INSEGNA (dal lat. insignia, plur. dell'agg. neutro sostantivato insigne)
Contrassegno distintivo, messo in luogo visibile, per denotare simbolicamente un'autorità, una dignità, una professione.
A significare il loro potere e il loro prestigio i capi, presso le popolazioni primitive, portano delle insegne, le quali generalmente sono derivate dai trofei, dalle armi e da altri emblemi dell'uomo militante. Fra le più note insegne sono il bastone, la clava, la scure, la lancia, nonché il parasole (Asia e Africa). Clave intagliate, bastoni simili a scettri, scuri dal manico corto (tamarana dei brasiliani, butu dei Caribi, ecc.) costituivano presso gl'indigeni dell'America Meridionale i distintivi dei capi, prima che gli Europei v'introducessero i bastoni d'onore. Fra gli Araucani l'emblema del capo supremo era una scure di porfido o di marmo (toki). La stessa arma con lo stesso ufficio si trova nell'Africa, anzi nell'Uganda è di ferro rivestito di rame e ha il manico d'avorio.
La lancia come segno dell'autorità, si trova in varî paesi, da sola o congiunta con altre armi. Nel Madagascar l'Ellig notò, fra i più comuni distintivi dei capi, la lancia e il bastone. Questi arnesi compariscono spesso variamente adorni. La lancia del capo presso i Peruviani del tempo di Garcilaso era adorna dalla punta alla base di anelli d'oro e di penne multicolori. Nella parte meridionale di Celebes, a Bima, la lancia reale, che è l'emblema del potere, precede il cavallo sacro.
Oltre le insegne derivate dalle armi e dai trofei, i capi possono portare diademi e pietre pettorali. Tipici fra i primi quelli che gl'Indiani dell'America sogliono preparare con penne variegate e scaglie di alligatore; fra le seconde sono caratteristiche le pietre sonore, le quali sono simili agli scudi pettorali dei Polinesiani e sono fatte in forma di mezzaluna, con le conchiglie di grandi molluschi, con nebriti e altre sostanze ridotte a tale sottigliezza da mandare, le percosse, un suono.
In varî luoghi della Malesia le insegne, su cui si fonda il prestigio reale e da cui nasce il potere magico-divino, sono considerate come talismani; e qualora il re le perdesse, i suoi dipendenti resterebbero svincolati dall'obbligo della fedeltà. Lo stesso diritto al trono è subordinato al possesso del talismano (Celebes), il quale non solo è conservato come un feticcio in uno speciale edifizio, specie d'arca santa, ma è adoperato in gravi circostanze, come strumento di divinazione. In tal caso viene spalmato con sangue ed è oggetto di riti, cerimonie e preghiere.
Insegne militari.
Si dà qui notizia delle insegne militari degli antichi, a cui corrispondono nelle civiltà moderne le bandiere (v.) e gli stemmi (v. araldica), e delle insegne di commercio, prescindendo da quegli altri contrassegni caratteristici (vesti o parti di esse di forma o di colore speciale, anelli distintivi o altri simboli) che conservano il valore ma non il nome d'insegna.
Gli Egizî e i popoli dell'Asia anteriore, quando andavano in combattimento, recavano come insegna l'immagine dell'animale sacro della tribù o quello della divinità che consideravano loro protettrice; così, mentre da un lato si credeva d' interessare la divinità alle sorti della battaglia, e si accresceva in tal modo animo ai combattenti, si dava a questi un naturale centro di raccolta in caso di pericolo. Quanto alla forma dell'insegna, essa era più comunemente costituita da una asta, in cima alla quale era posto il simbolo sacro; nei rilievi assiri questo, due tori contrapposti o un arciere sopra un toro, era collocato entro una specie di disco traforato. Presso i Persiani l'insegna reale era una grande aquila dorata; ma accanto a questa essi usavano probabilmente anche la figura di altri animali.
Nessun ricordo figurato abbiamo d'insegne militari presso i Greci nell'età più antica, e scarse e incerte sono anche le testimonianze scritte: d'altronde sembra che il loro uso fosse pressoché nullo, dato l'ordinamento tattico dell'esercito. Alessandro Magno, invece, trasse forse dall'Oriente l'uso d'innalzare come insegna un drappo purpureo (ϕοινικίς).
