Iniziative economiche, accumulazione e investimenti di capitale (1830-1866)
Quanti non ne abbiamo conosciuto, che cominciarono a speculare con poco o senza capitali proprj, e che col frutto delle loro lontane relazioni, della loro perspicacia, dei loro lumi, della loro personale attività si sono fatti ricchi e taluni anche con fortune colossali? (Guido Avesani, 6 ottobre 1851).
Data l’estrema carenza di studi analitici sull’economia veneziana in età austriaca, non è agevole affrontare il tema in termini di sintesi senza cadere nella superficialità. A differenza dell’interesse destato fra gli storici dal Veneto in epoca postunitaria, la dimensione economico-sociale del capoluogo regionale e dei vari centri urbani nella tormentata fase di transizione fra il venir meno della Repubblica veneta e gli anni turbinosi delle guerre e del periodo napoleonico fino al cinquantennio della dominazione austriaca manca di studi soddisfacenti.
Molto di più per la prima metà dell’Ottocento è stato prodotto sulle modalità dello sviluppo socio-economico della Lombardia, di cui richiameremo solo quei contributi che ci sembrano più significativi per la ricostruzione delle basi materiali dell’evoluzione della regione, ma anche per quel che concerne l’orientamento del presente saggio(1). Il quale necessariamente comporterà delle esclusioni. Un capitolo che richiede ancora molte indagini è quello dell’afflusso di capitali esteri e «nazionali» (quelli cioè di sudditi austriaci di altre province della Monarchia). Ditte inglesi, norvegesi, francesi, tedesche, svizzere e naturalmente «nazionali» sono impegnate attivamente in particolare nel commercio di commissione e di import/export, approfittando delle esenzioni doganali del portofranco a partire dal 1830. Molti di questi uomini mettono radici stabilmente in città e intrecciano le loro iniziative a quelle degli uomini d’affari autoctoni, partecipando per esempio come azionisti o accomandanti a varie imprese commerciali e industriali. Alcuni di essi verranno qui ricordati a mano a mano che se ne offrirà l’occasione, altri (come per esempio quei francesi operanti nei settori dell’illuminazione a gas e della distribuzione di acqua potabile o Salomon Rothschild con la sua fabbrica di bitume ed asfalto e la sua azienda di sfruttamento delle saline di S. Felice) dovranno essere sacrificati anche per mancanza di dati sufficienti(2). D’altra parte, per non esporsi al rischio di presentare semplici elencazioni o tediose catalogazioni, abbiamo dovuto tralasciare sezioni tradizionali del settore secondario come le cererie e i saponifici, gli zuccherifici e le industrie alimentari, le concerie e le tipografie, l’industria tessile e dell’abbigliamento, tanto per ricordare le meno trascurabili in termini di produzione e di valore aggiunto. Un’ulteriore forzata esclusione concerne l’universo ramificato delle microaziende a carattere famigliare, dell’artigianato, del mondo inesplorato dei bottegai e dei venditori al minuto, soggetti spesso a rapidi tracolli, come avviene regolarmente nelle disastrose crisi cicliche ricorrenti. È un mondo complesso che andrebbe seriamente indagato, se non altro perché costituiva certamente una quota non trascurabile del prodotto interno lordo dell’economia cittadina. A Venezia del resto convivono assieme forme di produzione diverse, dalla piccola manifattura artigianale alla microazienda a conduzione famigliare, dalla manifattura all’attività industriale fondata sul lavoro a domicilio fino alla fabbrica meccanizzata, in una tutt’altro che strana «coesistenza di anacronismi», la quale caratterizzava gran parte dell’economia continentale europea. Tramontata la visione che liquidava come forme obsolete quelle attività produttive non rientranti nella fisionomia della grande industria centralizzata, così come si afferma a partire dal tardo Ottocento, opportunamente si dà credito, soprattutto per vaste zone dell’Europa continentale, ad interpretazioni che rivalutano le attività microeconomiche e la «compresenza sincronica di forme di produzione diverse», un’ipotesi di lavoro che ci pare fondatamente applicabile alla Venezia asburgica(3).
Abbiamo scelto come termine a quo il 1830 perché, con la concessione del portofranco esteso alla città e ad una piccola parte dell’estuario con i comuni del Lido e di Murano (S. Erasmo, Burano e Mazzorbo vi vennero inclusi solo nel 1846), si aprì una nuova stagione per Venezia, anche se le speranze racchiuse nell’invocato provvedimento non ebbero che una contraddittoria e faticosa realizzazione, specie per l’attività portuale, a causa della scaduta importanza dello scalo veneto e della sfavorevole congiuntura internazionale(4). Il 1866 invece, oltre a marcare un nuovo drammatico sommovimento del ciclo economico, dal punto di vista politico-istituzionale segna la perdita del Veneto da parte dell’Austria e l’entrata per il porto lagunare in un nuovo sistema di relazioni doganali ed economiche con l’annessione al Regno d’Italia.
Quello che ci proponiamo è di descrivere sinteticamente quanto si operò a Venezia nello spazio di poco più di una generazione, nel quadro dei rapporti con le province lombardo-venete e con i Länder della Monarchia, da parte di gruppi ristretti privi del potere politico e in gran parte amministrativo. In possesso di capitali non sottovalutabili, non restii nel favorire la partecipazione di uomini d’affari stranieri o viennesi, questi gruppi sono disponibili ad investimenti in imprese commerciali, assicurative, finanziarie e anche industriali con fini concreti di profitto e di espansione capitalistica. In effetti sebbene prevalgano in essi gli uomini che vedono quasi esclusivamente nel commercio in generale le radici e le ragioni della rinascita della città, le iniziative industriali, come si vedrà, non mancano. Essi controllano rigidamente la Camera di commercio, organo dei loro rapporti col potere politico e centro fondamentale di mediazione tra gli interessi contrastanti, e la vita economica cittadina, vincolando alle proprie opzioni i ceti produttivi inferiori (i disprezzati bottegai e dettaglianti), che vengono sistematicamente emarginati da chi si considera l’esclusivo depositario dell’onore della piazza. Non è facile impresa infrangere il silenzio di uomini d’affari «che hanno parlato poco e agito molto», siano essi, spesso contemporaneamente, banchieri, armatori, negozianti all’ingrosso, industriali, di cui invano si cercherebbero scelte e motivazioni scritte, se non espresse in forma succinta nel chiuso degli studi notarili o in occasione di adunanze sociali. Questi ceti si trovano ad operare in una fase assai delicata, all’interno di rapporti di produzione non ancora ben delineati in senso capitalistico, entro un’inedita cornice politico-amministrativa sovranazionale, per di più collocati in una posizione periferica e in un sistema doganale dapprima rigorosamente proibizionistico, in seguito più blandamente protezionistico(5).
Che il secolo XIX sia caratterizzato da cicli alterni inflazionistici e deflazionistici o viceversa contrassegnato da una protratta e marcata deflazione(6), fatto sta che i contemporanei si trovarono sballottati in una serie periodica di ricorrenti fluttuazioni cicliche commerciali, creditizie, industriali con tracolli e fallimenti a catena nelle principali piazze del mondo capitalistico. Con la rapidità consentita dai mezzi di comunicazione dell’epoca, queste crisi devastanti si propagavano da un capo all’altro del continente europeo e oltre l’Atlantico in paesi con diverso grado di sviluppo, ma ormai indissolubilmente uniti da legami di crescente interdipendenza: in una parola si manifestava, nell’ambito del commercio internazionale e per certi aspetti finanziari, ciò che oggi viene denominato, con termine ormai abusato, globalizzazione. Per quanto ci riguarda, richiameremo la lunga crisi dal 1829 al 1833 con le sue propaggini che si estendono al 1835, quella del 1836-1837 che travolse il mondo bancario statunitense, la depressione del triennio 1839-1841, gli anni 1846-1847 prima della rivoluzione, infine la tempesta del 1857 e quella, meno esplosiva, del 1866.
Quanto ai parametri di riferimento, è bene usare qualche cautela critica per non cadere in giudizi affrettati o in vere e proprie distorsioni. Sebbene paesi come la Gran Bretagna e il Belgio siano oggetto di ammirazione sulle colonne dei periodici lombardo-veneti, per ottenere un quadro più attendibile sul ruolo e sull’assestamento di Venezia sia all’interno del Lombardo-Veneto e della Monarchia, in base ai legami obbligati di ordine doganale e alle ragioni di scambio con le varie province dell’interno, sia rispetto alle relazioni internazionali, dovrebbero essere i paesi dell’Europa centrale e dell’area danubiana, gli Stati della penisola italiana e i tradizionali mercati di sbocco e di rifornimento del Mediterraneo orientale i parametri privilegiati di riferimento e di confronto. Più che ai balzi del levriero britannico bisognerà perciò adeguarsi ai più lenti spostamenti della tartaruga continentale. Solo partendo da queste premesse e dalle enormi difficoltà che dovette affrontare l’economia veneziana per risalire faticosamente la china nell’età della Restaurazione, si possono correggere giudizi ben radicati che insistono a battere esageratamente il tasto dell’arretratezza e della decadenza. Le valutazioni dei contemporanei, pur preziose, non vanno prese alla lettera: se ne ricaverebbe spesso un panorama deprimente, fondato sul rimpianto della mitica floridezza della Repubblica veneta e sulla ovvia difficoltà a cogliere la portata e la profondità dei mutamenti, delle rotture e delle innovazioni(7).
Gli storici che si sono occupati in questi anni dello sviluppo economico dell’Impero asburgico si sono serviti largamente delle statistiche dell’epoca, in particolare delle note Tafeln zur Statistik der oesterreichischen Monarchie, forse sulla base dell’assunto che è pur sempre meglio avere cifre e dati, ancorché imprecisi, che non averne affatto. Tuttavia chi abbia avuto a che fare con i documenti d’archivio, fonti originarie delle Tafeln, si rende conto, fatte le debite eccezioni, che i dati sui movimenti demografici e sulla popolazione, sulla forza lavoro e sui salari, sui flussi delle merci registrati alle dogane, sulle aziende e sulla produzione sono compilati spesso con grande approssimazione tanto da risultare inattendibili. Quando provengano da fonti pubbliche (amministrazione statale o comunale, Camera di commercio, ecc.) i dati vanno sempre presi come grossolane indicazioni di tendenza. I carteggi della Camera di commercio o della commissione di sorveglianza alle fabbriche del portofranco di Venezia con gli organi finanziari o di governo sono assai eloquenti a questo proposito. Il movimento portuale delle merci importate ed esportate manca quasi sempre di un’adeguata ripartizione e classificazione e le quantità sono approssimative, così come avviene, per fare un altro esempio, per i listini della Borsa merci o della quotazione dei titoli e delle valute. Anche quando, negli anni Cinquanta, la Camera di commercio insediò un comitato statistico le cose non andarono meglio. Gli uffici doganali poi non erano in grado di fornire dati precisi delle merci in entrata o in uscita dal circuito extradoganale del portofranco. A differenza delle statistiche relativamente abbondanti e spesso eccellenti della seconda metà del Settecento, chi si proponesse di riassumere in tabelle il numero o i tassi di profitto delle imprese, la circolazione dei capitali e il volume aggregato degli investimenti ne uscirebbe scoraggiato. E come ricostruire il rapporto tra formazione netta di capitale, reddito ed investimenti, determinare quantitativamente i livelli della produzione e della produttività del settore industriale o anche di singole aziende, a meno che, per ragioni particolari, i soggetti non si siano affidati alla riservatezza del rogito notarile? In altre parole sarebbe già un buon risultato fissare in termini quantitativi l’ammontare complessivo dei capitali aziendali o anche del capitale circolante e stabilire le modalità del reperimento del credito, dell’accumulazione e degli investimenti.
Fatta questa precisazione, come dare una fisionomia al gruppo ristretto che controllava la Camera di commercio e la vita economica della piazza? Tutti gli esercenti una qualsiasi attività, a fini tributari, erano suddivisi in sette classi. Tuttavia i criteri della classificazione non permettono di stabilire una demarcazione precisa fra le ditte più grandi e quelle inferiori. Per esempio non solo gli industriali, ma nemmeno tutti i negozianti all’ingrosso in ogni ramo (certamente le case commerciali e bancarie più ragguardevoli) erano inseriti nella prima classe, dove l’imposta era più elevata, anche se spesso irrisoria rispetto all’effettivo volume di affari della singola ditta. Data la forte disomogeneità delle fonti, un confronto si è reso possibile per tre soli anni. Le nostre elaborazioni del resto sarebbero facilmente contestabili e perciò le presentiamo con molte riserve, motivate dall’imprecisione dei singoli dati e dei criteri di rilevazione. Prendendo come categoria indicativa i soli negozianti in ogni ramo abbiamo accertato che il loro peso percentuale rispetto agli altri negozianti passa dal 26% dell’anno di apertura del portofranco (1830) al 21% nel 1835 (percentuale riferita però al complesso degli stabilimenti commerciali e manifatturieri oltre che agli spedizionieri e commissionari) e al 25% nel 1854. In quest’ultimo anno le case commerciali in cima alla piramide erano circa l’1% rispetto al numero complessivo delle ditte iscritte nei ruoli della Camera di commercio e una frazione ultrainfinitesimale della popolazione complessiva(8).
Dopo la depressione internazionale del 1830-1833, nella fase generale di ripresa economica presero corpo a Venezia progetti ambiziosi. Sull’onda della crescita estesa a tutta l’Europa, quando l’industrializzazione cominciava a prender piede anche nelle regioni più favorite della Monarchia (Bassa Austria, Boemia e Moravia), Venezia conobbe forse la stagione di maggior prosperità di tutto il periodo austriaco. Vero è (un aspetto, questo, spesso sottovalutato dalla storiografia) che le onde devastanti delle fluttuazioni cicliche non permettevano di fare previsioni, e tanto meno piani, se non a breve termine: appena usciti dall’epidemia colerica (ottobre 1837), l’ennesima depressione (1839-1841) fu accentuata dalla crisi politica orientale risolta dall’intervento delle cannoniere occidentali in Egitto. Tuttavia nel 1835 l’orizzonte parve schiarirsi e fu allora che la piazza, dominata tradizionalmente dal commercio e dalla banca, conobbe la sfida della modernizzazione. Se infatti assumiamo come elementi fondamentali della rivoluzione industriale e dello sviluppo capitalistico l’utilizzo della forza vapore, le strade ferrate, la produzione e il consumo di carbone, la ghisa e il cotone, possiamo notare che anche a Venezia fece il suo ingresso l’innovazione. Gli «industrialisti» in senso stretto erano una minoranza all’interno del gruppo dominante. Salvo qualche eccezione, erano contemporaneamente impegnati in vari settori: dalla banca alle operazioni finanziarie, dalle assicurazioni al commercio di esportazione praticato direttamente o attraverso la compartecipazione come accomandanti o azionisti in varie società, così come avveniva per i negozianti in ogni ramo. Questa non specializzazione in un campo specifico e circoscritto non è segno di arretratezza, come si è continuato a credere, ma tra le condotte possibili una delle più avvedute in un contesto privo di certezze, sconquassato periodicamente dalla restrizione del credito, dalla mancanza di liquidità, dalla caduta della domanda e dei prezzi. La rigida specializzazione nell’impiego dei propri capitali avrebbe condannato l’uomo d’affari ad un’attività circoscritta, mentre un’oculata diversificazione degli investimenti aziendali frazionava le perdite e limitava i rischi. La proprietà fondiaria e immobiliare assumeva un certo rilievo nei loro patrimoni non tanto perché essi inseguissero modelli nobiliari quanto perché la terra e i mattoni offrivano un sicuro mantello protettivo contro la devastazione delle crisi finanziarie e industriali. In secondo luogo, in caso di mancanza di liquidità, i beni immobiliari erano l’unica via per ottenere anticipazioni in denaro effettivo. Data l’assenza di istituti di credito disposti a sostenere imprese commerciali e industriali, era giocoforza ricorrere all’autofinanziamento o al mutuo ipotecario, signore assoluto dei rogiti notarili lombardo-veneti. L’imprenditore o il commerciante privo di terra o di case invano avrebbero bussato alla porta del banchiere(9).
