Insegnamento pubblico e privato nell'alto Medioevo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’età tardoantica vede una riduzione dell’insegnamento privato a favore di quello pubblico; in particolare, la Chiesa diffonde una pedagogia di tipo monastico, e, pur non avendo alle spalle una tradizione come quella delle scuole rabbiniche, riesce a ottenere buoni risultati. La Chiesa si trova poi a dover fronteggiare il problema della formazione religiosa per coloro che intendono avviarsi allo stato ecclesiastico, molti dei quali analfabeti. Esiste inoltre un tentativo di compromesso fra questa formazione cristiana e le discipline tradizionali, esperimento tentato senza fortuna da Cassiodoro.
Gli ultimi secoli dell’impero sono connotati da un sempre più profondo intervento dello Stato sulle istituzioni scolastiche e da una progressiva limitazione dell’autonomia dell’insegnamento privato che resta appannaggio di un ristretto numero di famiglie aristocratiche. Con il declino di questo ceto e con l’emergere di nuove classi dirigenti burocratico-militari, la natura pubblica della istituzione scolastica si consolida mentre si definiscono – sia da parte dell’autorità centrale sia da parte delle locali competenze municipali – i livelli locali di controllo sulla formazione. Questo processo è visibile anche nei distretti formatisi all’indomani della instaurazione dei regni romano-germanici dove, specialmente nelle città maggiori, si verifica una sostanziale continuità nel percorso degli studi, specie nel campo di quelli retorico-letterari – pur nel modificarsi di alcuni caratteri della cultura classica. La restaurazione giustinianea (527-565) conferma la prassi tardoimperiale di un vigile controllo dello stato in materia di istruzione: a fronte di una ormai evidente crisi nell’insegnamento libero impartito nelle scuole non pubbliche, Giustiniano ordina, infatti, la chiusura di quelle di diritto, salvaguardando alcune sedi di eccellenza, come quelle di Costantinopoli, Roma e Beirut. La Prammatica Sanzione, emessa dall’imperatore, ripristinando lo statuto giuridico stabilito dal Codex teodosiano riattribuisce ai magistri i privilegi di cui essi avevano goduto in età tardoimperiale, confermando le finalità della istruzione superiore: la formazione di una classe colta di funzionari destinati ad assolvere alle necessità amministrative dello Stato.
Sono gli ultimi fuochi di una filosofia della scolarizzazione che, per quanto limitata al ciclo superiore, continua a essere intesa come servizio di natura “pubblica”: già dal volgere del V secolo, infatti, è in corso un processo di costante rarefazione della offerta educativa delle istituzioni municipali locali e ci si avvia alla loro progressiva estinzione. L’insegnamento torna ad essere compito della famiglia mentre, gradatamente, la Chiesa avvia anche su questo fronte una sua precipua supplenza istituzionale. Pur non avendo elaborato una tradizione scolastica analoga, ad esempio, a quella rabbinica, e avendo semmai a lungo partecipato del sistema educativo del mondo tardo antico, l’istituzione ecclesiastica cristiana vanta tuttavia una propria tradizione culturale trasmessa attraverso molti canali: dalla consuetudine familiare fino alla formazione catechetica, con il successivo perfezionamento assicurato dalla prassi rituale comunitaria e dalla omiletica, a sua volta corroborata dalla circolazione degli scritti di alcuni Padri, come sant’Agostino (354-430), il cui De doctrina christiana avrebbe costituito un “classico” in età medievale. Proprio da Agostino, del resto, si evince come il metodo educativo romano, con i suoi fondamenti retorico-grammaticali, abbia perfettamente supportato la primitiva tradizione esegetica cristiana.