Assai meglio informati siamo per ciò che riguarda l'esercito romano. Secondo la tradizione, la prima insegna data da Romolo fu un pugno di fieno innalzato sopra una pertica: da essa anzi sarebbe venuto alla schiera fornita di tale insegna il nome di manipulus: più probabile è invece che il nome fosse derivato dal fatto che l'insegna primitiva era costituita da una mano aperta. La quale a sua volta sarebbe stata la sostituzione e l'amplificazione, resa necessaria dall'uso, del braccio alzato con cui l'ufficiale impartiva gli ordini ai suoi soldati. Certo conviene a tal proposito tener presente il duplice genere d' insegne che si hanno presso i Romani: da un lato quelle che rappresentano un segno sacro, destinato ad allontanare dall'esercito la disfatta, e sono quelle delle unità tattiche maggiori; d'altro lato quelle che, al pari degli strumenti musicali (tubae e cornua), servono soprattutto per impartire e trasmettere ordini, e sono quelle delle unità minori.
Fra le prime si debbono innanzi tutto ricordare le insegne della legione. Questa nei primi tempi repubblicani, fino a Mario, portava in battaglia cinque insegne, rappresentate ciascuna da un animale: l'aquila, il lupo, il minotauro, il cavallo, il cinghiale: è evidente la derivazione di tali simboli dal primitivo culto degli animali sacri. La cavalleria aveva invece come insegna un piccolo drappo, il vexillum, su cui erano applicati a loro volta simboli diversi, o più tardi, l'immagine dell'imperatore. Mario conservò delle cinque insegne l'aquila (v.), che divenne da allora il simbolo dell'esercito e della potenza romana. L'aquila, figurata ad ali spiegate, con negli artigli il fulmine, era, nella repubblica, d'argento, e il fulmine d'oro: nell'impero anche l'aquila fu d'oro.
Accanto all'aquila ogni legione aveva altri suoi simboli particolari, e quindi altre insegne: di solito figure di divinità o di animali, la cui scelta era dettata da particolari contingenze, relative al momento o all'autore della creazione del corpo. L'insegna delle coorti e dei manipoli rimase invece in generale quella della mano aperta. Quando, traendo soldati da una o più legioni, si costituiva per un'impresa speciale un reparto staccato, questo assumeva come sua insegna un vessillo, donde il suo nome stesso di vexillatio. Insegne particolari avevano parimenti i corpi ausiliarî. L'insegna del comandante era un vessillo purpureo, che nel campo veniva innalzato sul pretorio, e in marcia e nel combattimento seguiva il comandante, avendo soprattutto lo scopo d'indicare il luogo dove questi si trovava, e segnalarne alle truppe gli spostamenti.
L'insegna era normalmente portata in cima a una pertica, che in basso era munita di un puntale per essere conficcata in terra, e sulla quale erano fissate le onorificenze di cui il corpo era insignito (torques, phalerae, ecc.), e altri simboli varî. Nell'impero si aggiunse l'immagine del principe regnante; dopo Costantino fu introdotto il monogramma cristiano (v. labaro). Colui che portava l'insegna aveva rango fra i sottufficiali: era detto con termine generale signifer, o anche aquilifer, vexillifer, imaginifer: come distintivo particolare egli recava sulle spalle una pelle ferina, con cui copriva anche il capo; il signifer del manipolo doveva tenersi di solito durante il combattimento vicino al centurione, per trasmettere ai soldati gli ordini di questo. Incerta invece è la distribuzione delle altre insegne durante la battaglia: la questione, largamente dibattuta, non si può ancora dire risolta (v. legione). Nel campo tutte le insegne erano raccolte in un sacrario, annesso al pretorio: esse avevano infatti carattere sacro, come si rileva dall'affresco di Dura (v. affresco, tav. a colori); si celebrava in loro onore un dies natalis, nel quale venivano rimesse a nuovo, e si dedicavano loro basi votive.
Bibl.: F. Sarre, Die altorientalischen Feldzeichen, in Klio, III (1903), p. 303 segg.; A. v. Domaszewskj, Die Fahnen in röm. Heere, Vienna 1885; J. Kromayer-G. Veith, Heerwesen und Kriegführung d. Griechen und d. Römer, Monaco 1928; A. J. Reinach, Signa militaria, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, IV, p. 1307 segg.
Insegna commerciale.