La società per azioni Ferdinandea per la costruzione della linea Venezia-Milano (1835-1852) nacque per la tenacia di un gruppo all’interno della grande borghesia veneziana, in seguito all’alleanza del capitale industriale con quello commerciale e bancario. Nella piazza lagunare si partiva dal presupposto che, con la trazione a vapore, Venezia non poteva perdere l’occasione di contrastare Trieste e sostituire Genova (allora porto sardo) nella spedizione di beni a Milano, un progetto in effetti accolto inizialmente con scetticismo, se non con ostilità, da una gran parte dei ceti produttivi lombardi, legati al porto ligure da vincoli di opportunità e di convenienza. Calcolando che con la locomotiva i tempi del percorso (271 km) si sarebbero ridotti di quattro quinti, i coloniali, lo stoccafisso norvegese, i prodotti del Levante oltre che i manufatti delle fabbriche privilegiate del portofranco, le quali godevano di speciali facilitazioni doganali, sarebbero arrivati sul mercato lombardo a prezzi competitivi e prima di quelli provenienti dal porto genovese. La forte concorrenza triestina che risaliva il Po verso i mercati pontifici e lombardi sarebbe stata efficacemente contrastata dalla strada ferrata. Il fatto che la Camera di commercio si schierasse immediatamente con i promotori fa capire che la posta in gioco era alta se, abbandonando ogni cautela, si imboccavano risolutamente le vie inedite dell’innovazione. Dato che bisognava fornire delle garanzie alle autorità governative che, in assenza di un quadro legislativo moderno, temevano il sorgere di società fittizie e la speculazione borsistica su titoli inesistenti, negozianti e banchieri veneziani non solo anticiparono le somme necessarie per i primi rilievi, ma nel luglio del 1837 si esposero per una somma pari a 3 milioni di lire austriache. Anche se non è possibile precisare l’entità della partecipazione delle singole ditte, è certo che inizialmente la sottoscrizione azionaria veneziana fu notevole, superiore a quella milanese e pari a quella degli azionisti di lingua tedesca (inesistente o irrisorio il contributo da parte delle altre città lombardo-venete), anche se non è possibile discernere i possessori dai semplici procuratori per conto terzi. La delusione crescente per le difficoltà in cui si imbatté l’impresa nel corso degli anni Quaranta allontanò progressivamente gli azionisti reali, accentuando uno degli aspetti peculiari della piazza, cioè quello del capitale finanziario e speculativo interessato, più che alla realizzazione dell’opera, ai ricavi sul piano borsistico. D’altro canto era questo l’unico modo per raccogliere e convogliare i capitali d’Oltralpe in cerca di investimenti convenienti, combattendo certe chiusure regionalistiche che tendevano a scoraggiare la partecipazione degli uomini d’affari austriaci o stranieri. Quanto alle realizzazioni concrete, seppur modeste per una serie di motivi su cui non possiamo qui soffermarci, l’esecuzione del ponte lagunare e la costruzione della linea fin nei pressi di Verona favorirono l’integrazione con la terraferma, l’interscambio di merci, il trasporto di valori ed effetti postali e l’afflusso di visitatori e viaggiatori, oltre all’accelerazione dei tempi di percorrenza. Va inoltre aggiunto che la scala dell’impresa, con i complessi problemi relativi all’organizzazione dei servizi interni, accrebbe il patrimonio di esperienze dei direttori nel campo della gestione aziendalistica(10).
La disponibilità di capitali da parte della piazza risulta inoltre suffragata dalla rigogliosa attività speculativa anche sulle opzioni o promesse di azioni di società ferroviarie di altri Stati (Granducato di Toscana e Svizzera)(11).
Di quello che resta forse il più attivo promotore della ferrovia e dell’industrializzazione di Venezia, Giuseppe Maria Reali (1801-1869), di cui vorremmo tracciare un sommario ritratto, purtroppo non conosciamo l’ammontare patrimoniale. Proseguendo l’attività della famiglia che possedeva fin dal Settecento a Venezia due zuccherifici, egli aveva ampliato il suo campo d’azione aprendo una cereria, una raffineria di zucchero in cui aveva introdotto nel 1826 tecnologie moderne impiegando personale specializzato tedesco e britannico e una fabbrica di cremor di tartaro che, seppure più modesta, esportava i suoi prodotti anche in Gran Bretagna. Oltre ad esercitare il commercio all’ingrosso, lo troviamo di volta in volta sottoscrittore di quote azionarie non solo nella ferrovia, di cui fu a lungo uno dei direttori, ma in varie società assicurative, commerciali e industriali (estrazione di minerali, settore vetrario), a testimonianza della pratica diffusa negli uomini d’affari veneziani della diversificazione degli impieghi e delle compartecipazioni incrociate. Nel 1841 fu tra i fondatori di un feltrificio (come si vedrà più avanti), nel 1850 procedette ad una fusione con la cereria Gavazzi, aprendone poi un’altra a Ferrara nel 1865 per non perdere i mercati italiani. Un anno dopo, acquistati più di 1.000 ettari nei pressi di Altino per 780.000 lire austriache, procedette alla bonifica dei terreni paludosi e all’introduzione di aratri meccanici e falciatrici dal Belgio. Presidente della Camera di commercio, nel 1857-1858 risultò con Sina, Eskeles e Rothschild fra i principali sottoscrittori austriaci della Compagnia del Canale di Suez(12).
L’esempio delle prime linee ferroviarie lombardo-venete fu estremamente contagioso. L’arduo progetto di collegare Venezia ad Innsbruck e al lago di Costanza (186 km per un costo previsto di 127 milioni di lire austriache), caldeggiato dalla Camera di commercio, venne fatto proprio da un banchiere e negoziante veneziano che anticipò le spese per i rilievi tecnici: Giacomo Giorgio Levi (1808-1871), agente generale della R.A.S. (Riunione Adriatica di Sicurtà) per il Lombardo-Veneto e il Tirolo, socio e agente per il Lombardo-Veneto delle ferrovie toscane, interessato a società assicurative e vetrarie e collegato, a suo dire, con uomini d’affari britannici. Il blocco delle concessioni ferroviarie, attuato dal Ministero delle Finanze a partire dal 1845, impedì di verificare l’effettivo grado di realizzabilità dell’iniziativa(13).
Tra gli altri progetti caduti sotto la scure ministeriale vanno ricordati la Padova-Rovigo-S. Maria Maddalena in direzione di Ferrara (67 km, preventivo di 12 milioni) e la Chioggia-Bottrighe (35 km, costo 4.200.000), ambedue presentati da una delle figure più interessanti della Venezia asburgica, il conte Alvise Francesco Mocenigo (1799-1884), grande proprietario terriero ma anche singolare figura di imprenditore, pronto a gettarsi in iniziative azzardate e spesso infruttuose. Direttore della Ferdinandea per tre anni, tentò in quegli anni pervasi dalla febbre ferroviaria di ottenere varie concessioni (due nel Lombardo-Veneto, una nel Granducato di Toscana e cinque nello Stato pontificio), mantenendo anche negli anni Sessanta una partecipazione azionaria in società ferroviarie e in una per la distribuzione di acqua potabile. Ancor maggiore impegno egli profuse nella navigazione a vapore fluviale e lagunare, un settore destinato a riservare ai pionieri molti insuccessi e perdite. Nel 1841 fondò con un costruttore di piccoli piroscafi una società per la navigazione fra Venezia e Portogruaro con un capitale di 60.000 lire austriache, estesa l’anno seguente al trasporto merci e passeggeri sull’Adige da Venezia a Verona e sul Po da Venezia a Mantova e a Pavia, oltre al rimorchio di bastimenti da Malamocco alla rada, fondando un’accomandita per azioni e portando il capitale a 1 milione di lire austriache. Un’impresa sfortunata che non impedì negli anni seguenti al conte Mocenigo di accordarsi con il milanese Tommaso Perelli Paradisi per la navigazione sul Po(14).
Venezia, che aveva avuto nel XVII secolo e alla fine del Settecento una certa attività assicurativa con qualche sporadica comparsa di piccole compagnie tra 1819 e 1826, rivelò una consistente ripresa nel ramo delle assicurazioni prevalentemente (ma non solo) marittime e terrestri in seguito alla nascita del portofranco. Nel 1830 agivano quattro compagnie il cui capitale complessivamente era di poco superiore ai 2 milioni di lire austriache. Gli azionisti, che per esplicita clausola contrattuale non potevano cedere a terzi le azioni sottoscritte anche perché il governo esigeva che esse fossero nominative, erano i rappresentanti delle solite ditte egemoni nel negoziato in ogni ramo, nella banca e nella manifattura, un gruppo fortemente coeso di una sessantina di nomi che compare in ogni iniziativa di rilievo. Nel corso degli anni Trenta, in concomitanza con la penetrazione nella piazza delle Assicurazioni Generali Austro-Italiche e della R.A.S. e l’apertura di due agenzie generali per il Lombardo-Veneto e il Tirolo, si assisterà allo scioglimento di due delle compagnie veneziane. Un’operazione di concentrazione attuata probabilmente per resistere all’offensiva delle due compagnie triestine, dato che le due superstiti, con un capitale versato di 2.690.000, superavano notevolmente quello delle precedenti.
Nel 1857 agivano a Venezia ben sette compagnie triestine, una milanese e una viennese. Nel clima febbrile dei mesi antecedenti alla grande depressione, lo Stabilimento Veneto di Assicurazioni, sorto nel 1826, tentò di risorgere con un capitale di 3 milioni di lire austriache, ma la sottoscrizione si fermò, forse in seguito alla crisi, a 1.473.000. Del resto molti dei sottoscrittori veneziani nel corso di quegli anni avevano arricchito il loro portafoglio titoli mediante l’acquisto di azioni di altre compagnie, in particolare della R.A.S. e delle Assicurazioni Generali.
Lo spostamento degli investimenti verso altre compagnie comportò però la progressiva smobilitazione dell’impegno del capitale veneziano in autonome imprese nel ramo assicurativo, anche se questo è un tema sconosciuto che andrebbe indagato. Nel 1863, comunque, le dodici agenzie presenti sulla piazza avevano tutte sede in altre città dell’Impero(15).
Strettamente connessa alla nascita di progetti ferroviari e alla domanda crescente di carbon fossile per le macchine a vapore nell’industria privata (tessile, vetraria, distillazione del gas per illuminazione, ecc.) e negli stabilimenti statali (Manifattura tabacchi, Arsenale, Marina), l’attività di ricerca di carbone, torba e lignite nelle province venete rivela con chiarezza l’esistenza di un piano consapevole di investimenti per rimuovere l’assoluta dipendenza del Lombardo-Veneto dalla produzione britannica. Concepita dal solito pool di negozianti, banchieri, industriali veneziani, già prima di ottenere l’autorizzazione governativa a costituirsi in S.p.A. (1838), i 2 milioni di capitale di fondazione, suddivisi in 2.000 azioni da 1.000 lire austriache, erano stati sottoscritti. La Società Veneta per la ricerca ed escavo di prodotti minerali nasce dunque in un clima di diffuso ottimismo e si muove rapidamente per ottenere le investiture e i permessi per i sondaggi in varie località montane del Veneto e del Tirolo, ingaggiando maestranze francesi, prussiane ed austriache(16). I risultati sembrano confermare le fatiche dei direttori con una produzione di carbon fossile dal 1843 al 1858 di 94.000 tonnellate e un utile netto dal 1846 al 1854 pari a circa il 20% sul capitale investito(17). Mutata in seguito ragione sociale (Società Veneta Montanistica), essa intraprese sondaggi estendendo le ricerche a minerali metalliferi come il piombo, il mercurio e l’argento. Nel 1856 nelle sole miniere di mercurio a Vallalta nell’Agordino erano impegnati 8 impiegati e 250 minatori. Tra 1859 e 1862, anni tra i più critici per l’economia veneziana, la società realizza nuovi investimenti in Carnia alla ricerca di rame e di argento, reclutando un esperto ingegnere carinziano cui affiderà la direzione tecnica delle prospezioni. L’ingente sforzo finanziario non verrà però compensato e la miniera di Monte Avanza dovrà essere in seguito abbandonata. Nel 1870 la società chiude il bilancio con una ingente perdita, ma ciò non le impedirà di sussistere fino allo scioglimento nel 1897, essendo di fatto una delle imprese più longeve fra tutte quelle fondate negli anni Trenta del secolo. Una storia questa che prova come all’interno dei gruppi economici veneziani più forti, la cui condotta nei confronti del mercato era solitamente improntata a prudenza e cautela, gli atteggiamenti conservatori fossero battuti dalla volontà e dalla capacità di misurarsi concretamente con l’innovazione(18).
Non a torto definito «infaticabile cultore della patria industria», il già menzionato Giuseppe Reali è anche il realizzatore di una modernissima fabbrica tessile a Cannaregio, la Società per la fabbricazione dei panni feltrati (tappeti, tovaglie, coperte, ecc.), un’accomandita per azioni con un capitale di 1.500.000 lire austriache e macchinari di fabbricazione britannica, azionati da una macchina a vapore della potenza di 80 HP. Senza alcun dubbio la maggior fabbrica e la più moderna a livello regionale, sia per la completa meccanizzazione del processo produttivo, sia per l’ammontare del capitale investito, sia per il numero di operai impiegato (circa 300 individui); da essa alla fine del 1841 uscivano giornalmente più di 500 metri di tessuto(19). Malgrado queste lusinghiere premesse lo sforzo congiunto di capitali veneziani, inglesi e austriaci non ebbe un esito positivo. La modesta domanda del circoscritto mercato cittadino (zona extradoganale, vale a dire equivalente a quelle estere) non poteva evidentemente assorbire se non una parte limitata dell’intera produzione. Chiusi i mercati esteri da una concorrenza troppo forte, un’offerta così esuberante non poteva trovare sfogo che nelle varie province della Monarchia poste in territorio doganale. Penalizzata rispetto ai centri manifatturieri continentali per i costi superiori di approvvigionamento delle scorte di materie prime (in primis l’acqua) e dal costo dell’energia a vapore, mentre è indubbia la sua più alta intensità di capitale, la società non riuscì ad ottenere dai dicasteri aulici un dazio doganale di favore per essere posta sullo stesso piede di concorrenza con le consimili fabbriche lombardo-venete e moravo-boeme. Dopo un solo anno di attività, nel 1843 la società, scossa anche da interni dissensi, sospese la produzione e liquidò all’asta i macchinari e il modernissimo stabilimento(20). Era un duro scacco rispetto al tentativo di collocare in città il sistema di fabbrica imperniato sull’utilizzo costante dell’energia meccanica, su una moderna tecnologia, sulla concentrazione del lavoro salariato. Ma il ‘gigantismo’ industriale alla Rossi o alla Marzotto non era applicabile per ragioni ambientali e di costi al centro lagunare. E tuttavia, pur nella sua caducità, la vicenda conferma che la società veneziana era in grado di esprimere un’imprenditorialità disposta ad affrontare gli imponderabili margini di rischio connessi alla fondazione di aziende industriali, con una strategia allargata alla partecipazione di capitali extraregionali ed esteri.
