovevano essere esplicitamente presentati come tali, bensì come semplici attuazioni obbligate di ‘oggettive’ esigenze di progresso economico. La meta, insomma, era destinata a essere raggiunta per forza d’inerzia, attraverso un percorso opaco e alquanto indiretto.
Questa strategia, lo si deve riconoscere, ha avuto grandissimi meriti. È proprio grazie alla politica dei piccoli passi che sono stati ottenuti risultati altrimenti inimmaginabili e sono state vinte resistenze e superati ostacoli. Se una gran parte del nostro continente non ha conosciuto la guerra ormai da sessant’anni lo dobbiamo proprio alla scelta di promuovere l’integrazione facendo leva sulla comunanza di interessi (economici). Chiunque abbia a cuore la causa dell’europeismo, tuttavia, non deve dimenticare che la politica dei piccoli passi era stata immaginata come una soluzione temporanea, che non solo non escludeva, ma anzi auspicava e anticipava l’approdo a esiti ben più robusti della mera comunanza di interessi economici. Il fine dell’integrazione politica, in altre parole, non era affatto incompatibile con il mezzo dell’integrazione economica. È assai dubbio, però, che quella gloriosa strategia possa risultare ancora oggi appagante.
I ripetuti insuccessi dei tentativi di ottenere, in via referendaria, un più saldo consenso popolare all’approfondimento del vincolo europeo dimostrano il notevole livello di disaffezione nei confronti delle istituzioni comunitarie. Non è affatto provato, però, che essi dimostrino anche un atteggiamento antieuropeista. È assai probabile, invece, che le pronunce popolari negative si spieghino, più che con la richiesta di meno Europa, con quella di più Europa o almeno di un’Europa diversa, meno freddamente economica e più saldamente politica. Anche se non si dedicano agli studi di teoria politica o di diritto costituzionale, i cittadini europei avvertono perfettamente il rischio di un eccesso di espropriazione delle loro prerogative, appunto, di cittadini. La riconciliazione tra l’Europa e la sovranità popolare, allora, sembra dover passare per l’abbandono delle vecchie, consolidate, strategie e per una più coraggiosa scelta innovativa. La questione della natura politica del vincolo europeo, in definitiva, non può più essere elusa, né è più possibile sottrarre ai cittadini dei singoli Stati dell’Unione la decisione sulla propria sorte.
Bibliografia
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