Sarà tuttavia il successo dell’esperienza spirituale monastica a influire maggiormente sulla definizione di una pedagogia cristiana. Abbandonando il mondo, il monaco si distacca anche dai suoi valori e tradizioni culturali: in questo senso, ad esempio, Giovanni Cassiano, nelle sua Collationes richiama le esortazioni dell’abate Nestore ai giovani religiosi affinché sostituiscano ai ricordi scolastici la meditazione scritturale; ammonizioni a dimenticare la cultura profana che tornano in Fulgenzio di Ruspe, Cesario di Arles o, più tardi, in Benedetto da Norcia. Il monaco deve imparare a leggere esclusivamente per aver accesso alla Bibbia e al Salterio, allo scopo di rielaborarne esegeticamente il significato spirituale.
Tra IV e V secolo, sia in Oriente sia in Occidente, nei centri monastici più importanti, gli abati – come san Martino a Ligugé e poi a Tours o Onorato di Arles a Lérins – si occupano dell’istruzione elementare dei monaci in vista dello studio dei testi sacri, alla luce dell’idea, poi esplicitata anche nella Regola di Benedetto da Norcia, che l’intera vita monastica sia Dominici schola servitii. L’abate è al contempo padre e maestro attento alle differenziate attitudini dei figli/allievi, e la metafora del monastero come scuola continuerà a imporsi anche nella letteratura religiosa del pieno Medioevo. Essenzialmente definitasi nell’esperienza monastica di Lérins, la cultura monastica del V e VI secolo si irradia nella regione mediterranea, dalla Provenza alla Borgogna, all’Italia e alla Spagna, fino all’Africa, esportando un modello ascetico a sua volta ispirato a quello dei Padri del deserto egiziani e palestinesi. Dai testi prodotti in questa stagione monastica si evince un progetto educativo di alfabetizzazione infantile (nei monasteri infatti si accettano anche bambini tra i sei e i sette anni) fondato sul Salterio e sulla memorizzazione dei Salmi: su questa base si sviluppa poi la lettura e la meditazione personale sui testi sacri, sulle scritture normative (commenti alle Regole), sulla letteratura esegetica e agiografica. Un impegno culturale di questo tipo impone la necessità di biblioteche monastiche e incentiva la riproduzione dei testi in appositi scriptoria: la lettura costituisce infatti la via maestra per la meditazione e la contemplazione di Dio che a essa, come tutta la vita monastica, è finalizzata.
Con l’aprirsi dell’Occidente alla sperimentazione spirituale del monachesimo si avvia però una sorta di compromesso tra il “fondamentalismo” spirituale orientale e l’equilibrato pragmatismo della tradizione latina; compromesso mediato proprio dall’adozione, nell’ambito della formazione religiosa, della strumentazione educativa ereditata dal mondo classico. Quest’ultima, infatti, pur essendo intesa quale supporto al corretto sviluppo dell’esegesi scritturale e liturgica, esaltando il primato della scrittura e della lettura anche nella formazione dell’esperienza spirituale ne assicura la continuità e la trasmissibilità.
Esempio di questo metabolismo culturale è l’esperienza di Cassiodoro, l’aristocratico romano collaboratore di Teodorico che nel 536, con l’appoggio di papa Agapito, avvia l’esperimento di una scuola superiore nella quale l’insieme delle discipline tradizionali si coniuga perfettamente con la formazione di una cultura cristiana. Fallito in conseguenza della guerra greco-gotica, questo progetto sarebbe stato ripreso più tardi (dopo il 550) nel cenobio calabrese Vivarium. Fondata sul presupposto strumentale di una biblioteca “mista” di letteratura classica e di testi cristiani – oltre che di uno scriptorium – la prassi educativa vivariana si sofferma anche sulle morfologie linguistiche dando particolare risalto, ad esempio, a quelle regole della punteggiatura e dell’ortografia che solo molti secoli dopo, nel pieno sviluppo dell’umanesimo, sarebbero state riproposte nella formazione letteraria. Nell’Italia centro-meridionale accanto al poco fortunato esperimento di Cassiodoro vanno segnalati il caso napoletano del Lucullanum e il monastero romano di Sant’Andrea fondato, alla fine del secolo VI, dal futuro papa Gregorio Magno. Anche l’esperienza monastica spagnola, arricchita dalle correnti migratorie dei monaci africani, presenta importanti esemplificazioni di continuità degli studi profani a Siviglia, a Valenza (nel monastero di Servitanum), a Toledo e Saragozza.