Prova ne sia la partecipazione di capitali veneziani ad un’impresa su grande scala quale fu il Cotonificio di Pordenone, fondato nel 1839 da due triestini e da un viennese. Pochi anni dopo l’I.R. privilegiata Filatoria e Tintoria di cotoni in Pordenone, che conta più di 18.000 fusi, risulta essere proprietà di un austriaco, di un francese e di Spiridione Papadopoli, titolare di una ditta commerciale e bancaria di primo rango a Venezia. Nel 1855, quando i soci dell’accomandita decisero di trasformarla in una S.p.A. con un capitale di quasi 3 milioni di lire austriache, più del 46% dell’intero pacchetto azionario spettava a Papadopoli e su 33 azionisti ben 16 erano i sottoscrittori veneziani, i quali dunque risultavano maggioritari rispetto agli altri sudditi austriaci e a quelli esteri. Un anno dopo, con l’incorporazione di un vicino stabilimento di tessitura, il Cotonificio giungeva al completamento dell’intero ciclo produttivo, acquisendo fra l’altro un dirigente di notevoli capacità gestionali come il veneziano Giovanni Antonio Locatelli. La fusione ribadiva la preminenza del capitale lagunare in termini di azioni e di assegnazione dei voti. Come la società mineraria, anche il Cotonificio di Pordenone era destinato ad ulteriori sviluppi nel corso del secolo e a mutare ragione sociale (nel 1894 vi subentrò il Cotonificio Veneziano). Ma il controllo resterà saldamente in mano al capitale finanziario veneziano, e in parte lombardo, anche nel secolo XX(21).
Quantunque a molti negozianti all’ingrosso veneziani non mancasse il tornaconto nel fatto che i carichi di merci facessero scalo a Trieste piuttosto che a Venezia, ripartendo a metà utili e perdite con ditte triestine, che dirottavano i prodotti su altri mercati in base alla convenienza della domanda, è evidente che il commercio diretto d’importazione dai siti di provenienza delle merci avrebbe consentito un abbattimento dei costi di noli, assicurazioni, commissioni, stallie, ecc., assicurando più ampi margini di guadagno.
La storia (ancora da fare) della Società Veneta Commerciale (1839-1849) è molto istruttiva per il tentativo di escludere ogni intermediazione negli scambi, svincolandosi dalla subalternità verso Trieste, anche se bisogna aggiungere che la funzione di porto di transito assicurava malgrado tutto ai commercianti locali forti ricavi. Il progetto di una S.p.A. con un capitale di 15 milioni di lire austriache suddiviso in 10.000 azioni da 1.000 lire fu lanciato nella primavera del 1839 da otto case commerciali e bancarie, che prenotarono immediatamente 1.400 azioni pari al 14% del capitale(22). La diffidenza della Camera aulica per possibili fenomeni di aggiotaggio e il conseguente ritardo nell’approvazione dello statuto fecero slittare l’avvio delle operazioni commerciali. Nel 1841 il capitale interamente versato non superava i 12 milioni. Una lunga fase di incertezza (nel corso del biennio 1841-1842 si susseguirono ben quattro congressi, alla ricerca di un compromesso nel braccio di ferro ingaggiato con le autorità governative che in sostanza non permettevano il rilascio di azioni al portatore) fu aggravata da una congiuntura internazionale sfavorevole, tanto che il dividendo del primo anno di attività risultò deludente. Stabilite relazioni commerciali non solo con i porti di intermediazione inglesi e olandesi ma anche in Africa, in Asia e in America latina, nel 1843 la maggioranza degli azionisti optò per la continuazione dell’impresa(23). Negli anni seguenti la società, forse contando sul rialzo dei prezzi, puntò all’accumulazione di forti scorte di zuccheri coloniali, caffè e cotone, procedendo al loro pronto realizzo. Tuttavia nell’esercizio 1845-1846 il bilancio accertò una perdita del 15% sul capitale. Dopo la decisione dell’assemblea del 26 ottobre 1846 che penalizzava fortemente nella rappresentanza dei voti i grandi azionisti, la recessione del 1846-1847 finì coll’assestare un ulteriore duro colpo ai sostenitori dell’impresa. Con la rivoluzione del 1848 si ebbe il collasso e la società fu posta in liquidazione(24). Per il commercio veneziano fu uno scacco cocente: l’ambizioso progetto, all’interno di una ripresa economica generale, di fare del porto uno scalo primario nel Mediterraneo per il commercio di import/export fu accantonato. Il che non significa naturalmente che, caduto un disegno in qualche modo riunificante delle forze economiche nella forma giuridica di una moderna società per azioni, queste non riprendessero a battere le strade impervie della concorrenza.
Fra gli stranieri trapiantati stabilmente a Venezia, il bavarese Friedrich Christian Oexle (1801-1864) non era certo restio alla cointeressenza azionaria in varie società seguendo il criterio di ripartire costi e benefici in settori diversi. Ma come mentalità e attitudini apparteneva al gruppo degli imprenditori industriali. Nel 1840, in società con un uomo d’affari tirolese assai attivo sul mercato lombardo-veneto, trasformò la settecentesca chiesa di S. Girolamo a Cannaregio in un modernissimo molino a vapore, dotato di un meccanismo a cilindri tecnologicamente più avanzato dei modelli anglo-americani. L’alto campanile fu disinvoltamente adattato a fumaiolo, le cui dense volute di fumo non mancarono di scandalizzare Ruskin al suo arrivo a Venezia. Oltre a rifornire i fornai della città, avvalendosi delle facilitazioni doganali del portofranco, il molino dopo qualche anno inviava con una certa regolarità carichi di farina persino in Brasile.
Nel 1846 l’imprenditore giunse a riacquistare per 400.000 lire austriache il molino che aveva ceduto in precedenza all’accomandante di Bolzano ma, in seguito a non chiarite rischiose operazioni commerciali, nel 1847 dovette sospendere i pagamenti. La sostanziale solidità dell’azienda (la parte attiva in crediti, scorte e liquidità era di poco inferiore all’esposizione debitoria pari a circa 1.800.000 lire) persuase i creditori a procedere ad un’amministrazione controllata contando sul superamento della crisi e puntando al rilancio della produzione. In effetti, dopo una parentesi biennale, il molino, ritornato in mano a Oexle, conobbe negli anni Cinquanta con la ripresa economica una fase di prosperità. La successiva grande crisi del 1857 costrinse Oexle ad addivenire alla formazione di una S.p.A. (I.R. Stabilimento di Molini a Vapore) con un capitale di 300.000 lire austriache, sottoscritto dalle solite ditte veneziane e da qualche altra di Augusta, Vienna e Trieste.
Nel 1859 la società cambiò ragione sociale: il capitale fisso ammontava a quasi 900.000 lire, di cui il 40% in macchinari. Ma negli anni immediatamente seguenti altre «sfortunate speculazioni» e probabilmente l’acuirsi della concorrenza obbligarono il molino a ridimensionare la sua attività e a vivere anni di sostanziale declino. L’annessione del Veneto nel 1866 al Regno italiano comportò la perdita del mercato austriaco, giacché la quasi totalità della produzione del molino veneziano era assorbita da due società commerciali di Trieste e di Fiume. Dopo un rilevante periodo di inattività, gli impianti, che avevano una potenzialità di 100.000 quintali l’anno, furono rimessi in funzione, per bloccarsi definitivamente nel 1870 in seguito all’introduzione della tassa sul macinato.
Che il capitale veneziano fosse disponibile a finanziare anche un ramo produttivo come quello molitorio è accertato dai nomi degli azionisti. Occorre per di più accennare anche al molino idraulico di Mirano, fondato nel 1838 da un altro imprenditore veneziano, Marco Antonio Zinelli, il quale vent’anni dopo trasformò l’impresa in S.p.A. (Società dei Molini di Sotto in Mirano) con un capitale nominale di 1.200.000 lire austriache, probabilmente sottoscritto da uomini d’affari veneziani, come risulta da alcuni indizi. D’altro canto l’esperienza di S. Girolamo era destinata a far scuola: le condizioni per lo sviluppo di una rilevante attività molitoria si realizzarono nel 1883 con il sorgere del Mulino Stucky alla Giudecca, anch’esso con meccanismi a cilindri, che protrarrà la sua attività fino al 1954(25).
Un rapido cenno al settore primario si rende necessario per ricordare che, nella pur stagnante agricoltura veneta, vi sono eccezioni non trascurabili connotate dall’intervento di capitali veneziani nella formazione di aziende agrarie di tipo capitalistico.
Sugli investimenti dei Sullam nella loro azienda risicola nel Delta del Po siamo informati dalla documentatissima ricerca di Antonio Lazzarini(26). Altro esempio di imprenditori agricoli sono i fratelli dottor Aronne e Salomone, detto Girolamo, Lattis, proprietari dapprima di qualche migliaio di ettari nel Delta del Po. Dopo la morte del padre Samuele, mediante una intensa attività di compravendita di terreni e liquidità ottenuta attraverso mutui ipotecari, diventano proprietari di più di un migliaio di ettari nelle zone di Altino e di Caorle. Per fare un esempio, nel 1844 vendono terre ai conti Giovanelli per 1.200.000 lire austriache, acquistando poi Ca’ Corniani a Caorle per 140.000. Nelle bonifiche devono certo impiegare somme rilevanti a giudicare dagli utili non disprezzabili ricavati da risaie, cerealicoltura, vigneti, orticoltura e allevamento di bovini ed equini. Nel corso di tre anni, dopo aver valorizzato queste zone, rivenderanno tutto ai Giovanelli i quali, a loro volta, nel 1851 cederanno i terreni (più di 1.222 ettari) a Giuseppe Reali, che aggiungerà alle sue iniziative anche quella di imprenditore agricolo. Anche se i Lattis non hanno certo liquidato tutti i loro possessi fondiari, è certo che negli anni Cinquanta Aronne abbandona il settore agricolo per rivolgersi agli investimenti industriali e commerciali, in particolare operando massicci acquisti (con probabili speculazioni finanziarie) di titoli ferroviari. Azionista dello Stabilimento Mercantile di Venezia (nel 1855 risulta possessore di 430 azioni), ne rivestirà la carica di direttore in anni tempestosi, come si vedrà più avanti(27).
Il biennio rivoluzionario, come è noto, non fu solo una battuta d’arresto ma, prolungando gli effetti della crisi finanziaria del 1846-1847, provocò un vero e proprio arretramento di tutta l’economia veneziana. Se l’abolizione del portofranco con la caduta delle barriere doganali favorì quelle imprese di trasformazione che non godevano precedentemente di dazi di favore per l’introduzione dei loro prodotti nelle province, la sua riapertura (21 luglio 1851) promosse un graduale recupero di attività seguendo l’andamento della ripresa internazionale.
Il movimento del traffico marittimo registrò un promettente sviluppo e all’inizio del 1852 il numero degli esercenti aumentò complessivamente di 123 unità, senza peraltro colmare le perdite del 1848-1850. Tuttavia il lungo conflitto tra le grandi potenze con la spedizione in Crimea ne interruppe lo svolgimento: le ripercussioni della guerra ebbero come conseguenza una stagnazione del commercio per gran parte del 1854. Soltanto a partire dal 1855 (malgrado la ricomparsa del colera) e fino al 1858 la ripresa ebbe modo di manifestarsi in modo significativo, per essere nuovamente interrotta poi dalla grande crisi del 1857 e dalla perdita nel 1859 del mercato lombardo.
All’interno del distretto industriale di Venezia anche nel secolo precedente, prima degli avvenimenti politico-militari che determinarono il tracollo della Serenissima, la vetreria aveva saputo reggersi e rispondere all’accresciuta concorrenza internazionale. Allo stato attuale della ricerca, del tutto trascurata per quanto concerne questa importante branca dell’economia veneziana nel XIX secolo, sarebbe quanto meno azzardato avanzare cifre e dati quantitativi, data la contraddittorietà delle fonti e la loro scarsa attendibilità. Che tuttavia una forte decadenza avesse investito il comparto, tradizionalmente sostenuto da una forte domanda estera, non può essere messo in dubbio, se uno dei pochi dati rinvenibili (anch’esso peraltro approssimativo) stabilisce per il 1831 in 27 fornaci, 62 crogiuoli e 21 padellini l’apparato produttivo complessivo(28). Anche per il numero delle aziende le stime sono da prendersi con beneficio d’inventario.
Tab. 1. Numero delle fabbriche dal 1829 al 1846 Anni Smalti/canna/
conterie/perle Vetri/
cristalli Specchi Totale 1829 3 8 3 14 1830 — — — — 1831 8 9 1 18 20* 1832 — — — — 1833-1834 20 7 4 31 1834 8 9 — 17 1835 8 9 — 17 1836 9 6 1 16 15* 1837 5 6 1 12 1838 5 4 1 10 1839 5 5 1 11 1840 5 6 1 12 1841 — — — — 1842 4 6 1 11 14* 1843 5 7 1 13 1844 5 5 — 10 1845 15 7 — 22 1846 9 6 — 15 16* Fonti: A.S.V., Commissione di sorveglianza alle Fabbriche ed Arti privilegiate nel Recinto del Portofranco di Venezia, bb. 3.I. 1-22; 27.II. All. A; 56.VIII. 12; Commissione governativa di commercio, industria ed economia rurale, bb. I.A; V/12; Camera di commercio, bb. 59 III/10; 100 IV/7; 105 IV/7; 111 IV/7; 169 IV/10; 176 III/10; Domenico Bussolin, Guida alle fabbriche vetrarie di Murano, Venezia 1842, p. 74; Giovanni Tomasoni, Porto franco, industria, commercio, in Venezia e le sue lagune, II, 1, Venezia 1847, p. 547 (pp. 497-570).
Impossibile poi stimare l’ammontare dei capitali investiti nell’arte vetraria o quello della produzione complessiva delle fabbriche presenti a Venezia e Murano(29).
In assenza di studi adeguati sull’argomento, ci limiteremo a seguire la nascita e lo sviluppo di una singola azienda che assurse ad una posizione dominante all’interno del portofranco. Alla metà degli anni Trenta la domanda sostenuta di perle e conterie dall’estero (Europa, Africa, America Latina e Indie Orientali) aveva provocato ‘una gara micidiale’ sui prezzi soprattutto fra i produttori di canna e smalti. Nel 1838 un progetto di sette dei più grossi industriali di Murano, volto alla formazione di una S.p.A. per la produzione e smercio di canna, smalti e conterie, con un capitale di 600.000 lire austriache (il capitale fisso messo a disposizione raggiungeva ben il 75%), fallì per la strenua opposizione delle piccole aziende escluse dall’accordo, che temevano soprattutto la monopolizzazione nella produzione della materia prima (la canna)(30). Il governo negò la concessione temendo forse un inasprimento della situazione, già incandescente per il costante ricorso ai licenziamenti, alla riduzione dei salari e ai persistenti tentativi della manodopera specializzata di emigrare all’estero, diffondendo i segreti dell’arte(31).
L’obiettivo degli imprenditori fu raggiunto in condizioni politiche assai mutate nel dicembre del 1848 quando, in presenza di forti agitazioni e scioperi operai a Murano, l’assenso venne dal governo provvisorio di Manin, Graziani e Cavedalis. Nascevano così le Fabbriche Unite di canna di vetro e smalti, con un capitale di lire correnti 400.000 (la quota del capitale fisso era pari al 60%) interamente sottoscritto dai cinque soci. In realtà si trattava di un cartello realizzato mediante un patto di sindacato fra produttori, mentre per far cessare la protesta operaia fu raggiunto un accordo fra industriali e canneri, che prevedeva anche un sussidio per gli operai rimasti inabili per malattia e vecchiaia(32).