Storia, arte, folklore. - L'insegna è d'uso antichissimo. Consisteva, e consiste ancora, ove ne rimane, di una targa affissa alla parete o di una tabella, o altro oggetto, sporgente da essa; di marmo o pietra o legno la prima, di legno dipinto, ma più specialmente di ferro, anche policromato, la seconda. La targa a muro poteva, e può recare, oltre alla vera e propria insegna, il nome del proprietario e il titolo dell'azienda. La tabella sporgente recava e reca generalmente o uno strumento del mestiere, o un oggetto della produzione, o la figura di un santo - compreso il santo patrono - o un simbolo qualsiasi. Spesso, invece di una tabella figurata, si aveva e si ha la stessa figura, intagliata o modellata. Anche oggi, in qualche cittadina di provincia una tuba dorata indica il negozio del cappellaio, o uno stivale quello del calzolaio, mentre ha resistito quasi dappertutto l'uso delle due bande di tessuto scarlatto, appese ai lati dell'ingresso delle tintorie.
Le insegne cui ancora ricorre il popolino e il commercio più umile possono consistere in oggetti o in figure. Varie quelle della prima specie, a cominciare dai cannelli di carbone, dal ferro di cavallo, dalla forma di legno o dalla bacinella di rame, che indicano ancora, in molti paeselli, le botteghe del carbonaio, del maniscalco, del calzolaio e del barbiere. Caratteristiche le collane di denti molari di bue o di asino, che i flebotomi siciliani esponevano un tempo. Le taverne usano tuttavia, in più luoghi, la vecchia insegna, passata anche in proverbio: il ramo d'alloro o di ulivo. Più varie le insegne della seconda specie. In esse l'arte ha sostituito agli oggetti naturali le figure simboliche o allegoriche. Tipiche le tabelle dei tabaccai con un moro che fuma un lungo sigaro o una grande pipa; dei salassatori con un uomo con le vene aperte, degli osti con un popolano che trinca o un monaco che sbevazza, ecc. Note gaie e vive macchie di colore hanno le tabelle dei venditori napoletani. A richiamare l'attenzione dei clienti e a suscitare il loro buon umore, si aggiungono alle figure frasi e motti. Non vanno dimenticate le insegne di ferro battuto, a disegni simbolici e adorne di espressioni bizzarre e allegre per esaltare l'eccellenza del vino, la gioia della vita compendiata nel mangiare e nel bere, e via dicendo.
I simboli della produzione usati come insegne, e per lo più di grandi proporzioni, sostituirono in un dato momento un oggetto o più oggetti reali, posti in mostra all'entrata della bottega; mentre, escluso il caso del santo patrono - del resto meno indicato a distinguere le botteghe di un medesimo mestiere -, può darsi che alcune delle insegne simboliche, commerciali, siano derivate dalle insegne padronali o nobiliari: cioè da quelle immagini che, fino dal Medioevo, decoravano e distinguevano molte case. Più spesso le insegne commerciali derivarono da un edificio vicino (chiesa, ponte, fontana) o da un luogo (piazza o via), per quanto viceversa piazzette e straducole si denominassero non di rado dall'insegna commerciale di questa o quella bottega; oppure furono create dalla fantasia e dal capriccio (eroi popolari, leggendarî, mitici), oppure da una moda o andazzo (come dopo la scoperta dell'America o Nuova India, o al tempo del fanatismo per la Cina e il Giappone). Finalmente, almeno alcune delle insegne animalesche, escluse quelle fantastiche (sirene, draghi e simili), poterono derivare da animali vivi, anche ammaestrati, esposti un tempo sulla soglia della bottega, come richiamo. Alberghi, osterie, trattorie, dovunque ebbero l'obbligo dell'insegna; e se questa quasi sempre è sparita, ne rimane ricordo nel titolo di quelle. E l'insegna fu considerata vera proprietà commerciale, che poté mutar di possesso; così alcune botteghe accomunarono più di un'insegna, come del resto avviene ora per gli alberghi. Per questi poi una medesima insegna, ripetuta in città diverse, poteva essere garanzia di buona qualità, come del resto accade anche oggi; mentre certe insegne (Giglio di Francia, Scudo di Francia, Croce di Malta) potevano anche indicare speciali prerogative o una determinata clientela.
Copiosa potrebbe essere la letteratura dell'insegna, dalle leggi e dai bandi che ne disciplinarono l'uso, ai documenti d'archivio; dai novellieri e romanzieri, a cominciare dal Boccaccio, ai viaggiatori fino a Victor Hugo, che ha dedicato all'insegna una delle sue lettere renane; e finalmente agli studiosi regionali.