A partire dal VI secolo si matura una attenzione alla formazione religiosa anche da parte del clero secolare che attinge all’esperienza monastica per promuovere una alfabetizzazione indispensabile alla conoscenza dei testi sacri e all’amministrazione liturgico-musicale degli uffici.
Il concilio di Toledo del 527 ordina la creazione, presso le sedi vescovili, di scuole nelle quali si prevede la presenza di un magister addetto all’istruzione di quanti intendano avviarsi allo stato ecclesiastico, pur non escludendo l’accesso a laici interessati a una formazione letteraria. Evidentemente si tratta di una scolarizzazione d’élite riservata ai centri urbani più vitali: poco più tardi questa attenzione si estende anche alle aree rurali, come evidenziano le deliberazioni del concilio di Vaison (529) relativamente alla istituzione, presso le pievi, di scuole destinate alla formazione di chierici aperte anche ai laici.
Sul volgere di questo secolo si avvia anche una importante sperimentazione educativa nell’ambito del monachesimo irlandese. Le prime scuole monastiche in area iberica, documentate già all’inizio del secolo VII, sono caratterizzate da una forte attenzione alla grammatica, al computo e all’esegesi biblica ed esprimono in qualche modo, nella apertura ai laici e all’aristocrazia dirigente, il carattere missionario della evangelizzazione insulare: i giovani dei ceti più elevati, avviati all’esperienza militare presso la corte o signori di rango, perfezionano la loro istruzione letteraria nei monasteri, essendo del tutto assente una tradizione pedagogica privata.
A Clonard o a Bangor, già sede dell’esperienza missionaria di Colombano prima del suo trasferimento in Gallia, a Derry o a Iona, dove rifulge l’insegnamento di Colomba, i monaci sono preparati alla lettura e all’esegesi della Scrittura mediante una formazione letteraria fondata sulla conoscenza degli scrittori profani e nei loro studi primeggia anche il computo. L’irradiazione del monachesimo irlandese trasferisce questo modello educativo nel nord dell’Inghilterra, a Lindisfarne e nelle filiali di Whitby, importante monastero doppio al quale la badessa Ilda assicura una forte caratterizzazione culturale ospitando intellettuali e poeti come Caedmon. Nel mondo insulare, nel quale l’evangelizzazione si è avvalsa della creazione di centri monastici abilitati alla formazione religiosa, l’azione missionaria celtica si incontra con quella latina promossa da Gregorio Magno, generando una sintesi culturale destinata a grande fortuna. I suoi influssi saranno particolarmente evidenti in Gallia, specie all’indomani dell’arrivo di Colombano a Luxeuil in Borgogna, agli inizi di una itineranza missionaria nel settentrione del paese che gli assicurerà, oltre a proseliti di ambo i sessi, anche l’ascolto di ecclesiastici di alto rango impegnati nel rinnovamento spirituale della Chiesa franca. Penetrata anche nell’Italia del Nord, dove, a Bobbio, si conclude il viaggio terreno di Colombano, la cultura monastica celta si incontra con quella benedettina diffondendosi poi nelle regioni mediterranee.
Il grande rinnovamento religioso avviatosi in Irlanda giunge alla sua piena maturità nell’Inghilterra del secoli VIII e IX: a Canterbury come a Malmesbury, dove primeggia la figura di Aldelmo, a Wearmouth, a Yarrow dove Beda il Venerabile incardina il suo lungo e prolifico magistero educativo, a York, dove lo imita il più illustre dei suoi allievi, Alcuino di York.