Nel 1850, con l’entrata di tre nuovi soci, il capitale venne più che triplicato (1.300.000 lire austriache) e la società riuscì ad abbracciare l’intero ciclo produttivo, dalla canna e dagli smalti ai diversi generi di conterie (margarite e perle a lume). I tre soci maggiori (Bigaglia, Dal Mistro Errera, Coen) detenevano allora il 64% del capitale azionario. Fra vari avvicendamenti (che qui non possiamo seguire nei particolari) e con l’uscita di uno dei soci dalla società, nel 1860 gli altri decisero un ulteriore aumento di capitale, portandolo a 1.700.000(33). Malgrado la flessione conseguente alla crisi del 1857, nei sette anni precedenti la forte domanda estera avrebbe assicurato alla società enormi profitti, ridotti poi, secondo Alberto Errera, al 30%. Una curva della produzione per gli anni seguenti fino al 1866, costruita sulla base di dati troppo disorganici e disparati per poter essere presentati in una serie coerente, contrasterebbe con i dati più soddisfacenti forniti dallo stesso Errera che, limitandosi alla produzione di conterie e perle a lume per gli anni 1862-1866, indica una crescita ininterrotta seppur di modesta entità fra 1862 e 1865 e una diminuzione nel 1866(34). Non c’è ragione di dubitare di forti utili negli anni favorevoli, malgrado gli oneri aggiuntivi imposti dalle spese di imballo, trasporto, noli, assicurazioni, sdoganamento, agenzie. La società aveva infatti costruito nel corso degli anni una discreta rete di commercializzazione con la costituzione di varie agenzie all’estero (per esempio al Cairo e in India). Quanto alle perdite, si può ipotizzare che dovrebbero essere state riassorbite senza traumi irreparabili, grazie all’estrema flessibilità del lavoro, che prevedeva la sospensione o il licenziamento della manodopera allorché si verificava una crisi della domanda e l’accumulazione delle scorte di magazzino. Inoltre, con il largo ricorso al lavoro a domicilio, l’immobilizzo del capitale per impianti da parte dell’impresa era ridotto al minimo ed essa poteva bloccare il lavoro senza timori di spese fisse non compensate da profitti.
La società riuscì sempre a contrastare vittoriosamente la concorrenza interna con una vera e propria guerra sulle tariffe o cercando di neutralizzare e assorbire le imprese rivali. Daremo solo un episodio molto significativo: nel 1852 era sorto a S. Giobbe, nel sestiere di Cannaregio, uno stabilimento modernissimo che abbracciava l’intero ciclo della produzione. Avversato fortemente dalle Fabbriche Unite, dopo varie vicende, lo stabilimento, suddiviso in due comparti (canna-smalti e conterie), era passato a due accomandite (Guglielmo Ivancich & C. e Moschini Suppiej & C.), che contavano complessivamente su un capitale di 500.000 lire austriache e i cui accomandanti erano ditte commerciali ben conosciute nella piazza (fra esse quella di Giuseppe Reali). Nel 1860 le due imprese, pur continuando a sussistere formalmente, diventarono in sostanza parte integrante o appendici delle Fabbriche Unite, che elevavano leggermente il loro capitale per accogliere uno dei gerenti come socio azionista tacito. L’accordo stabiliva minutamente la quantità della produzione spettante alle due fabbriche, le tariffe e i mercati di vendita dei prodotti, seguendo una chiara logica di cartello, accuratamente celata nel riserbo dei rogiti notarili(35). Qualche cenno è necessario sulle varie aziende che avevano dato luogo al patto di sindacato e alla rete di interessi e compartecipazioni che avevano costruito nel corso degli anni. Nel 1870 nella F.lli Coen di Benedetto troviamo come accomandante la casa commerciale e bancaria in rapida ascesa Jacob Levi e figli (su cui ritorneremo più avanti) con una quota pari al 25%, la quale, due anni dopo, si riserverà il 16% del pacchetto azionario delle Fabbriche Unite(36). Una parte importante nella società fu rivestita dalla impresa vetraria fondata nel 1816 da Antonio Dal Mistro (o Dalmistro) e da Samuel Moravia che, nel corso dei decenni, registrò molti cambiamenti nella ragione sociale con l’avvicendarsi dei soci. Gli Errera, acquistata nel 1832 una quota pari al 16,66% della Dalmistro Minerbi & C., la porteranno nel 1840 al 28,57% e al 58,2% dieci anni dopo.
Dopo la morte del padre Beniamino, è Abramo (1791-1860), il più anziano dei quattro fratelli, a prendere in mano la gestione della casa. Oltre al ramo vetrario gli Errera esercitano il commercio su navi proprie o in comproprietà, effettuano aperture di credito a imprenditori di opere pubbliche, sono accomandanti nell’industria della fabbricazione della carta e in quella tipografica (appalti per forniture agli enti governativi o stampati per le ditte commerciali), hanno compartecipazioni in società di assicurazione, commerciali e industriali, senza contare gli incarichi istituzionali o alla direzione di società per azioni. Grazie ai rapporti della ditta con vari centri europei, un figlio di Abramo, Benedetto detto Giacomo (1834-1880), si stabilirà a Bruxelles nel 1856, fondando in seguito la casa bancaria Errera Oppenheim, la cui intraprendenza avrà modo di rivelarsi in campo industriale e finanziario(37).
Nel distretto industriale di Venezia a partire dagli anni Cinquanta, nel corso di un processo temporale corrispondente all’insediamento dell’industria meccanica nel continente europeo teso all’inseguimento della lepre inglese, accanto alle tradizionali officine fabbrili di impianto artigianale sorgono due fabbriche di tutto rispetto. Anche in questa branca si trovarono a coincidere, in una felice miscela di opportunità e di scelte strategiche, innovazione tecnologica (energia a vapore), modernizzazione sostenuta dal talento e dalla preparazione di alcuni imprenditori e decisione di investimento in un settore non privo di rischi da parte di uomini d’affari lagunari.
La prima fonderia, collocata a S. Rocco poco lontano dalla stazione ferroviaria (una costante ormai nelle localizzazioni industriali), è gestita da una società in accomandita in cui Teodoro Edoardo Hasselquist, uno svedese ormai stabilitosi a Venezia, versa la sua quota in capitale fisso. L’altra metà del capitale, fissato in 72.000 lire austriache, viene sborsata da Alessandro Palazzi (1812-1874), titolare con i fratelli della ditta Angelo Palazzi, una società in nome collettivo (capitale 800.000 lire austriache) che esercita il negoziato di formaggi e salumi ed è contemporaneamente impegnata in accomandite per la compravendita di legname, ramo molto proficuo nel commercio di import/export, e in periodo italiano nel settore della chimica. Il terzo contraente, l’ingegner Alfredo Enrico Neville (1802-1861), mette a disposizione le sue competenze dietro corresponsione del 5% sugli utili della società.
Nel 1857, liquidato Hasselquist che si ritira dall’impresa, la proprietà del terreno (9.760 mq) e della fonderia passa a Palazzi. La nuova accomandita fra lui e il figlio di Alfredo, Enrico Gilberto Munro Neville, nasce con un capitale di 200.000 lire austriache (indubbio segno della prosperità dell’impresa) per il 70% del commerciante, che per di più risulta creditore verso la società di 178.000 lire austriache, forse per anticipazioni pregresse. La gamma svariata di prodotti che escono dalla E.G. Neville & C., rimproverata da Alberto Errera che preferirebbe una maggior specializzazione, è forse l’unica via per rispondere alla domanda del mercato e per non esserne espulso. Dai due ponti di ferro costruiti a Venezia sul Canal Grande e da quello sull’Adige a Verona Neville ricava un pedaggio per il passaggio dei pedoni: ma già nel 1858 da un terzo a un quarto dei diritti di percezione stabiliti con i Comuni verranno acquistati da Palazzi(38).
Nel 1848, poco prima dello scoppio della rivoluzione, un ingegnere trentenne, che qualche anno prima aveva fatto il tirocinio in Belgio per conto della Ferdinandea lavorando poi con vari incarichi sul tronco Venezia-Vicenza, dimessosi dalla società ferroviaria, rilevò un’officina a Mestre per realizzare una fonderia di ghisa di seconda fusione e una fabbrica meccanica. Nella Odoardo Collalto & C., capitale 90.000 lire austriache, la sua quota era pari al 44%; il resto apparteneva al socio accomandante. Collalto costruisce ponti di ferro (sei nella sola Venezia), pompe idrauliche e macchine a vapore per bonifiche, gru, ecc. L’impresa prende quota e dodici anni più tardi, quando Collalto intende ampliare la produzione, non mancheranno i capitali disposti a sostenere l’impresa. Nascerà perciò la nuova società in accomandita con un capitale di 90.000 fiorini (257.148 lire austriache). Collalto, che ne è naturalmente il gerente, sottoscrive una quota pari al 13%: il resto è suddiviso fra ben sedici accomandanti, fra cui spiccano i nomi ben noti di Treves, Bigaglia, Errera e Giacomuzzi. Quale prova migliore dell’avvedutezza e della prudenza, ma contemporaneamente del sostegno alla modernizzazione da parte di quote non trascurabili del capitale commerciale e bancario(39)?
Dopo il turbine internazionale del 1857, gli avvenimenti politici non permisero il ritorno alla bonaccia: la guerra e il distacco dalla Lombardia nel 1859 assestarono un altro duro colpo all’economia veneta e soprattutto al porto. Crisi commerciale e flessione degli scambi furono aggravate dall’imposizione nel 1859 di un altro prestito forzoso dopo quelli del 1850 e del 1854. La Camera di commercio, protestando vibratamente per la quota del 49% assegnata ai settori commerciale e industriale, adombrava nelle circostanze quasi «un feretro funerario al solo commercio». L’introduzione nel 1851 della imposta sulla rendita (ricchezza mobile) — sebbene le imposte sul reddito di commercianti e industriali, specie ai livelli più alti, fossero irrisorie — non era stata digerita. Il malcontento diffuso si estese ancor più nel 1862 a causa dell’aumento dell’equivalente d’imposta in presenza di una caduta del movimento commerciale marittimo, fluviale e terrestre diminuito di 48 milioni di fiorini fra 1860 e 1864, per cui alla Camera di commercio questo sembrava «un passo gigante sulla via del precipizio». Fosse o meno vero che il movimento si fosse ristretto di «tre quinte parti circa» (9 marzo 1866), fatto sta che si può concordare con Zalin quando afferma che si era raggiunto «il punto più oscuro della vita economica e sociale degli ultimi cinquant’anni»(40).
Poco conosciuto risulta il settore delle case bancarie private a Venezia: comprese quelle straniere sono una ventina nel 1847, per ridursi a nove nel 1869 con l’entrata in scena degli istituti di credito(41). Era voce corrente che la piazza fosse dominata da quattro o cinque grandi banche, da cui dipendeva l’apertura o la restrizione del credito mediante l’imposizione del tasso di interesse e lo sconto delle cambiali. Prestiti, mutui, anticipazioni, sovvenzioni, purché garantiti da beni reali, da contratti d’appalto con lo Stato e in minor misura da titoli pubblici, venivano concessi ai tassi imposti dal banchiere. In base alle notizie a nostra disposizione daremo qualche rapido cenno su tre di esse, sufficientemente rappresentative per la nostra esposizione.
La casa bancaria e commerciale Papadopoli nel 1838 aveva un patrimonio, depurato dalle passività, di più di 15 milioni di lire austriache, consistente in immobili, bastimenti e merci, liquidi, crediti esigibili, titoli pubblici, palco alla Fenice, ecc. Dopo la morte di Angelo (1772-1833), la divisione ereditaria assegnò al fratello Giovanni (1786-1862) il 50% della sostanza e ai nipoti Spiridione (1799-1859), Antonio (1802-1844) e Sofia (1815-?) il resto. Spiridione, cui erano toccati 4 milioni, come abbiamo visto non si limitò agli impieghi commerciali e bancari. Alla sua morte nel portafoglio azionario erano conservati titoli di varie imprese private per un importo nominale di 971.718 lire austriache(42).
Armatori e mercanti di notevole entità fin dalla seconda metà del Settecento, i Treves de’ Bonfili dal 1834 compaiono esclusivamente come casa bancaria. Per esplicita volontà del barone Giuseppe (titolo conferitogli da Napoleone), defunto nel 1825, venne effettuata la divisione dell’asse ereditario fra i quattro figli, comprendente la sostituzione a favore dei nipoti nati e nascituri, operazione così complessa da concludersi solo nel 1841. Dopo la stima e la liquidazione mediante pubblica asta di bastimenti, merci, gioielli, argenteria, vestiario, ecc., conservando viceversa il grosso dei beni immobili in piena ed indivisa proprietà a favore dei nati e nascituri, la sostanza ammontava a più di 14 milioni e mezzo di lire austriache, per il 45,90% costituito da beni immobili. Tuttavia gli eredi universali, Giacomo (1788-1885) e Isacco (1790-1855) — Daniele e Raffael Vita avevano rinunciato nel 1826 ad ogni diritto a parte la quota legittima — contavano per la loro attività di banchieri su un capitale di più di 7 milioni, per il 98,12% consistente in denaro liquido(43).
Il terzo esempio riguarda una banca ‘minore’. Giovanni Conti (1808-1871), continuatore dell’attività del padre Alessandro, non compare più negli elenchi ufficiali del 1869. Come Papadopoli, nel 1864 ricusò di esser considerato uno scontista, dichiarando di investire la maggior parte delle sue risorse «in acquisto d’immobili, in compera di carte pubbliche e in mutui». Non c’è motivo di dubitare delle sue dichiarazioni: di fronte alla recessione egli preferisce rifugiarsi in porti sicuri. Ma è altrettanto vero che non avrebbe potuto smentire la sua appartenenza al rango dei maggiori banchieri operanti prima a Trieste, dove era nato, e poi a Venezia da molti lustri. La Casa di riposo di Venezia, erede residuaria delle sue sostanze, appurò che il suo patrimonio ascendeva a ben più di 2 milioni di lire italiane, costituito per il 60% da contanti, gioielli, titoli privati e pubblici, crediti cambiari e ipotecari a fronte di un immobilizzo in beni immobiliari pari al 30% circa(44).
Per il banchiere ottocentesco prudenza, sicurezza, liquidità erano criteri inderogabili. Nell’offerta di credito egli stabiliva volta per volta dei confini da non oltrepassare oppure chiudeva lo sportello alla domanda in attesa di momenti più convenienti(45). Ora, negli operatori medio-piccoli era vivo il bisogno di accesso al credito a breve e a medio termine e allo sconto delle cambiali a tasso agevolato, svincolandosi dalle banche private che, dominando il mercato, stabilivano il prezzo del denaro. Soprattutto piccoli commercianti e bottegai avevano necessità di credito per l’acquisto di merci e disponibilità all’accettazione delle loro cambiali. Queste ultime, se prive alla girata di firme di provata solidità, venivano rifiutate o scontate con tassi elevati. Le ditte che non potevano contare che su un relativo autofinanziamento, base fondamentale di molte imprese nel Lombardo-Veneto, dovevano puntare necessariamente sul mutuo ipotecario per ottenere liquidità. In Lombardia, la mancanza per tutto il Vormärz di istituti di credito aveva penalizzato gli operatori commerciali, frustrati dal fallimento del progetto di creare un Monte Sete, mentre i dicasteri viennesi avevano badato a rafforzare la Banca Nazionale di Vienna, che non praticava il credito alle imprese e non aveva aperto neppure una filiale nelle regioni italiane.