Né sarebbe agevole tentar soltanto un elenco dei varî tipi. Certo si è che l'insegna ebbe quasi sempre una pretesa artistica o almeno decorativa; e più che tra le poche che rimangono - molte però, e pur belle, a osterie del Bergamasco e ad alberghi della Svizzera, della Baviera e della Normandia - tra le numerose conservate nei musei, o documentate da pitture, miniature e stampe; mentre abbiamo notizia di veri e proprî artisti che si dedicarono alla esecuzione d'insegne; e tanto per far qualche nome si ricordano Bernardo Palissy e Andrea Brustolon cui furono rispettivamente attribuite un'insegna di un albergo parigino (Au Fort Samson) e quella d'una spezieria veneziana (All'Ercole); fra Vittore Ghislandi, che per il barbiere Oletta ne dipinse una (ora all'Accademia Carrara di Bergamo) e Antonio Watteau che eseguì la celebratissima del mercante di quadri Gersaint (oggi, ma discussa, nelle collezioni imperiali di Berlino); Carlo Vernet e Gavarni. Androuët du Cerceau non disdegnò di includere nel suo Livre de serrurerie varî modelli d'insegne sporgenti, in metallo. Ai nostri giorni, artisti come Leonetto Cappiello, hanno fatto pure dell'insegna un'opera d'arte.
Nelle città cinesi il prospetto delle botteghe assume spesso come in Europa una speciale unità architettonica, costituita di solito da pannelli e sporgenze variamente intagliati e scolpiti. La vivacità e l'espressione dell'insieme è determinata dalle insegne appariscenti e spesso eleganti in legno, a vivaci colori con caratteri dorati e brillanti sculture di fiori, fogliami, animali, figure umane. Alcune insegne orizzontali sovrastano le porte, come da noi; caratteristiche sono invece le insegne verticali, talvolta appese ai lati dell'ingresso, o infisse ai lati, su basi di pietra. I passanti hanno così la visione di una serie ininterrotta d'insegne. Sono specialmente vistose le insegne delle farmacie, dei Monti di pietà, ristoranti, alberghi. Sono comuni eleganti lanterne con iscrizioni. I nomi dei negozî alludono spesso a una caratteristica del luogo o esprimono qualche buon augurio, p. es. "fiducia e giustizia" (per qualsiasi bottega), beneficenza celeste" (per un Monte di pietà), ecc.
In Giappone le insegne delle botteghe e la loro forma somigliano a quelle cinesi, per es., Kinki-rü "la torre della tartaruga d'oro", per un ristorante; Fuji-mi-tei "padiglione da cui si vede il monte Fuii", ecc. In Giappone, e da pochi anni anche in Cina, l'imitazione dell'architettura europea fa scomparire nei negozî moderni alcune delle più eleganti e caratteristiche insegne.
V. tavv. LXXXI e LXXXII.
Diritto. - L'insegna è il nome o segno onde viene distinto un dato locale (negozio, magazzino, stabilimento) dell'azienda. Dalla limitata funzione distintiva dell'insegna deriva la limitazione della sua protezione al solo ambito territoriale dove il locale è conosciuto relativamente alla sola industria che vi si esercita; per altra industria, o per la stessa industria, in altri luoghi, quando cioè non vi sia pericolo di confusione, la medesima insegna si può liberamente adottare da altri, salvo che l'insegna consista nel nome del commerciante, nel qual caso valgono le norme di tutela del nome.
L'insegna può essere nominativa o emblematica, nel senso che può essere costituita dal nome stesso del commerciante, o da una denominazione di fantasia (Leon d'oro, Paradiso dei bambini) o da segni o figure (un cavallo bianco, una stella d'oro). Deve essere nuova e cioè di tal natura da distinguersi dalle altre che si riferiscono a locali d'egual genere nell'ambito dello stesso territorio; deve inoltre essere specifica e cioè non formata da segni o denominazioni generiche che stiano a indicare la natura del commercio o dello stabilimento (es., sarebbero invalide come insegne, una testa di bue per una macelleria, un ombrello per la bottega di un ombrellaio, o le denominazioni: fabbrica di pasta, birreria, albergo, grand hôtel, ecc.); l'insegna non deve contenere segni contrarî all'ordine pubblico o stemmi ed emblemi che la legge riserva a pubbliche istituzioni; e deve essere verace, cioè non deve portare indicazioni atte a trarre il pubblico in inganno (art. 12, n. 6, legge 30 agosto 1868).
