INTEGRAZIONE E MISURA
. La moderna teoria dell'i. si occupa del concetto generale di "misura" e del concetto di "integrale" relativo a un'arbitraria misura. Essa costituisce una notevole estensione della classica teoria di Mengoli-Cauchy-Riemann (v. integrale, calcolo, XIX, p. 364), in quanto l'integrale che è alla base di quest'ultima teoria non è altro che l'integrale relativo a una particolare m. (la m. di Lebesgue), e per giunta ristretto a una classe di funzioni assai meno ampia di quella considerata dalla teoria moderna.
1. Concetto di misura. - Questo concetto si presenta come la naturale formalizzazione matematica dell'essenza comune alle m. di certe grandezze geometriche (lunghezza, area, volume) o fisiche (massa gravitazionale) o di altra natura (probabilità). Misurare una di queste grandezze significa associare, a ciascuna porzione "abbastanza regolare" di un certo spazio, un numero positivo (cioè ≥ 0) che ne misuri, secondo i casi, la lunghezza o l'area o il volume o la massa o la probabilità. Lo spazio è costituito: nel caso della lunghezza, dalla retta (o da una curva); nel caso dell'area, dal piano (o da una superficie); nel caso del volume e della massa, dallo spazio ordinario (o da una parte di esso): nel caso della probabilità, dall'insieme dei possibili esiti di una certa vicenda aleatoria (in quest'ultimo caso le parti di cui si misura la probabilità rappresentano "eventi" legati alla vicenda in questione: precisamente, la parte A rappresenta l'evento che si verifica se e solo se l'esito della vicenda appartiene ad A).
Qualunque sia la grandezza considerata, è chiaro che la m. gode della proprietà additiva (v. additiva, proprietà, I, p. 488): la m. della riunione di due parti senza elementi in comune (rappresentanti, nel caso della probabilità, due eventi tra loro incompatibili) è eguale alla somma delle m. delle due singole parti. Pregiudiziale alla misurazione è naturalmente la scelta (spesso sottintesa nella pratica) delle parti "abbastanza regolari", cioè delle parti cui si stimi possibile o desiderabile attribuire una misura. È naturale che questa scelta sia fatta in modo tale che le parti misurabili formino una "tribù", cioè in modo che l'intero spazio sia misurabile e che la riunione di una qualsiasi successione di parti misurabili, come pure la differenza di due parti misurabili, siano ancora parti misurabili. Inoltre è abbastanza naturale ammettere (anche se, nel caso della probabilità, non tutti concordano su questo punto) che la proprietà additiva valga non solo per la riunione di due parti disgiunte, ma anche per la riunione di un'infinità numerabile di parti a due a due disgiunte ("additività numerabile"). Si è così condotti a porre le seguenti definizioni. Si chiama "spazio misurabile" una coppia (X, A) costituita da un insieme X ("spazio ambiente") e una tribù A di parti di X (tribù degli "insiemi misurabili"). Si chiama "misura" (o, più precisamente, "m. positiva") nello spazio misurabile (X, A) una funzione numerica positiva μ (non necessariamente finita), definita in A, tale che si abbia μ(ø) = 0 e
per ogni successione (An) di insiemi misurabili, a due a due disgiunti. Se μ è una m., per ogni insieme misurabile A il numero μ(A) è detto la "m. di A" (secondo μ). La m. μ è poi detta: "σ-finita", se lo spazio ambiente è riunione di una successione di insiemi di m. finita; "normalizzata", se (come accade quando μ abbia il significato di una m. di probabilità) lo spazio ambiente ha m. eguale a 1.
2. Il "problema della misura". - Un esempio molto elementare di m. si ottiene fissando un punto x0 di X e definendo μ(A) (per ogni parte A di X) come eguale a 1 o a zero, secondo che A contenga o non contenga x0. La m. così definita "m. di Dirac") rappresenta intuitivamente una massa unitaria concentrata nel punto x0. Essa ha la particolarità di esser definita nella tribù di tutte le parti di X.