A Venezia la richiesta di una banca di sconto per emancipare i commercianti (la «classe attiva») dal monopolio delle banche private si era espressa apertamente nel 1848 e si era fatta pressante negli anni Cinquanta, malgrado la piazza fosse stata scossa negativamente dall’esito deludente della Società Veneta Commerciale e della Banca Nazionale Veneta, fondata nell’agosto del 1848. Fin dal rientro degli austriaci a Venezia, nel 1849, la reggenza della Banca Nazionale Veneta aveva cercato, senza riuscirci, di salvare la banca, invisa alle autorità per ragioni politiche, mutandone il nome in Cassa di Sconto. Tentativo peraltro non condiviso dall’intero gruppo economico lagunare, per cui ad assumersi la responsabilità dell’iniziativa fu la Camera di commercio, a garanzia della serietà e della sostenibilità dell’impresa(46). Ottenuta l’approvazione dal Ministero dell’Interno, nel maggio del 1852 la stessa Camera di commercio aveva curato la raccolta delle sottoscrizioni, ottenendo fra l’altro l’adesione di molti dei più forti ex azionisti della Banca Nazionale Veneta (sciolta nel settembre dello stesso anno), di altri nelle province e all’estero di una casa bancaria di Francoforte (1.500 azioni), mentre il capitale viennese preferiva defilarsi: fatto sta che lo Stabilimento Mercantile di Venezia poteva tenere il suo primo congresso nel marzo del 1853(47). La sua nascita era agevolata da una congiuntura estremamente favorevole, sull’onda della fondazione di banche che si proponevano lo sviluppo industriale e commerciale: in Francia la Société Générale du Crédit Mobilier dei fratelli Émile e Isaac Péreire (18 novembre 1852) e in Germania la Darmstädter Bank für Handel und Industrie (1853), mentre in Austria la contemporanea Niederösterreichische Escompte-Gesellschaft aveva obiettivi più limitati. A quest’ultima si può accostare lo Stabilimento che si prefiggeva statutariamente di ricevere merci in deposito con anticipazioni concesse preferenzialmente agli importatori dall’estero e di scontare effetti cambiari, con scadenza massima a quattro mesi e con avallo di due sole firme invece di tre. In sostanza puntava al sostegno del commercio di import/export, riprendendo il progetto della Società Veneta Commerciale e della Banca Nazionale Veneta, limitando però le sue operazioni allo sconto(48). Il capitale, previsto in 10 milioni di lire austriache, inizialmente non andò più in là dei 3 milioni, cifra che non poteva impensierire alcuni banchieri privati, «di gran lunga più forti dello Stabilimento».
Fin dall’inizio le fluttuazioni conseguenti alla mancanza di liquidità e alla forte domanda di denaro effettivo spinsero verso l’alto il tasso di sconto, che si mantenne per un quinquennio in tutta Europa su valori elevati. Lo Stabilimento nel 1853 ebbe una funzione di contenimento dei tassi contrastando la tendenza al rialzo guidata dagli scambisti(49). L’anno seguente, contraddistinto da una sorta di «negoziato di ventura» su merci e titoli pubblici, alla fine raggelato dallo «scoppio ripetuto d’improvvisi disastri», fu seguito da una forte crisi di liquidità. Se lo Stabilimento ne uscì indenne, non mancarono le critiche verso la direzione che aveva preferito sospendere le operazioni e non aveva avviato le sovvenzioni su merci, facendo mancare in sostanza il suo aiuto alla piazza. Contemporaneamente, sebbene la banca in due anni avesse scontato effetti, oltre ad altri impieghi finanziari, per più di 22 milioni, si cominciò a pensare che con un capitale versato di 2.949.000 essa non poteva provvedere ai bisogni del commercio(50). Nella cruciale adunanza degli azionisti del 18 settembre 1854 furono approvate alcune misure che accentuavano il ruolo bancario dello Stabilimento (sovvenzione su effetti pubblici fino al 20% del capitale; emissione di azioni al portatore; depositi in conto corrente con interesse più basso del tasso di sconto), ma non fu accettato di praticare lo sconto di effetti pagabili sulla piazza di Milano, in caso di giacenze di cassa. Se da una parte alcuni settori del ceto mercantile criticavano la prudenza nell’operare, tipica della mentalità dei banchieri (che pure avevano distribuito un dividendo del 6%), dall’altra i Ministeri centrali non erano disposti a concessioni né per le azioni al portatore né per i depositi in conto corrente. La febbre bancaria del 1856 e i crescenti successi del Crédit Mobilier e delle banche tedesche non mancarono di contagiare lo Stabilimento che procedette in agosto ad un aumento di capitale portandolo a 10 milioni. Delle 7.000 azioni di nuova emissione almeno 5.000 sarebbero state rilasciate al presentatore, mentre si postulava l’apertura di vari sportelli nel Lombardo-Veneto, in vista di una eventuale fusione con una banca di sconto progettata a Milano(51). Nel frattempo la fondazione in Austria, favorita dal ministro delle Finanze Carl von Bruck, della Credit-Anstalt für Handel und Gewerbe con un capitale di 60 milioni di fiorini (31 ottobre 1855) mise in moto un gruppo di uomini d’affari che volevano superare i limiti dello Stabilimento, ritenuto inadeguato a favorire lo sviluppo economico delle province venete. La Società Veneta per promuovere commercio, navigazione e industria si configurava come una vera e propria banca mista, con un programma che contemplava sia la fondazione di società anonime agricole, minerarie, industriali sia la partecipazione ad esse con quote azionarie e inoltre il concorso ad appalti pubblici, l’apertura di credito mediante anticipazioni ad enti pubblici, lo sconto su obbligazioni e titoli dello Stato con l’unica esclusione dei contratti a termine. Capitale 60 milioni di lire austriache, limitato per il momento a 24. I dodici proponenti, fra cui Giovanelli, Reali, Treves, Levi, Mocenigo, Errera, Spiridione Papadopoli, Ivancich, erano pronti a versare immediatamente un terzo del capitale. La rivalità fra i sostenitori dello Stabilimento e quelli della nuova banca, palesando l’incrinatura all’interno dei ceti dominanti, fece abortire un tentativo di accordo che era stato loro imposto dai Ministeri degli Interni e delle Finanze. I dirigenti dello Stabilimento, nel congresso degli azionisti del 20 aprile 1857, proposero un rilancio dell’istituto attraverso la modifica dello statuto e l’affrancamento dalla sorveglianza istituzionale della Camera di commercio. Il nuovo progetto portava il capitale a 45 milioni, ampliando considerevolmente il campo delle operazioni e assumendo, accanto alle caratteristiche prevalenti di banca di sconto, in parte anche quelle di banca di emissione e di deposito (concessione di crediti su garanzia, depositi in conto corrente, compravendita di titoli per conto terzi, risconto di effetti di portafoglio, emissione di vaglia al portatore, aperture di credito alla cantieristica, credito fondiario per «accorrere in ajuto della proprietà», ecc.). Anche questo progetto, per la latitudine delle operazioni, non poteva essere accettato a Vienna, da dove partì qualche mese dopo la tassativa disposizione di uniformarsi agli statuti della Cassa di Sconto di Milano, appena autorizzata (20 novembre 1857), dopo due anni di notevoli vicissitudini burocratiche(52).
Tutta l’economia lombardo-veneta, già vessata dalla crisi vinicola e del baco da seta, dalle conseguenze della guerra di Crimea e dal colera, fu messa in ginocchio dalla crisi finanziaria del 1857. Pur non essendone travolto, lo Stabilimento fu aggravato da crediti di incerto realizzo e da sofferenze bancarie. Un’operazione sicuramente impropria, ma che permise ad alcuni soci di salvarsi dalla bancarotta, fu la concessione di sovvenzioni su deposito di azioni della stessa banca. Risottoposto al controllo di una commissione di sorveglianza della Camera di commercio, che vigilava sulla copertura dei vaglia in circolazione in rapporto alla consistenza delle riserve metalliche, fra il 1859 e il 1866 lo Stabilimento condivise le sorti della caduta del traffico mercantile e marittimo di Venezia. La necessità di costituire un fondo di riserva per sanare mutui e crediti in sofferenza ebbe come conseguenza la distribuzione agli azionisti di dividendi inferiori al tasso di sconto ordinario «per parecchi anni»(53). Cessato il ciclo di espansione creditizia, nel 1862 uno dei maggiori azionisti esteri (B.H. Goldschmidt di Francoforte), riferendosi a quanto era stato fatto da molti istituti di credito tedeschi, propose la riduzione del capitale a 6.000 azioni con il riacquisto da parte dello Stabilimento delle 4.000, allora cadute sotto la pari, che sarebbero state vendute nel momento più opportuno. Se l’operazione, volta a potenziare il fondo di riserva limitando le perdite dei singoli azionisti, date le condizioni critiche della banca fu autorizzata dalla Luogotenenza, fu forse in questa occasione che un numero imprecisato di azionisti locali ne approfittò per disfarsi di un investimento che non dava profitti(54).
Due anni dopo, sfumata l’opportunità di fondare una banca di interesse regionale con sedi a Venezia e a Verona, non rinvenendosi un numero sufficiente di sottoscrittori nella piazza scaligera, un fronte largamente maggioritario di azionisti con un pacchetto di circa 4.000 azioni, guidato da uno degli esponenti della casa bancaria Jacob Levi e figli (un altro sedeva al tavolo della direzione), rilevando la costante diminuzione degli affari, chiese il ritiro di altre 2.500 azioni, che avrebbe riportato il capitale nominale grosso modo a quello del 1853. La contrarietà, per motivazioni diverse, della direzione della banca e della Camera di commercio non fece deflettere i proponenti, finché fu raggiunto un compromesso fra le parti con il ritiro di sole 1.000 azioni, che portava il capitale a 5 milioni. D’altra parte la contesa con le autorità (Luogotenenza e Ministero) nel 1865 fu assai aspra tanto più che gli azionisti avevano proposto altre modifiche statutarie che non furono accettate. Il braccio di ferro e la situazione di stallo si prolungarono fino alla fine del dominio austriaco. Con l’annessione al Regno d’Italia, quantunque gli azionisti accettassero la fusione con la Banca Nazionale (20 novembre 1867), lo Stabilimento conservò ancora la sua autonomia e una continuità nelle operazioni con lo sconto di cambiali con due sole firme invece di tre, fino a che nel 1871 si fuse con un altro istituto di credito(55).
Sarebbe sbagliato svalutare, come fecero i contemporanei, l’importanza di un istituto che nella sua durata ventennale ebbe tutto sommato un’esistenza dignitosa e che, se gli fosse stato concesso di allargare il campo di operazioni, avrebbe avuto forse ben altro risalto. I rigidi limiti imposti dal quadro legislativo del tempo, malgrado le aperture del neoassolutismo, impedirono che prendessero piede nel 1856 iniziative di maggior respiro allargate ad un ambito regionale e interregionale. Malgrado la modestia della piazza, lo Stabilimento attirò capitali dall’estero inserendosi pienamente nel solco della grande espansione creditizia europea del 1852-1857, riuscì a salvare alcune ditte commerciali dall’«infuriare della procella mondiale» di quell’anno, nelle pratiche bancarie dimostrò una maggiore attività anche rispetto a Milano, dove lo sconto delle cambiali venne introdotto solo nel 1858(56).
Una semplice scorsa ai nomi degli azionisti dello Stabilimento rivela una massiccia partecipazione degli ebrei veneziani. Nel 1857, per esempio, su cinque direttori tre erano ebrei e tali erano al congresso di aprile di quell’anno più del 60% degli azionisti con il 74% dei voti, percentuali che restarono invariate o aumentarono in seguito. Anche se non possiamo sapere quanti fossero semplici procuratori di ditte estere o delle province, ciò è tanto più sorprendente se si pensa che la comunità ebraica veneziana non raggiungeva in quegli anni il 2% della popolazione. Per intraprendenza ed audacia negli affari e nelle iniziative economiche si può ben parlare di un segmento di punta all’interno dei ceti dominanti. Preminenza e successi si possono forse in parte ascrivere alla coesione fra i membri di una comunità ‘non conformista’, non ancora inserita a pieno titolo a causa di pregiudizi di indole religiosa assai forti nelle società della Restaurazione, sebbene l’appartenenza ad un gruppo minoritario con innegabili legami di solidarietà interna non escludesse, come è documentabile dai rogiti notarili, contrasti di interesse tra le singole ditte ebraiche veneziane. Si può ben dire che non vi sia settore mercantile e industriale dove gli ebrei non lascino le loro tracce, come abbiamo indicato nel corso di questo saggio. Senza voler d’altronde sopravvalutare la loro incidenza effettiva nel tessuto economico lagunare, non si può non sottolinearne il notevole apporto propulsivo anche in termini di capitali di rischio. È un altro capitolo della società e dell’economia veneziane che richiederebbe una ricerca specifica per far emergere le realizzazioni dei vari Treves, Errera, Mondolfo, Coen, Lattis, Della Vida, Vivante, Gentilomo, Dal Medico, ecc. nel corso del XIX secolo.
Tra i protagonisti dello Stabilimento ci limitiamo qui ad accennare rapidamente alla casa commerciale e bancaria Jacob Levi e figli, esempio tra i più chiari di accumulazione e accorti investimenti di capitale che la porteranno a diventare alla fine del secolo una delle massime ditte operanti non solo in ambito regionale.
Separatisi, probabilmente nel 1824, i due fratelli Jacob (1770-1848) e Abram (?-1836) di Mandolin Levi, il primo di essi, che negli anni Trenta ha rapporti con una trentina di ditte estere, amplierà con gli eredi il giro di affari fino ad aprire conti sociali bancari con 241 corrispondenti nel 1861-1862, giunti a 261 nel 1867. Il più anziano dei suoi figli, Abramo (1799-1865), nel 1843 intraprende viaggi di affari in Europa per aprire nuove relazioni commerciali, che lo porteranno a stabilirsi in seguito a Parigi. Nel 1864 la ditta paterna passerà ad Angelo (1801-1881), agente generale della R.A.S. a Venezia, che diventerà appunto uno dei direttori dello Stabilimento, mentre i figli di Abramo, Angelo (1824-1886) e Cesare (1826-1892), ne saranno fra i maggiori azionisti e attivi protagonisti. Nel 1857-1858 la ditta possiede infatti un numero di azioni variante da un minimo di 321 ad un massimo di 860, senza contare la partecipazione azionaria a decine di imprese assicurative e industriali. Sul patrimonio di questa ditta, che accentuerà sempre più i suoi impieghi finanziari e industriali tanto da assurgere ad una posizione di rilievo nel mondo economico non solo veneto, poco sappiamo se non che il suo nucleo pare fondato sull’autofinanziamento e su conferimenti di ordine famigliare(57).
Le attività turistiche, oggetto di una forte domanda in perenne crescita nel corso dell’Ottocento, restano uno dei tanti argomenti da studiare. Quale fosse il saggio di incremento, quale quota nella produzione globale di servizi assegnabile ai proventi turistici concorresse a formare il reddito di negozianti e bottegai, di artigiani e camerieri, di servi di piazza e di gondolieri, di barcaioli e facchini, insomma di tutto l’indotto ruotante attorno all’arrivo a Venezia di viaggiatori e visitatori, è tutto da scoprire, tanto più che questa branca dell’economia lagunare sembra tra le più refrattarie ad essere indagata. Eppure, a dispetto del mito costruito a posteriori di una Venezia malata e fatale, città del sogno e della decadenza, dei miasmi stagnanti e della morte, migliaia di facoltosi vi accorrono stagionalmente non solo per l’arte ma anche per bagnarsi nelle sue acque e ritemprarsi nel suo clima, rinomato per mitezza e per salubrità.