Il diritto esclusivo all'insegna si acquista per occupazione, e cioè per il fatto di adottarla per primo, senza bisogno di formalità o depositi. L'insegna si può acquistare anche in modo derivativo, non mai però indipendentemente dallo stabilimento o negozio cui inerisce. L'opinione, per cui l'insegna si potrebbe cedere separatamente dallo stabilimento che essa sta a contraddistinguere, è da ripudiarsi: l'insegna, infatti, è il segno distintivo di quel determinato stabilimento, la designazione locale di una data azienda, e come tale è conosciuta dal pubblico; ammetterne la cessione isolata, nell'ambito di sua notorietà (fuori non avrebbe nessun valore), è ammettere la possibilità di trarre in inganno il pubblico. È invece possibile e legittimo che taluno, nel trasferire la propria azienda, trattenga presso di sé l'insegna: né nel trattenere presso di sé il segno, mentre si è ceduta la cosa che esso rappresentava, può vedersi un pericolo per la pubblica fede, giacché chi ha creato sa anche riprodurre, e il segno da lui usato continuerà a esprimere quelle stesse qualità che il pubblico aveva già imparato ad apprezzare sotto di esso. Questa separazione, nella cessione, dell'azienda dai segni, se può avvenire, non è però normale; perché chi acquista un'azienda intende acquistare normalmente anche la clientela, e così anche i mezzi e i segni che servono al suo richiamo. Di qui la conseguenza che, se non v'è pattuizione espressa in contrario, l'insegna (al pari del marchio) s' intende senz'altro compresa nella cessione volontaria o coatta dello stabilimento o dell'azienda. Ciò si deve dire anche nel caso d'insegna costituita dal nome del cedente. Il nome del commerciante adottato come insegna perde la sua significazione soggettiva e diventa il segno distintivo di una cosa, di un oggetto, che appartiene bensì al titolare del nome ed è presso di lui protetto così come è protetto il suo nome (art. 5 legge del 1868), ma che può formare materia di legittima contrattazione ed essere trasmesso in godimento a un terzo, senza danno per la buona fede del pubblico.
Il diritto all'insegna si perde per abbandono volontario o per desuetudine; non basta però l'interruzione temporanea e forzata dell'esercizio (es., per fallimento). Il diritto all'insegna è tutelato dall'art. 5 della legge 30 agosto 1868, e penalmente dall'art. 12, n. 3, della stessa legge. In caso di usurpazione o contraffazione dell'insegna, pertanto, oltre alla penalità (multa fino a L. 2000) comminata dall'art. 12 citato, il danneggiato potrà esperire le solite azioni spettanti in caso di concorrenza illecita e cioè l'azione proibitoria diretta a interdire al concorrente la prosecuzione del suo comportamento illecito, e l'azione per accertamento della sua responsabilità e il risarcimento del danno, ove il concorrente abbia agito con dolo o colpa.
Bibl.: Storia e arte: J. Grand Carteret, L'enseigne, Grenoble 1902 (con bibliografia per l'Europa occidentale ed elenco delle insegne esistenti nei musei della Francia e del Belgio); per l'Italia: G. Dian, Cenni storici sulla farmacia veneta, parte 5ª, Venezia 1905 (con un capi su "Le insegne delle spezierie da medicina", e la riprod. di quelle di un cod. Gradenigo del Museo Corner). Vedi anche: E. Zaniboni, Alberghi italiani e viaggiatori stranieri, Napoli 1921.
Folklore: G. Pitrè, Gesti ed insegne del popolo sicil., in Riv. di letter. popolare, I (1877), p. 41 segg.; id., Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popo. sicil., I, Torino-Palermo 1887-1889, p. 404 seg.; id., La famiglia, la casa, la vita del pop. sicil., Palermo 1913, p. 359 seg.; G. Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, Torino 1908; E. Veo, Roma popolaresca, Roma 1929; D. Provenzal, Insegne popolari napoletane, in Rass. contemporanea, V (1913), p. 399 seg.; L. Angelini, Insegne d'osteria bergamasche, in Riv. di Bergamo, X (1931), pp. 291-299, 339-446. Altre indicazioni in G. Pitrè, Bibliografia delle trad. popolari d'Italia, Torino 1874; E. Hoffmann-Krayer, Volkskundliche Bibliographie, Berlino-Lipsia 1920-1931.
Diritto: oltre i trattati generali sulla concorrenza illecita (v. concorrenza, XI, p. 85 segg.) v.: C. Vivante, Trattato di diritto commerciale, III, 5ª ed., Milano 1926, p. 12 segg.