Ci si può chiedere se in questa tribù sia possibile definire anche una m. finita, non identicamente nulla, che assuma valore nullo sulle parti costituite da un sol punto. È questo il celebre "Problema della misura". Evidentemente la risposta non dipende che dal "cardinale" di X (v. insieme, XIX, p. 358) ed è negativa se X è numerabile. Nel caso generale, il problema è insoluto. Numerose e importanti sono le sue connessioni con altri celebri problemi della teoria degl'insiemi, quale, per es., il "Problema del continuo" (v. insieme, loc. cit.).
3. Costruzione di una misura sulla retta. - La proprietà di additività numerabile fa sì che i valori di una m. sui diversi insiemi misurabili non siano tra loro indipendenti. È naturale quindi aspettarsi che una m. sia completamente determinata dai valori che essa assume su una ristretta classe di insiemi misurabili. Esistono in effetti numerosi teoremi che consentono, partendo da un'assegnata funzione λ, definita su una speciale classe di insiemi misurabili e soddisfacente a opportune condizioni, di affermare l'esistenza e l'unicità di una m. μ prolungante λ e definita sull'intera tribù degl'insiemi misurabili. L'utilità pratica di questi teoremi è tanto maggiore quanto più "costruttivo" ne è il carattere, cioè quanto più esplicita e diretta è l'espressione che della m. μ essi forniscono.
Come illustrazione di questi teoremi, noi ci limiteremo a descrivere un metodo per costruire una m. sulla retta reale. Ricordiamo che per retta reale s'intende l'insieme R dei numeri reali, munito della sua abituale topologia. In questa topologia ogni insieme aperto è riunione di una famiglia numerabile di intervalli aperti, a due a due disgiunti (le sue "componenti connesse". La minima tribù di parti di R che contenga la classe degl'insiemi aperti è detta la "tribìu di Borel" (o tribù degli "insiemi boreliani") di R. Una m. definita nella tribù di Borel, che assuma valore finito su ogni intervallo limitato, è detta una "m. di Borel" su R. Sia ora Φ una funzione reale crescente, definita in R. Per ogni intervallo aperto T (limitato o no) si denoti con λ(T) l'incremento di Φ su T (ossia la differenza tra l'estremo superiore e l'estremo inferiore di Φ su T). La funzione così definita sulla classe degl'intervalli aperti può, in uno e in un sol modo, esser prolungata in una m. di Borel μ. Precisamente, il prolungamento si effettua in due tempi: 1°) per ogni insieme aperto A, si definisce μ(A) come la somma dei valori di λ sulle componenti connesse di A; 2°) per ogni insieme boreliano B, si definisce μ(B) come l'estremo inferiore dei valori di μ sugl'insiemi aperti contenenti B. La m. μ così ottenuta è detta la m. "generata da Φ". È facile vedere che è possibile ottenere in questo modo (al variare di Φ) tutte le possibili m. di Borel su R. In particolare, se si parte dalla funzione Φ(x) = x, si ottiene la "m. di Borel-Lebesgue" su R. Questa può esser caratterizzata come l'unica m. di Borel su R rispetto alla quale ogni intervallo ammetta come m. la propria lunghezza. Per questo motivo, se B è un qualsiasi insieme boreliano di R, il valore che su di esso assume la m. di Borel-Lebesgue è detto anche la "lunghezza" di B. La m. di Borel-Lebesgtie si può estendere in modo ovvio alla tribù costituita dagl'insiemi "misurabili secondo Lebesgue", cioè della forma B ⋃ N, dove B sia un insieme boreliano e N una parte di un insieme boreliano di lunghezza nulla. La m. così prolungata è detta la "m. di Lebesgue" su R.