Nel maggio del 1844 «gli albergatori, gli osti, i locatori di camere fornite, i barcajoli e facchini» profittarono di «uno straordinario numero di visitatori» accorsi a Venezia per «i bagni marini […] che voglionsi più salutari che altrove», oltre che per i richiami artistici e teatrali, in ciò agevolati dal trasporto ferroviario e marittimo a vapore.
In effetti fra 1836 e 1843 il numero dei forestieri era più che raddoppiato con una media di poco inferiore alle 10.000 persone all’anno; da parte loro i sudditi austriaci giunti in città assommavano a più di 400.000 per una media annua di 53-55.000 unità(58).
Alberghi e caffè. Non siamo in grado allo stato attuale delle ricerche di fornire dati complessivi sulla capacità ricettiva degli esercizi, sul loro numero e su quello degli addetti, sulla entità dei capitali investiti e dei ricavi. Nel 1848 sono 51 gli esercizi comprese le principali trattorie, 24 gli alberghi di un certo rilievo. In base alle informazioni raccolte, pare assodato che per aprire e gestire un albergo non fosse necessario disporre di grandi capitali, almeno se prendiamo come termine di confronto un’impresa commerciale di media importanza. Si tratta in genere di società individuali o famigliari, talvolta di accomandite quando l’impresa diventa impegnativa: è il caso dell’Albergo Reale Danieli. Tuttavia, fra il 1824 e il 1861, i capitali complessivamente impegnati dal fondatore, Giuseppe Dal Niel detto Danieli, e dai suoi successori nell’acquisto degli immobili non superano le 300.000 lire austriache; nel 1864 il capitale fisso è valutato circa 175.000 lire. Cifre certo non disprezzabili, ma si tratta del più rinomato albergo della città. La società in accomandita costituita nel 1864 fra il perugino Adolfo Bolognesi e il bolognese Stefano Campi per gestire l’albergo, dopo il ritiro dei proprietari, ha un capitale in denaro inferiore alle 50.000 lire, il che non impedisce ai soci di aprire poco lontano un albergo nuovo di zecca e in seguito di gestire uno stabilimento balneare al Lido(59). Dai sondaggi effettuati sembrerebbe delinearsi la presenza maggioritaria di uomini e capitali esteri o provenienti dalle varie regioni della Monarchia, mentre gli uomini d’affari locali troverebbero conveniente indirizzare i loro capitali sul ramo turistico non prima degli anni Settanta. Nelle società che gestiscono tredici di questi alberghi abbiamo potuto accertare con sicurezza (i rogiti notarili purtroppo non registrano quasi mai dati anagrafici e località di nascita) quattro persone di nazionalità francese, due sudditi pontifici, due di area austro-tedesca, due svizzeri, due veronesi (ma uno di essi ha un cognome inequivocabilmente tedesco), un padovano, un milanese e un veneziano, mentre di altri dieci soci non conosciamo che le generalità. È negli anni Cinquanta, in corrispondenza alla forte domanda di strutture ricettive, che si compie una vera e propria svolta, documentabile solo con qualche esempio. L’Hotel Stella d’Oro di Maria Bauer Grünwald a S. Moisè, destinato a una lunga esistenza, che viene rilevato nel 1861 e che amplia la propria modesta offerta di 14 camere nel 1863, collegandosi ad una locanda adiacente, può contare su un capitale complessivo di 2.700 fiorini (circa 7.715 lire austriache). Una società in nome collettivo (i due soci quasi certamente sono originari delle province austriache) apre nel 1858 in Merceria dell’Orologio, nei locali dell’antica locanda del Pellegrino, l’Hotel Belle Vue con un capitale di 42.000 lire austriache. L’Hotel de la Ville, dal canto suo, si propone forse di competere con il Danieli. Situato nel 1853 a palazzo Grassi a S. Samuele con un arredamento stimato 35.750 lire austriache, l’albergo non dovrebbe mancare di clientela se il proprietario dell’immobile stipula con il gestore un contratto che gli assicura per l’affitto una rendita di 60 lire austriache al giorno per i primi due anni, elevate a 65 per i tre anni successivi. Il veronese Augusto Barbesi, d’altra parte, ha fatto bene i suoi calcoli, se nel 1857 può permettersi di acquistare Ca’ Loredan (dal 1868 sede del Municipio) per 270.000 lire e trasferirvi il Grand Hotel de la Ville, 1.180 mq con 70 camere. Nel 1860, quando Barbesi riesce a trovare tre soci (un austriaco residente a Verona, un milanese e uno svizzero) versa per sua quota nella società un capitale di 36.000 lire, mentre l’albergo è stimato 93.708,70 lire. Dopo dieci anni però la società risulta sciolta e il palazzo venduto in un’asta giudiziale, un esito di cui non riusciamo a intravedere i retroscena(60).
Teatri e caffè erano luoghi frequentatissimi dai ceti più abbienti. Un uomo molto conosciuto a Venezia risulta essere certamente Antonio Francesconi, proprietario del Caffè alla Vittoria in calle larga S. Marco, che fra capitale fisso e avviamento nel 1847 è valutato 32.598,96 lire austriache. Nel 1852 Francesconi acquista il fondo per 60.000 lire e ne lascia la gestione al figlio per passare al Florian sotto le Procuratie Nuove. Nel 1858 si ritira dall’attività assicurandosi dal caffè una rendita (circa 30 lire austria;che al giorno) che percepisce dai tre nuovi gestori. La società, a sua volta, decide di incorporare nel Florian, ampliando i locali, l’attiguo Caffè degli Specchi: il capitale complessivo è salito a questo punto a 65.708,84 lire.
Dall’altra parte della Piazza, un altro locale tenta di far concorrenza al più blasonato rivale: al proprietario, Giorgio Paulini detto Quadri, l’avviamento del caffè, affidato ad un abile gerente come Giuseppe Vaerini, garantisce nel 1837 una rendita di 13 lire austriache al giorno che aumenteranno a quasi 21 nel 1844. Gli aumenti a scalare stabiliti nei contratti notarili sono la miglior prova della redditività di questo ramo della ristorazione, segno evidente dello sviluppo di questo genere di esercizi commerciali nella Venezia ottocentesca.
Stabilimenti balneari. «Altri ama la libertà de’ campi: la libertà vera, l’eguaglianza è nel bagno». Non vi è frase più calzante per definire la rivoluzione nei costumi e nelle abitudini operatasi in questi anni anche a Venezia con l’affermarsi della moda del nuoto, dell’attività fisica, dell’immersione nelle acque marine(61). A partire dallo Stabilimento galleggiante presso la punta della Salute diretto dal dottor Tommaso Rima (1834), appartenente alla società Tommaso Gianini & C., non vi è albergo che non allestisca per i suoi clienti appositi locali per bagni di acqua dolce o salsa, calda o fredda, tanto che l’interessato può scendere lungo il Canal Grande da Rialto alla Salute per scegliere l’albergo più acconcio per sito e prezzi. Le descrizioni pittoresche non mancano, ma le fonti sui dati imprenditoriali sono rare. Solo le circostanze politiche, che costrinsero Anton Francesco Degli Antoni ad emigrare a Torino nel 1849, ci permettono di capire quanto fosse redditizio l’esercizio del suo Stabilimento Bagni a S. Samuele. Nel 1851 l’immobile, adiacente a palazzo Grassi, di 1.060 mq, con vasche e arredamento, è ceduto per 122.349,48 lire austriache alle Assicurazioni Generali, le quali hanno fiutato quali prospettive favorevoli si aprano agli investimenti in campo turistico: prova ne sarà inoltre l’acquisto nel 1852 del centralissimo Hotel Regina d’Inghilterra(62).
Chi apre nuove prospettive al turismo balneare, trasferendolo dall’ambito cittadino e lagunare alle spiagge sull’Adriatico e valorizzando quella striscia di sabbia che apparve a Shelley «a bare strand of hillocks […] an uninhabited sea-side», è però un imprenditore di dighe e canali, Giovanni Busetto detto Fisola (1796-1887). Al settore balneare-turistico Busetto approda ormai sessantenne, dopo varie attività esercitate dal 1838 in avanti. Durante la sua intensa attività di appaltatore di lavori pubblici e di trasporti militari e civili e anche di costruttore navale, egli riceve anticipazioni e sovvenzioni da Abramo Errera e soprattutto dai fratelli Alessandro e Leon Vita Vivante per il servizio di trasporto dei viaggiatori della ferrovia da Marghera a Venezia e poi dalla stazione di S. Lucia ai vari approdi in città. Oltre alla partecipazione alla costruzione della diga interna di Malamocco, nel 1858 progetta una S.p.A. con un capitale di 40 milioni per la raccolta e depurazione dei fanghi dei canali da impiegare come concime a base ammoniacale in agricoltura e per la costruzione di un moderno sistema di latrine e pozzi neri in città di brevetto francese(63). Ma il suo capolavoro imprenditoriale è la scoperta che fa nel 1856 quando, fra le dune e la vegetazione dell’arenile lidense, scorge la «trabacca per uso di Bagni Marini» edificata da una donna, la vera progenitrice di un progetto di sfruttamento del mare e del sole al Lido di Venezia. Fisola acquista immediatamente la concessione demaniale e in cambio accorda alla donna l’esercizio decennale di una trattoria di sua proprietà a S. Maria Elisabetta, dove i clienti dovranno essere attratti da «squisitezza di cibi, e di vini, modicità di prezzi e buon servigio». Non solo la «trabacca» negli anni seguenti diventa uno stabilimento balneare, ma Busetto offre alla sua clientela una rete integrata di servizi composta di varie agevolazioni e prestazioni: durante la stagione balneare la vaporiera «Alnoch» e barche omnibus (sperimentate con successo anni prima con la ferrovia) compiono il tragitto da S. Marco al Lido con scadenza oraria, anche notturna. Oltre alle cabine a mare, alle tende, ai costumi e agli accappatoi, il cliente trova nello stabilimento un servizio di ristorazione e gli vengono offerti degli spettacoli di intrattenimento serali.
Tab. 2. Ricavo netto in lire austriache Periodo Stabilimento Vaporiera Omnibus Spettacoli 1857 27.086,33
(21.6-26.9) — — — 1858 34.352,24
(22.5-09.10) 4.856,23
(13.6-30.8) 1.998,46
(23.5-25.9) 10.000
(18.7-13.9) Fonti: A.S.V., Camera di commercio, b. 337 V/5, 26 luglio 1861.
In sostanza le due stagioni 1857-1858 per 238 giorni utili gli danno un profitto di 78.293,26 lire austriache, pari a 328,96 lire al giorno, un avvio più che promettente. Ottenuta la concessione, nel 1869 Busetto acquista dal demanio un’area consistente a S. Maria Elisabetta e a S. Nicolò e chiede appoggio alla Camera di commercio per il suo stabilimento «decoro e lustro di questo paese», onde ottenere dalle autorità militari concessioni durature in vista dell’apertura del tratto ferroviario del Brennero e del prevedibile aumento di bagnanti dalla Baviera, dalla Svizzera e dal Tirolo. Tre anni dopo la grande borghesia veneziana lo persuaderà a cedere l’iniziativa e ad entrare come socio nella Società dei bagni del Lido, una S.p.A. con il capitale di 350.000 lire italiane(64).
Nel cinquantennio austriaco, a torto trascurato dalla storiografia economica, le forze produttive cittadine, seguendo un percorso congiunturale che alterna a brevi periodi di crescita fasi non transitorie di stasi e anche di arretramento, affrontano il difficile cammino sulla strada della modernizzazione, all’interno di rapporti produttivi non ancora ben delineati in senso capitalistico. Diventata un porto marginale nello stesso Mediterraneo per ragioni geopolitiche e prevalentemente uno scalo di transito (il che non esclude l’incameramento di forti ricavi commerciali), Venezia, volte ad un lento ma inarrestabile tramonto le persistenti illusioni di ritorno ad un ruolo primario di intermediazione tra il Levante e i paesi dell’Europa centrosettentrionale, si avvia faticosamente ma obbligatoriamente a diventare il terminale marittimo del traffico regionale e interregionale.
È una fase tormentata alla ricerca di un ruolo, fra il nuovo che avanza e il vecchio che non muore, all’interno di un Veneto essenzialmente agricolo e della confinante regione lombarda orientata per gli scambi verso il più conveniente porto genovese, per di più ambedue parti di un grande mercato sovranazionale come la Monarchia austriaca, con notevoli squilibri al suo interno fra regione e regione, a sua volta collocata in una posizione secondaria nei confronti della divisione internazionale del lavoro.
I gruppi economici dominanti, ereditato dal passato un considerevole patrimonio di mezzi di produzione ormai depauperato dai profondi rivolgimenti politico-militari e dall’instabilità economica conseguenti alla Rivoluzione francese e al dominio napoleonico in Italia, danno prova tuttavia di saper affrontare la sfida del presente, sviluppando iniziative sul piano commerciale, finanziario e industriale, introducendo innovazioni (nuovi tipi di macchine e nuove fonti di energia), attraendo capitali e lavoro dall’esterno, segno di indubbia vitalità dell’economia cittadina, dando luogo all’accumulazione di ricchezza e ad investimenti netti di capitale. Venezia così, agevolata parzialmente dal regime del portofranco, avvalendosi della protezione doganale contro la superiorità schiacciante della concorrenza dei paesi first comers, sviluppa le sue dotazioni e le sue infrastrutture irrobustendo quello che a ragione si può definire un vero distretto industriale. In questo percorso la città accentua il suo relativo isolamento dal resto della regione, sia sul piano economico sia su quello sociale e culturale, evidenziando ancor più le peculiarità che la rendono un’anomalia rispetto al Veneto agricolo. Dal punto di vista economico, non una cesura ma una sostanziale continuità si può cogliere fra la Venezia austriaca e quella di fine secolo e dei primi decenni del Novecento: nel cinquantennio austriaco cresce e si rafforza, in un processo ininterrotto di accumulazione su scala allargata e di investimenti diversificati, quella grande borghesia commerciale e finanziaria protagonista e partecipe della rinascita della città. In questo senso non di «sorpresa» si dovrebbe parlare per le realizzazioni della Società porto industriale e del polo di Marghera quanto semmai di prosecuzione e conclusione di un trend secolare.
1. Mi limiterò qui a citare gli studi che mi sembrano più significativi per la ricostruzione del tessuto economico lombardo: Kent R. Greenfield, Economia e liberalismo nel Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848, Bari 1964; Bruno Caizzi, L’economia lombarda durante la Restaurazione (1814-1859), Milano 1972; Stefano Angeli, Proprietari, commercianti e filandieri a Milano nel primo Ottocento. Il mercato delle sete, Milano 1982; Luciano Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia 1989, pp. 3-132; Roberto Romano, La modernizzazione periferica. L’Alto Milanese e la formazione di una società industriale 1750-1914, Milano 1990; Rupert Pichler, Die Wirtschaft der Lombardei als Teil Österreichs. Wirtschaftpolitik, Aussenhandel und industrielle Interessen 1815-1859, Berlin 1996; Stefano Levati, La nobiltà del lavoro. Negozianti e banchieri a Milano tra Ancien Régime e Restaurazione, Milano 1997, ai quali due ultimi rimando per una bibliografia più ampia.
2. Per la comunità tedesca a Venezia, Federico Bertuch, Contributi alla storia del Risorgimento italiano, Venezia 1911; per investimenti di capitali esteri e «nazionali», Adolfo Bernardello, Investimenti e industrializzazione nella Venezia austriaca della prima metà dell’800. Il caso della fabbrica di panni feltrati, «Storia Urbana», 55, 1991, pp. 87-120; per la seconda metà dell’Ottocento, Rolf Petri, La sfida lagunare: investimenti e imprenditori stranieri a Venezia, «Padania», 2, 1988, nr. 4, pp. 57-96.