In Italia, in questo stesso periodo, Bobbio consolida la sua funzione di grande centro di studio e di produzione libraria, mentre gli si affiancano, come poli di cultura e di formazione monastica, Novalesa, Farfa, Nonantola, Montecassino. Nella Gallia del tardo periodo merovingio emergono le filiazioni di Luxeuil: Corbie, Fleury-sur-Loire (più tardi Saint-Benoît-sur-Loire), Saint-Martin-de-Tours, Saint-Denis e si moltiplica la loro produzione di manoscritti liturgici e agiografici. In Germania l’opera evangelizzatrice dell’anglosassone Bonifacio – o Wynfrith – ha formato un nuovo e dinamico discepolato che prepara la via alla “rinascenza” dell’età carolingia.
Largamente inefficace come sistema educativo generalizzato, la scolarizzazione monastica non copre però l’insieme della popolazione ecclesiastica che rimane perlopiù analfabeta, specie nei distretti rurali e periferici. Sarà questa criticità ed un più generale ridefinirsi della istruzione clericale come interesse “pubblico” condiviso anche dalla autorità secolare a giustificare la rinnovata attenzione alla scuola che caratterizza i secoli VIII e IX. In precedenza la sopravvivenza di competenze necessarie alla formazione di funzionari e giusdicenti, (ad esempio presso i Franchi, i Visigoti o i Longobardi) era stata assicurata non tanto da una precipua tradizione scolastica, quanto piuttosto dalla trasmissione, di solito garantita dall’apprendistato, di saperi professionali. Sarà in buona parte in risposta alla domanda di una preparazione scolastica idonea ad assicurare queste competenze che l’educazione ecclesiastica restituirà parziale autonomia culturale all’insegnamento delle arti liberali, fino ad allora coltivate in ragione della loro complementarità rispetto agli studi esegetico-testuali.
Il crescente interesse pubblico per l’istruzione è attestato anche dalla progressiva ingerenza delle autorità laiche in materia di ordinamenti scolastici religiosi, come evidenzia la partecipazione del duca di Baviera Tassilone al concilio di Neuching (772), o il sostegno dato da Pipino il Breve all’applicazione della regola di Crodegango di Metz. Sono queste le premesse a un progetto di renovatio scolastica che si dispiegherà solo con Carlo Magno. Il quadro che emerge dai capitolari carolingi – al pari di quanto attestano anche i sinodi e i concili – è quello di un desolante decadimento dei “saperi minimi” che, specialmente in campo religioso, rischia di compromettere il corretto esercizio della funzione sacerdotale con travisamenti ed errori sia in materia dogmatica sia liturgica. Per realizzare il suo programma di riforma Carlo coinvolge figure di grande rilievo nel monachesimo europeo – come l’ispanico Teodulfo, l’inglese Alcuino, l’italico Paolo Diacono – che collaborano anche alla razionalizzazione del sistema normativo regolare con l’adozione generalizzata della Regola di san Benedetto.
La Schola palatina istituita ad Aquisgrana avrebbe trasmesso alle generazioni future una sistematizzazione scolastica dei saperi che, con la sua bipartizione letteraria (arti del trivio: grammatica, retorica e dialettica) e scientifica (arti del quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia e musica) avrebbe condizionato non solo il Medioevo. Posti sotto la protezione imperiale, vecchi e nuovi monasteri – come Saint-Martin-de-Tours, Saint-Wandrille, Gorze in Lorena, Fulda in Germania, San Gallo o, più tardi, Reichenau – divengono i poli di una rinascenza culturale che moltiplicherà la produzione e la trasmissione dei testi assicurando non solo la sopravivenza alle opere dell’Antichità ma anche una loro migliore conoscenza. L’aprirsi delle strutture educative monastiche ai laici e ai secolari implica talvolta la creazione di scuole riservate agli “esterni” al mondo claustrale allo scopo di preservare la specificità pedagogica di quest’ultimo: in questo senso si muove ad esempio la decisione con cui nell’817 Benedetto di Aniane limita ai soli oblati la scuola claustrale escludendo da essa i giovani aristocratici e i futuri chierici. Di contro a Fleury-sur-Loire e a San Gallo se ne aprono due.