4. Definizione di integrale. - Sia μ una m. nello spazio misurabile (X, A). Una funzione numerica f, definita in X, è detta "misurabile" se, per ogni numero reale c, l'insieme }x: f(x) > c} è misurabile. (Questo concetto estende quello di funzione misurabile secondo Lebesgue: v. funzione, XVI, p. 185, n. 11). In particolare, la funzione indicatrice di un insieme misurabile A, ossia la funzione iA che vale 1 su A e zero altrove, è misurabile. Ogni funzione f misurabile e positiva ammette un'espressione del tipo
con (An) successione di insiemi misurabili e (an) successione di numeri reali positivi. In corrispondenza si pone
convenendo di assumere 0•(+∞) = 0. Il numero così definito (che non dipende dall'espressione scelta per f) si chiama l'"integrale" di f. rispetto a μ, o anche la "speranza matematica" nel caso in cui μ abbia il significato di una m. di probabilità. Una funzione f si dice poi "integrabile" rispetto a μ se essa è misurabile e tale che le due funzioni (misurabili e positive) f+ = sup (f, 0), f- = sup (− f, 0) abbiano entrambe integrale finito. In tal caso, si chiama "integrale di f" il numero ∉ f dμ = ∉ f+ dμ − ∉ f- dμ. Se f, g sono funzioni reali integrabili e se a, b sono numeri reali, anche la funzione af + bg è integrabile, e si ha: ∉ (af + bg) dμ = a ∉ f dμ + b ∉ g dμ. In altri termini, le funzioni reali integrabili formano uno "spazio vettoriale", sul quale l'integrale è una "forma lineare" (v. spazio, App. III, 11, p. 789). L'integrale è inoltre "isotono", nel senso che la relazione f ≤ g implica ∉ f dμ ∉ g dμ.
Sia ora f. una funzione numerica, definita su una parte di X, e sia A un insieme misurabile contenuto nell'insieme di definizione di f. Si consideri la funzione fA, definita su X, che coincide con f su A e che è nulla fuori di A. Se questa funzione è integrabile, si dice che f è integrabile su A: in tal caso l'integrale di fA si designa con ∉A f dμ e si chiama l'"integrale di f su A" (o "esteso ad A").
5. Relazioni con gli integrali di Stieltjes, Lebesgue, Mengoli-Cauchy. - Sia f una funzione reale, definita in un intervallo chiuso e limitato [a, b] della retta reale.
a) Se f è continua, il suo integrale su [a, b] rispetto alla m. generata dalla funzione crescente e continua Φ coincide con l'integrale di Stieltjes ∉ba f(x) dΦ(x) (v. integrale, calcolo, XIX, p. 364).
b) Affinché f sia integrabile su [a, b] rispetto alla m. di Lebesgue, occorre e basta che f sia sommabile" nel senso definito alla voce integrale, calcolo, XIX, p. 364, e in tal caso l'integrale di Lebesgue ivi definito è null'altro che l'integrale di f su [a, b] rispetto alla m. di Lebesgue. Questo si riduce poi all'integrale di MengoliCauchy quando f sia integrabile secondo Mengoli-Cauchy: e affinché ciò accada occorre e basta che f sia limitata e che l'insieme dei suoi (eventuali) punti di discontinuità abbia lunghezza nulla.
6. Il teorema di Riesz. - Rispetto a una qualsiasi m. di Borel su ogni funzione reale continua che sia identicamente nulla fuori di un intervallo limitato è integrabile. Se dunque si designa con ℋ lo spazio vettoriale costituito da queste funzioni, si può, a ogni m. di Borel μ, associare la forma lineare isotona Iμ così definita su ℋ: Iμ(f) = ∉ f dμ. Viceversa (teorema di Riesz), se I è una qualsiasi forma lineare isotona su ℋ, esiste una e una sola m. di Borel μ su R, tale che si abbia I = Iμ. L'insieme delle m. di Borel su R appare cosi identificabile con una parte del "duale" dello spazio vettoriale ℋ. (v. spazio, App. III, 11, p. 789).
La nozione di m. di Borel e il teorema di Riesz si estendono allo spazio Rn (spazio numerico a n dimensioni) e, più in generale, a uno spazio localmente compatto.