3. Markus Cerman, Forme di organizzazione protoindustriale, «Società e Storia», 1994, nr. 63, p. 175 (pp. 161-187); Milan Myèka, Un caso speciale o un diverso modello? La protoindustrializzazione in Boemia, Moravia e Slesia, in Le vie dell’industrializzazione europea. Sistemi a confronto, a cura di Giovanni Luigi Fontana, Bologna 1997, pp. 405-437 (la citazione è di Witold Kula alla p. 414). Per scendere ad una ricerca capillare sulle aziende veneziane, un fondo importante presso l’A.S.V. è quello del Registro ditte della Camera di commercio (1845-1925), che consta di 140 buste non inventariate e senza indici. Tuttavia, per la ricostruzione dei patrimoni della borghesia commerciale, finanziaria e industriale ottocentesca è indispensabile lo spoglio delle fonti notarili a partire dalla seconda metà del secolo XVIII.
4. Il testo del provvedimento in Giovanni Pillinini, Venezia città franca: il ‘Regolamento’ del 1829, «Risorgimento Veneto», 5, 1987, pp. 13-61; sull’attività portuale tra 1830 e 1866 valutazioni negative esprime Emilio Morpurgo, Saggi statistici ed economici sul Veneto, Padova 1868, pp. 297-300, 328-329, 333-339; Alberto Errera, Storia e statistica delle industrie venete e accenni al loro avvenire, Venezia 1870, pp. 743-753; Kent R. Greenfield, Commerce and New Enterprise at Venice, 1830-1848, «The Journal of Modern History», 11, 1939, pp. 315-319, 321-323 (pp. 313-333); Gino Luzzatto, La funzione del porto di Venezia nel passato e nel presente, «Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Venezia per l’Anno Accademico 1922-1923», pp. 39-45 (pp. 29-51); Id., Le vicende del porto di Venezia dal primo medio evo allo scoppio della guerra mondiale 1914-1918, introduzione a Luigi Candida, Il porto di Venezia, Napoli 1950, pp. 29-33 (pp. 7-44); Gino Luzzatto, L’economia veneziana dal 1797 al 1866, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, III, Dall’età barocca all’Italia contemporanea, Firenze 19792, pp. 272-274 (pp. 267-277); David S. Laven, Punti di vista britannici sull’economia veneziana, 1814-1848, «Cheiron», 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 98-106 (pp. 93-114). Un confronto fra le statistiche sull’attività portuale riportate in Giovanni Zalin, Aspetti e problemi dell’economia veneta dalla caduta della Repubblica all’annessione, Vicenza 1969, pp. 121-130, 135-140, 243-246, e in Massimo Costantini, Dal porto franco al porto industriale, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 882-896 (pp. 879-914) presenta divergenze di dati anche notevoli. I dati quantitativi sul traffico marittimo dovrebbero considerarsi, a parere di chi scrive, puramente indicativi, data la non attendibilità delle fonti di cui i contemporanei per primi erano consapevoli (v. per esempio Giovanni Tomasoni, Porto franco, industria, commercio, in Venezia e le sue lagune, II, 1, Venezia 1847, p. 526 n. [pp. 497-570]). Per una valutazione complessiva del traffico portuale bisognerebbe inoltre quantificare il volume del flusso di traffico da Venezia lungo le vie fluviali e stradali verso il Veneto, la Lombardia, lo Stato pontificio e il Tirolo. Interessanti valutazioni meno pessimistiche sulla disparità e inferiorità di Venezia rispetto a Trieste e sulla complementarità dei due porti, spunti che andrebbero approfonditi, aveva dato Fulvio Babudieri, I porti di Trieste e della Venezia Giulia dal 1815 al 1918, «Archivio Economico dell’Unificazione Italiana», ser. I, vol. XIV, fasc. 2, Roma 1965, pp. 144-146 e 150-151.
5. Sul sistema doganale del portofranco: K.R. Greenfield, Commerce, pp. 321-322; Giovanni Pillinini, Il regime doganale veneziano durante la seconda dominazione austriaca, «Archivio Veneto», 122, 1984, pp. 65-73; in generale R. Pichler, Die Wirtschaft, pp. 123-169 e 221-226.
6. David S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Torino 1978, pp. 302-310.
7. E. Morpurgo, Saggi statistici, p. 296, vi vede «lo scoramento e l’atonia di una crisi permanente […] i giorni si succedono per essa [Venezia] con uniforme tristezza»; A. Errera, Storia e statistica, pp. 56-124; per i parametri di riferimento, Adolfo Bernardello, Burocrazia, borghesia e contadini nel Veneto austriaco, «Studi Storici», 16, 1976, nr. 4, pp. 134-135 (pp. 127-152), ora in Id., Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997, pp. 9-42. Per una rassegna bibliografica, Massimo Costantini, Lineamenti di storiografia economica su Venezia nell’Ottocento, «Cheiron», 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 159-171.
8. Solo la categoria dei negozianti in ogni ramo si presta a qualche raffronto. Anno 1830: ditte nr. 408; su 300 negozianti, 78 sono quelli in ogni ramo, cioè il 26% (A.S.V., Camera di commercio, b. 70 IV/30). Anno 1835: ditte nr. 160; i negozianti in ogni ramo sono 35, cioè il 21,87% (ibid., b. 102 V/36). Anno 1854: ditte iscritte alle sette classi nr. 6.452. Nella prima classe sono incluse 271 ditte: i negozianti in ogni ramo sono 70, cioè il 25,83%, l’1,08% rispetto al nr. totale degli esercizi. Rispetto alla popolazione complessiva risulterebbero essere lo 0,05% (ibid., b. 254 IV/2). Quanto al controllo dei maggiori negozianti sulla Camera di commercio, basterà dire che circa il 60% delle ditte nel 1858 era escluso dal voto per l’elezione del consiglio camerale, in quanto paganti un contributo Arti e Commercio inferiore a 15 lire austriache l’anno (ibid., b. 297 IV/2).
9. Uno dei pochi ad averlo debitamente sottolineato è S. Angeli, Proprietari, commercianti, pp. 112-113; sul possesso della terra a simili conclusioni perviene più recentemente anche S. Levati, La nobiltà del lavoro, pp. 147-177, superando infine certe tediose interpretazioni storiografiche tendenti ad avvalorare la supina uniformazione della borghesia a modelli aristocratici.
10. Adolfo Bernardello, Imprese ferroviarie e speculazioni di borsa nel Lombardo-Veneto e in Austria (1836-1847), «Storia in Lombardia», 6, 1987, nr. 3, pp. 33-102; Id., La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996, pp. 19, 27, 45-54, 77, 463-466, 515-523.
11. Per la compravendita di titoli delle società ferroviarie Milano-Monza, Milano-Como, Zurigo-Basilea, Firenze-Livorno, Siena-Empoli, v. A. Bernardello, Imprese ferroviarie, pp. 55 e 73-101. Attivi sul mercato della compravendita di titoli ferroviari risultano Giacomo Giorgio Levi della ditta Abram di Mandolin Levi, Laudadio Gentilomo, Aronne Lattis fu Samuele, possessore quest’ultimo nel 1857 di 503 azioni della Centrale Toscana e di 64 della Siena-Firenze. La ditta Jacob Levi e figli deposita nel 1848 1.347 azioni della Strada Ferrata dell’Appennino (A.S.V., Camera di commercio, b. 189 V/7, 9 maggio e 3 agosto 1848). Per le ferrovie nel Lombardo-Veneto, v. Adolfo Bernardello, Pietro Paleocapa e le ferrovie nel Regno Lombardo-Veneto (1836-1848), «Storia in Lombardia», 10, 1991, nr. 2, pp. 3-52; Le ferrovie in Lombardia tra Ottocento e Novecento, a cura di Sergio Zaninelli, Milano 1995, pp. 71-124.
12. Nell’ordine dell’esposizione, A.S.V., Camera di commercio, bb. 52 III/4, 12 novembre 1826; 129 III/10, luglio 1840; «L’Avvisatore Mercantile», 7 luglio 1849; A.S.V., Commissione di sorveglianza alle Fabbriche ed Arti privilegiate nel Recinto del Portofranco di Venezia, b. 53.IV.4, 1851-1872; Camera di commercio, b. 245 V/5, 14 dicembre 1853; «Gazzetta Uffiziale di Venezia», 23 luglio 1856 e 23 luglio 1857; A.S.V., Camera di commercio, b. 299 V/5, 5 aprile 1858; Bertrand Gille, Histoire de la Maison Rothschild, II, 1848-1870, Genève 1967, pp. 377-378; Ugo Spadoni, Il Canale di Suez e l’inizio della crisi della marina mercantile italiana, «Nuova Rivista Storica», 5-6, 1970, pp. 656-657 (pp. 651-702).
13. A.S.V., Governo, 1845-1849, XLV 2/5, carteggio maggio 1845-giugno 1846; Presidio di Governo, 1845-1849, XIII 5/6, carteggio marzo-novembre 1846; Camera di commercio, b. 177 IV/7, 1847. Nel 1847 Giacomo Giorgio Levi fa bancarotta e, dopo aver liquidato i suoi averi cedendoli ai cugini della Jacob Levi e figli, si rifugia con i fratelli ad Alessandria d’Egitto, dove riprende la sua attività. Rientrerà a Firenze nel 1867. Su di lui anche Nel primo centenario della Riunione Adriatica di Sicurtà (1838-1938), Trieste 1939, pp. 142-143, e A. Bernardello, Imprese ferroviarie, pp. 53-54 e 93.
14. A. Bernardello, Pietro Paleocapa, pp. 37-43; Id., La prima ferrovia, ad vocem; per la navigazione a vapore, A.S.V., Fondo Mocenigo, bb. 68, 70, 150; Camera di commercio, bb. 59 III/1 e III/10; 69 III/3; 89 III/2; 179 V/5; Giancarlo Consonni-Graziella Tonon, Trasporti e strategie di sviluppo nel secolo XIX, in Venezia-Milano, Milano 1984, pp. 253-254 (pp. 233-284). Su Mocenigo v. anche Lorenzo Bellicini, La costruzione della campagna. Ideologia agraria e aziende modello nel Veneto, 1790-1922, Venezia 1983, pp. 149-178.
15. Le compagnie sono lo Stabilimento Veneto di Assicurazioni (1826-1858?), capitale da 450.000 a 1.473.000 lire austriache; la Società di Assicurazioni, poi Rinnovata Società di Assicurazioni (1829-?), capitale da 822.500 a 805.000; il Gabinetto di Assicurazione, poi Rinnovato Gabinetto di Assicurazione, poi Unione Assicuratrice (1829-1834?), capitale variante da 300.000 a 1.500.000; la Società di Assicurazioni del Portofranco di Venezia (1829-1834?), capitale oscillante fra 630.000 e 600.000; Veneti Assicuratori (1839-1856?), capitale 1.190.000. In queste compagnie la partecipazione azionaria degli ebrei veneziani va da un minimo del 27 ad un massimo del 46% rispetto al numero degli azionisti (A.S.V., Camera di commercio, b. 85 V/9; Presidenza della Luogotenenza veneta, 1857-1861, XVI 1/1, b. 474; Camera di commercio, b. 139 V/8; Governo, 1845-1849, XLIX 2/8; Presidenza della Luogotenenza veneta, 1852-1856, XI 4/9, b. 253; Camera di commercio, b. 288 V/1). Per il numero delle compagnie attive a Venezia dal 1829 al 1863, ivi, Camera di commercio, bb. 91 V/9; 123 III/10; 132 V/8; 360 IV/18. V. anche Nel primo centenario, pp. 138-139, con dati non sempre corrispondenti a quelli notarili e Le centenaire des Assurances Générales de Trieste et Venise 1831-1931, Trieste 1931, pp. 31-68; Giulio Sapelli, Uomini e capitali nella Trieste dell’Ottocento. La fondazione della Riunione Adriatica di Sicurtà, «Società e Storia», 1984, nr. 26, pp. 821-874.
16. A.S.V., Governo, 1835-1839, XXVII 3/24, carteggio agosto 1837-novembre 1838; Camera di commercio, b. 119 V/7, 10 maggio 1838; Magistrato Camerale, 1835-1839, XXIII 8/4, b. 554, 14 maggio 1839; Camera di commercio, b. 147 V/25, 9 settembre 1842.
17. Ivi, Commissione governativa di commercio, industria ed economia rurale, b. I/18, 5 marzo 1845 (anche in Governo, 1845-1849, XIX 9/2): nel 1843-1844 la società aveva venduto 4.800 tonnellate di carbone; Raffaello Vergani, L’industria mineraria e metallurgica: tecniche, economie, società, in Le scienze della terra nel Veneto dell’Ottocento, a cura di Ezio Vaccari, Venezia 1998, pp. 271-272 (pp. 269-286).
18. «Gazzetta Uffiziale di Venezia», 8 gennaio 1856; R. Vergani, L’industria mineraria, pp. 273-275, 279 e 281; Alberto Errera, Atlante statistico industriale commerciale e marittimo per il Veneto con tabelle comparative, Milano-Venezia 1871, dà una perdita di 459.914,12 lire italiane su un capitale versato di 2.102.535. Per investimenti in questo ramo, ricordiamo solo lo Stabilimento Adriatico per la fabbricazione di mastice asfaltico alla Giudecca, fondato da Salomon Rothschild con un capitale di 450.000 lire austriache.
19. A. Bernardello, Investimenti e industrializzazione, pp. 93-104. Per un confronto sulla scala delle due imprese e sulla composizione organica del loro capitale, nel 1839 la società di Eleonoro Pasini e Francesco Rossi a Schio aveva un capitale fisso e circolante di 390.000 lire venete (222.300 lire austriache), salito nel 1846 a 466.502,75 lire venete (265.906,56 lire austriache) con 170 operai. Infine nel 1848 la fabbrica si serviva di una potenza idraulica di 20 HP e di una macchina a vapore di 12-14 HP (Giovanni Luigi Fontana, L’industria laniera scledense da Niccolò Tron ad Alessandro Rossi, in Schio e Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi sociali del secondo Ottocento, I, a cura di Id., Roma 1985, pp. 185-186 [pp. 71-256], e Id., Mercanti, pionieri e capitani d’industria. Imprenditori e impre;se nel Vicentino tra ’700 e ’900, Vicenza 1990, pp. 48-52).
20. A. Bernardello, Investimenti e industrializzazione, pp. 105-115.
21. Per i particolari, Id., Capitale veneziano e industria cotoniera: il Cotonificio di Pordenone (1839-1899), «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze morali, lettere ed arti, 153, 1994-1995, pp. 689-697. Sul Cotonificio, Luigi Mio, Industria e società a Pordenone. Dall’unità alla fine dell’Ottocento, Brescia 1983, pp. 7-8, 12-14, 19-20, 55 n., 88-106; Id., Industria e società a Pordenone nel secondo Ottocento, in Trasformazioni economiche e sociali nel Veneto fra XIX e XX secolo. Atti del convegno, a cura di Antonio Lazzarini, Vicenza 1984, pp. 627-638; Giovanni Zalin, La tradizione e l’innovazione. Setificio e cotonificio in Friuli dalla dominazione veneta al secondo conflitto mondiale, «Nuova Rivista Storica», 5-6, 1986, pp. 573-577 (pp. 535-584); Id., Tra promozione esogena e iniziativa endogena. I distretti cotonieri del Friuli (1840-1929), in Le vie dell’industrializzazione europea. Sistemi a confronto, a cura di Giovanni Luigi Fontana, Bologna 1997, pp. 630-643 (pp. 621-681).