L’interesse imperiale per l’educazione ecclesiastica si mantiene inalterato durante i regni di Ludovico il Pio e di Carlo il Calvo che si avvalgono della collaborazione di grandi intellettuali come Rabano Mauro di Fulda, discepolo d’Alcuino, cui si deve, nel De institutione clericorum, la testimonianza più completa sui programmi e sugli autori “in uso alle scuole” in età carolingia, Valafrido Strabone di Reichenau, Lupo Servato di Ferrières, senza contare la schiera di geniali Scoti esuli sul continente europeo, come Sedulio Scoto e, soprattutto, Giovanni Scoto Eriugena. Maestri gravati di importanti responsabilità educative nei confronti dell’aristocrazia, essi influiscono anche sulla formazione dei ceti dominanti, favorendo l’osmosi culturale tra società e Chiesa. La tenuta del sistema educativo promosso a partire dall’età carolingia sarebbe stata evidente anche nella crisi di assestamento politico e demografico vissuta dall’Europa del X secolo. Dopo la fase di anarchia politica e la stagione di violenza avviatasi con le scorrerie normanne, ungare e saracene, la Germania (e particolarmente la Sassonia) vive una straordinaria stagione intellettuale: a Corvey, fondazione di Corbie, dove riluce la fama di Viduchingo, a Gandersheim, dove la cultura monastica parla con la voce di una donna – la monaca Rosvita –, o nelle grandi scuole di Reichenau e San Gallo. Nel definirsi dei suoi confini con l’alterità slava sul versante orientale, con quella araba a Occidente, l’Europa avvia osmosi feconde: ne è riprova sul fronte dei rapporti con la cultura islamica il ruolo culturale dei centri monastici della Catalogna (Ripoll e San Michele di Cuxa) e la straordinaria fama del più celebre tra gli allievi di quelle scuole, Gerberto d’Aurillac, il “papa mago” Silvestro II. In Gallia la giovane pianticella di Cluny sta mettendo le sue radici mentre Abbone anima Saint-Benoît-sur-Loire estendendo la rete delle amicizie spirituali che la legheranno, nell’XI secolo, ad Anselmo (1033-1109) e all’abbazia di Le Bec.
Incardinata sulle strutture territoriali della Chiesa – vescovadi, monasteri, pievi rurali – la riforma educativa carolina si è imposta capillarmente, assicurando un reticolo di strutture scolastiche assai diffuso anche se essenzialmente rivolto alla formazione di religiosi. Quest’ultima destinazione avrebbe finito con l’imporsi sugli auspici più “generalisti” suggeriti da Carlo e già l’età di Ludovico il Pio evidenzia la progressiva divaricazione del programma regio rispetto a quello sviluppato dalla struttura ecclesiastica. Da parte imperiale si è così costretti a ricordare ai vescovi e alle autorità religiose il carattere “pubblico” di questa delega, mentre la Chiesa tende a rispondere con la progressiva limitazione degli accessi scolastici ai non ecclesiastici. Nell’825 Lotario I, con il capitolare di Corteolona, identifica alcune città dei territori italiani settentrionali quali centri distrettuali di una organizzazione scolastica regia perlopiù indipendente dall’autorità vescovile. Sarebbe tuttavia erroneo cogliere in questa divaricazione una sostanziale differenziazione sia nei destinatari sia nei programmi delle Scholae di fondazione regia rispetto a quelle clericali, pur iniziando a delinearsi una più chiara demarcazione tra la formazione degli ecclesiastici rispetto a quella dei laici. La crisi istituzionale che segna la fine del sistema “statuale” carolingio influisce anche sulla organizzazione regia della scuola, per la quale, anche in età ottoniana non si segnalano interventi normativi di tipo pubblico o comunque mutazioni nell’assetto precedente. Di contro, il perfezionarsi della cultura monastica e l’accresciuto rilievo istituzionale dell’episcopato tra X e XI secolo prepareranno la strada al nuovo impegno educativo della Chiesa nell’ XI secolo.