7. Prodotto di misure. - Assegnati gli spazi misurabili (X, A), (Y, ℬ), si designa con A ⊗ ℬ la minima tribù di parti di X × Y che contenga gl'insiemi della forma A × B con A elemento di A e B elemento di ℬ. Se μ, ν sono m. σ-finite in (X, A), (Y, ℬ) rispettivamente, esiste una e una sola m. σ-finita λ in (X × Y, A ⊗ ℬ), tale che si abbia λ(A × B) = μ(A) ν(B) per ogni elemento A di A e ogni elemento B di ℬ. La m. λ è detta il prodotto di μ per ν e è denotata con μ ⊗ ν. Per una funzione integrabile rispetto a μ ⊗ ν il teorema di Lebesgue-Fubini consente di ricondurre il relativo integrale a un "integrale iterato". La definizione di prodotto si estende agevolmente al caso di n misure. si può allora definire la m. di Borel-Lebesgue in Rn come il prodotto di n m. tutte identiche alla m. di Borel-Lebesgue su R. La m. di Borel-Lebesgue in R2 può esser caratterizzata come l'unica m. di Borel in R2 rispetto alla quale ogni rettangolo ammetta come m. la propria area. Per questo motivo, se B è un qualsiasi insieme boreliano di R2, il valore che su esso assume la m. di Borel-Lebesgue si dice anche l'"area" di B. Per analogo motivo si parla di "volume" a proposito della m. di Borel-Lebesgue in R3.
8. Misure assolutamente continue. - Siano μ, ν due m. σ-finite nello spazio misurabile (X, A) e sia f una funzione positiva e misurabile. Si dice che ν ammette f. come "densità" rispetto a μ se risulta ν(A) = ∉A f dμ per ogni insieme misurabile A. In tal caso la cosiddetta teoria della derivazione delle m. consente, sotto opportune ipotesi, di affermare che una relazione del tipo
(dove il limite è preso "al tendere dell'insieme A al punto x", in un senso opportunamente precisabile) è vera se si prescinde dai punti x appartenenti a un certo insieme di m. nulla secondo μ. (Di qui la giustificazione del termine "densità"). Affinché ν ammetta una densità rispetto a μ, occorre e basta che ν sia assolutamente continua rispetto a μ, nel senso che ogni insieme di m. nulla secondo ν abbia m. nulla anche secondo v (teorema di Lebesgue-Radon-Nikodym).
10. Misure non necessariamente positive. - La definizione di m. si può estendere col sopprimervi la condizione di positività. Il concetto più generale che ne risulta è assai comodo in molte questioni. Esso tuttavia si riconduce a quello di m. positiva, grazie alla "decomposizione di JordanHahn", esprimente una qualsiasi m. come differenza di due m. positive.
11. Sviluppi e applicazioni. - Tra i vari sviluppi della teoria, ci limiteremo a citare: le m. in algebre di Boole (o in altre strutture algebriche), le m. vettoriali, l'integrazione delle funzioni vettoriali, le capacità, le m. di Hausdorff, la "teoria geometrica" della m. (i cui recenti progressi sono legati ai nomi di E. De Giorgi e H. Federer). Tra le molte applicazioni, segnaleremo quelle al calcolo delle probabilità, alla teoria ergodica, all'analisi armonica, alla teoria dei numeri, alla meccanica quantistica.
12. Cenni storici. - Sebbene divenuta popolare solo in epoca piuttosto recente, la teoria della m. è stata creata nel primo ventennio di questo secolo. Il suo inizio si può far coincidere con la costruzione, a opera di E. Borel (1898), di quella che oggi è chiamata la m. di Borel-Lebesgue su R. Pochi anni più tardi H. Lebesgue, nella sua celebre tesi (1902), dopo aver semplificata e resa più esplicita la costruzione di Borel, sviluppava per primo la moderna nozione di integrale. Nello stesso tempo egli estendeva la teoria, dal caso della retta, a quello di Rn e ne forniva le prime applicazioni (lunghezza di una curva, area di una superficie, serie trigonometriche). Alla teoria di Lebesgue apportava notevoli contributi G. Vitali (cui si deve, tra l'altro, il primo esempio d'insieme non misurabile secondo Lebesgue). Nel 1913 J. Radon introduceva la nozione generale di m. in Rn e la relativa nozione d'integrale, mostrando come questa contenga, nel caso della retta, la nozione d'integrale secondo Stieltjes. Egli estendeva inoltre al caso di Rn il teorema di F. Riesz (da quest'ultimo dimostrato nel 1909 per il caso della retta). Il passaggio dalle nozioni di m. e d'integrale in Rn alle corrispondenti nozioni "astratte" veniva compiuto poco più tardi (1915) da M. Fréchet (la cui opera sarà poi considerevolmente approfondita e sviluppata da C. Carathéodory). Nel 1918 P. J. Daniell, in una nota molto importante sul piano metodologico, invertiva i ruoli della m. e dell'integrale, assumendo come fondamentale quest'ultima nozione, intesa come forma lineare su un opportuno spazio di funzioni. (L'idea di Daniell sarà poi ripresa e sviluppata da M. H. Stone [1948-49] e costituirà la base di molte esposizioni moderne della teoria dell'integrazione). Nel 1933 A. Kolmogorov, fondando assiomaticamente il calcolo delle probabilità, lo faceva apparire come un capitolo della teoria della misura. Nello stesso anno A. Haar, costruendo su un gruppo localmente compatto la m. invariante che porterà il suo nome, inaugurava la moderna analisi armonica. Fu soprattutto quest'ultima applicazione che fece spostare l'attenzione, dalle m. "astratte", verso quelle "topologiche". Per diversi anni l'interesse rimase concentrato sulle m. negli spazi localmente compatti. Solo di recente, in seguito ai lavori di Y. V. Prohorov (1956) e di altri probabilisti, l'interesse si è allargato al caso di spazi topologici più generali (spazi polacchi, lusiniani, susliniani), soprattutto in vista della costruzione di m. di probabilità su spazi funzionali.
Bibl.: S. Saks, Theory of the integral, New York 1937; P. R. Halmos, Measure theory, ivi 1950; G. Fichera, Lezioni sulle trasformazioni lineari, Trieste 1954; C. Carathéodory, Mass und Integral und ihre Algebraisierung, Basilea 1956; N. Dunford, J. Schwartz, Linear operators, parte I, New York 1958; F. Cafiero, Misura e integrazione, Roma 1959; E. Hewitt, K. A. Ross, Abstract harmonic analysis, Berlino 1963; H. J. Keisler, A. Tarski, From accessible to inaccessible cardinals, in Fund. Math., 53, 1964 (contiene una ricca bibliografia sul "Problema della misura"); G. Aquaro, Alcuni aspetti della teoria dell'integrazione di Daniell-Stone, Bari 1965; O. Nikodym, The mathematical apparatus for Quantum-theories, Berlino 1966; N. Dinculeanu, Vector measures, Oxford 1967; A. C. Zaanen, Integration, Amsterdam 1967; D. Kölzow, Differentiation von Massen, Berlino 1968; J. Dieudonné, Eléments d'analyse, Parigi 1969; H. Federer, Geometric measure theory, Berlino 1969; J. Neveu, Bases mathématiques des probabilités, Parigi 1970; C. A. Rogres, Hausdorff measures, Cambridge 1970; C. Dellacherie, Ensembles analytiques, capacités, mesures de Hausdorff, Berlino 1972; N. Bourbaki, Intégration, capp. 1-9, Parigi 1963-73 (contiene anche notizie storiche particolareggiate); L. Schwartz, Radon measures on arbitrary topological spaces, Bombay 1973; Ch. M. Marle, Mesures et probabilités, Parigi 1974.