22. Giacomo Treves e Spiridione Papadopoli sottoscrissero per 390.000 lire austriache ciascuno; Giuseppe Reali, Giacomo Giorgio Levi e Sante Callegari per 315.000 ciascuno; Federico Oexle e Francesco Zucchelli per 150.000 ciascuno; Thomas Holme per 75.000 (A.S.V., Governo, 1835-1839, XXI 10/9). Due anni dopo fra i sottoscrittori di una protesta figurano Abram Errera con 310 azioni, Laudadio Gentilomo con 600, Jacob Levi e figli con 75, ecc.
23. Ivi, Presidio di Governo, 1840-1844, VII 6/1, carteggio settembre-dicembre 1841; Camera di commercio, bb. 144 IV/6, carteggio dicembre 1841-novembre 1842; 146 V/7, verbali dei congressi 5 aprile e 24 novembre 1842; 150 V/6, carteggio gennaio-novembre 1843; Presidio di Governo, 1840-1844, VIII 6/1, dicembre 1843; Camera di commercio, b. 157 V/7, verbale del congresso 4 dicembre 1843; Governo, 1840-1844, XLIII 9/3, atti e carteggio 1841-1844.
24. Ivi, Camera di commercio, bb. 162 IV/6, carteggio giugno-dicembre 1845; 169 IV/6, carteggio gennaio-ottobre 1846; 171 V/7, verbali dei congressi del 29 gennaio e 26 ottobre 1846; Presidio di Governo, 1845-1849, XIII 4/1, carteggio ottobre 1846-gennaio 1848; Camera di commercio, bb. 177 IV/7; 179 V/6, verbale del congresso del 22 febbraio 1847; Governo, 1845-1849, XLIX 2/21; Presidio di Governo, 1845-1849, XIII 4/1, atti e carteggio 1845-1848.
25. Adolfo Bernardello, Il molino a vapore di S. Girolamo a Venezia (1840-1870), «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze morali, lettere ed arti, 154, 1995-1996, pp. 257-290. Per le località di provenienza degli addetti al molino di S. Girolamo (da 30 a 100 persone), v. A.S.V., Governo Provvisorio, 1848-1849, b. 3, 4 aprile 1848.
26. Antonio Lazzarini, Fra terra e acqua. L’azienda risicola di una famiglia veneziana nel Delta del Po, I, Roma 1990, a cui si rinvia anche per la bibliografia, e Id., Fra tradizione e innovazione. Studi su agricoltura e società rurale nel Veneto dell’Ottocento, Milano 1998, in partic. alle pp. 11-76.
27. L. Bellicini, La costruzione, pp. 256-257; A. Lazzarini, Fra terra e acqua, pp. 91-92 e 114-115.
28. A.S.V., Commissione di sorveglianza alle Fabbriche ed Arti privilegiate nel Recinto del Portofranco di Venezia, b. 3.I.1-22, anno 1831. Per una bibliografia sull’argomento, che attende di essere studiato convenientemente, M. Costantini, Lineamenti di storiografia, p. 170 n.
29. Per la mancanza di registrazione dei dati sulla produzione e per la imprecisione delle statistiche, A.S.V., Commissione governativa di commercio, industria ed economia rurale, b. I/23, 16 giugno 1845; Camera di commercio, b. 336 IV/2, carteggio 23 marzo-20 giugno 1861. Secondo nostri calcoli, nel decennio 1831-1840 vennero introdotti da Venezia nel territorio doganale prodotti vetrari per una media annuale di 1.800.000-1.900.000 lire austriache. Ma le quote maggiori erano destinate all’estero (ivi, Commissione governativa di commercio, industria ed economia rurale, b. II/60, XXI-XXV-XXVI).
30. Ibid., b. II/39, carteggio luglio 1838-gennaio 1839; Governo, 1840-1844, XLIII 9/1, carteggio luglio 1838-luglio 1840. Le sette aziende sono Dalmistro Minerbi & C. (capitale monetario nel 1832, 600.000 lire austriache); Pietro Bigaglia q. Lorenzo (capitale fisso e circolante nel 1828, 500.000); F.lli Coen di Benedetto (capitale monetario nel 1826, 700.000); F.lli Giuseppe e Osvaldo Zecchin (?); Giovambattista Santi (?); Domenico Bussolin (?); Onorio Soardi (?).
31. Ivi, Camera di commercio, b. 119 V/7, carteggio 1838; Commissione governativa di commercio, industria ed economia rurale, b. V/6, 11 giugno 1842; Camera di commercio, bb. 144 III/9, 24 febbraio 1842; 161 III/9, 18 maggio 1845.
32. Ivi, Governo Provvisorio, 1848-1849, bb. 68, 16 gennaio 1849; 70, 23-24 gennaio 1849; 74, 12 e 17 febbraio 1849; 79, 16 marzo 1849.
33. Queste le ditte: Pietro Bigaglia, Dalmistro Errera & C., Giuseppe Zecchin, F.lli Coen di Benedetto, F.lli Dal Medico, Giuseppe Lazzari, Carlo Flantini. Per notizie su Bigaglia, Vincenzo Zanetti, La famiglia Bigaglia e i principali suoi rami. Studio storico, Venezia 1865 e Id., Discorso letto sul feretro del cav. Pietro Bigaglia nel tempio dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia, Venezia 1876.
34. Sui profitti v. A. Errera, Storia e statistica, pp. 186-187, valutazioni da assumere con molta cautela, anche se non è escluso che l’autore le abbia ricavate dall’azienda familiare; sulla produzione di conterie e perle a lume, ibid., p. 313; sulla produzione tra 1851 e 1863, dati raccolti in A.S.V., Commissione di sorveglianza alle Fabbriche ed Arti privilegiate nel Recinto del Portofranco di Venezia, bb. 56.VIII.12 e 56.VIII.15. Sul numero degli occupati nella società, forti divaricazioni fra i dati offerti da Errera e quelli (peraltro infidi) desumibili dalle fonti.
35. Carlo Moschini era un negoziante di olio e vino, con varie compartecipazioni azionarie in società, tra cui quelle di assicurazione. I Suppiej erano negozianti e commissionari.
36. Alla fine degli anni Sessanta i soci erano Bigaglia, Dalmistro, Errera, Coen, Flantini, Lazzari, Luigi Visentini, Samuele Scandiani mentre la Jacob Levi e figli era entrata come accomandante.
37. Per qualche dato in generale, Giovanni Zambon, Antonio Dalmistro primo deputato del Comune di Murano (1772-1847), Venezia 1994, pp. 15-23; Lelio Della Torre, Abram Errera-Venise, Venise 1861; Michel Dumoulin, Jacques Errera, un banquier vénitien à Bruxelles, «Rassegna Storica del Risorgimento», 83, 1986, pp. 267-279.
38. I Neville, ritenuti di origine tedesca da Sergio Barizza, Il ponte dell’Accademia. Una storia veneziana, «Venetica», 6, 1986, pp. 134-137 (pp. 128-150), risulterebbero invece nativi «della Contea di Essex in Inghilterra» (A.S.V., Notarile II serie, G. Bisacco, nr. 9773, 14 marzo 1853). Per alcune vicende, «Gazzetta Uffiziale di Venezia», 18 maggio 1855; 2 giugno 1856; 16 luglio 1856; per la produzione, A.S.V., Camera di commercio, bb. 336 IV/2; 337 V/6; 372 V/5; A. Errera, Storia e statistica, pp. 386-389. La società, liquidata nel 1905, venne rilevata dalla Savinem e trasferita alla Giudecca.
39. Per Collalto ingegnere della ferrovia, A. Bernardello, La prima ferrovia, ad vocem. Per la fonderia, che chiude nel 1869, v. anche A. Errera, Storia e statistica, p. 385. Dati incerti sulla produzione in A.S.V., Camera di commercio, bb. 297 IV/2; 312 IV/2; 336 IV/2, anni 1858-1860. Nel 1856 Collalto con Giacomo Karrer e Vittorio Benvenuti progetta una S.p.A. (capitale 15 milioni) per bonifiche con macchine a vapore (ibid., b. 277 V/1). Quanto alla ditta Antonio Giacomuzzi (fabbrica di acquavite, commercio di vini e liquori con nove punti vendita in città e appalti per forniture all’esercito), essa nel 1845 contava su un capitale di 1.040.049 lire austriache.
40. G. Zalin, Aspetti e problemi, pp. 187-200 (la citazione è a p. 195); M. Costantini, Dal porto franco, pp. 890-896. Gli altri dati e le citazioni da A.S.V., Camera di commercio, bb. 336 IV/26, 24 luglio e 14 dicembre 1859; 360 IV/14, 11 febbraio 1863; 360 IV/18, 12 febbraio 1863; 382 IV/18, 25 aprile 1865; 392 IV/2, 9 marzo 1866 (e non b. 381 IV/2 come erroneamente indicato da Zalin a p. 196).
41. Arrigo De Bocchi, Guida commerciale di Venezia per l’anno 1847, Venezia 1847, p. 215; Vittorio Mangiarotti, Guida commerciale di Venezia per l’anno 1869, Venezia 1869, p. 15.
42. Spiridione, alla sua morte, possedeva 156 azioni della Società Veneta per la ricerca ed escavo di prodotti minerali, 65 delle Assicurazioni Generali, 30 dello Stabilimento Mercantile, 200 del Cotonificio di Pordenone. Cenni biografici sui due Papadopoli in «Gazzetta Uffiziale di Venezia», 27 aprile 1859 e 20 marzo 1862.
43. I creditori di Raffael Vita, fallito nel 1840 e interdetto dai fratelli, dovevano spartirsi una sostanza costituita per il 53,57% da crediti e liquidità e per il 41,06% da immobili. Da notare il possesso di 300 azioni della ferrovia Zurigo-Basilea. Per dati biografici, v. In memoria di Giacomo Treves dei Bonfili, Venezia 1885. Per cenni sui Treves nel secolo XVIII, Jean Georgelin, Venise au siècle des lumières, Paris 1978, pp. 676-681; Giovanni Levi, I commerci della Casa Daniele Bonfil e figlio con Marsiglia e Costantinopoli (1773-1794), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 223-224 (pp. 223-243).
44. Su un patrimonio netto di lire italiane 2.177.325,02 (2.493.037,10 lire austriache), azioni e titoli pubblici incidevano per il 17,63%, crediti cambiari e ipotecari per il 40,20%, i beni immobili per il 30,85%, livelli e decime per il 6,27%, ecc.
45. D.S. Landes, Prometeo liberato, p. 268.
46. A.S.V., Governo Provvisorio, 1848-1849, bb. 9, 10 aprile 1848; 805; 809; «L’Avvisatore Mercantile», 27 gennaio 1849; 4 ottobre 1851; 12 maggio 1852; A.S.V., Presidenza della Luogotenenza veneta, 1857-1861, XVI 3/1, b. 474, 20 aprile 1857; Camera di commercio, b. 221 V/7, carteggio 7 luglio-9 settembre 1851.
47. «L’Avvisatore Mercantile», 26 maggio 1852; 2 e 5 giugno 1852; 1° e 22 dicembre 1852; A.S.V., Presidenza della Luogotenenza veneta, 1852-1856, XI 4/4, b. 253, 15 maggio 1852 e 4 marzo 1853; Camera di commercio, bb. 230 IV/26, carteggio maggio-giugno 1852; 244 IV/26, 4 maggio 1852.
48. A.S.V., Luogotenenza, 1862-1866, 39 10/2, b. 1545, 16 giugno 1862, relazione della direzione; qualche cenno in G. Luzzatto, L’economia, p. 276; la ricostruzione di Tullio Bagiotti, Venezia da modello a problema, Venezia 1972, priva di qualsiasi documentazione, non risulta molto precisa (pp. 60-68).
49. I direttori erano Giovanni Karrer, Luigi Ivancich, Angelo Levi della casa Jacob Levi e figli, Abramo Errera. Per gli sconti, «L’Avvisatore Mercantile», dal 27 luglio 1853 all’11 marzo 1854. Mentre secondo E. Morpurgo, Saggi statistici, p. 323, il tasso di sconto si mantenne a Venezia sempre al di sotto del 4,5-5%, da una stima grossolana si ricaverebbe una media appena inferiore al 6% fra 1853 e 1857, con una caduta al 4,5% nel 1858 («L’Avvisatore Mercantile», 1853-1857; A.S.V., Camera di commercio, b. 297 IV/2, 3 aprile-7 ottobre 1858). Per una ricostruzione dei tassi ufficiali di interesse nel secolo XIX, Sidney Homer-Richard Sylla, Storia dei tassi di interesse, Roma-Bari 1995.
50. Nell’ordine delle citazioni: «L’Avvisatore Mercantile», 10 giugno-27 maggio-2 settembre 1854; «Gazzetta Uffiziale di Venezia», 27 settembre-27 ottobre-3 novembre-10 novembre 1855; «L’Avvisatore Mercantile», 8 febbraio-10 febbraio 1854.
51. A.S.V., Camera di commercio, b. 325 IV/26, anno 1855; Presidenza della Luogotenenza veneta, 1852-1856, XI 4/26, b. 257, 25 agosto 1856; Camera di commercio, b. 276 IV/26, anno 1856. Il programma del congresso del 25 agosto 1856 prevedeva anche lo sconto di cambiali di azionisti non residenti a Venezia e di ditte veneziane su altre piazze. Non si sa se ciò sia stato approvato o meno.
52. Ivi, Presidenza della Luogotenenza veneta, 1857-1861, XVI 3/1, b. 474, carteggio ottobre 1856-maggio 1857 (in partic. verbale del congresso del 20 aprile 1857 e rapporto della direzione del 12 maggio 1857); 1852-1856, XI 4/28, b. 257, carteggio 18 novembre-7 dicembre 1856.
53. Ivi, Camera di commercio, b. 287 IV/26, 28 dicembre 1857; Luogotenenza, 1857-1861, XVI 10/2, b. 750, congresso dell’11 gennaio 1858; Presidenza della Luogotenenza veneta, 1857-1861, XVI 3/1, b. 474, carteggio 20 gennaio 1858-29 dicembre 1859; Camera di commercio, b. 336 IV/26, verbali della commissione di sorveglianza 15 luglio-3 ottobre 1861; Luogotenenza, 1862-1866, 39 10/2, b. 1545, 3 luglio 1862.
54. Ivi, Luogotenenza, verbale del congresso del 16 giugno 1862 e carteggio luglio-settembre 1862.
55. Ibid., verbale del congresso del 24 ottobre 1864 e carteggio a tutto novembre 1865; Camera di commercio, bb. 382 IV/26, 23 ottobre 1865; 393 IV/26, 18 maggio 1866. Per la fusione con la Banca Nazionale ecc., ibid., bb. 393 IV/26, carteggio 30 novembre-11 dicembre 1866; 403 IV/26, carteggio 8 febbraio-16 aprile 1867; T. Bagiotti, Venezia, pp. 65-67.
56. A.S.V., Camera di commercio, b. 287 IV/26, 28 dicembre 1857; sui limiti operativi dello Stabilimento, pareri diversi esprimono E. Morpurgo, Saggi statistici, pp. 342-345 e A. Errera, Storia e statistica, pp. 160-163.
57. A.S.V., Presidenza della Luogotenenza veneta, 1857-1861, XVI 3/1, b. 474, verbale del congresso del 20 aprile 1857; Luogotenenza, 1862-1866, 39 10/2, b. 1545, verbali dei congressi del 16 giugno 1862 e del 24 ottobre 1864. Rispetto alla popolazione complessiva la comunità ebraica oscilla fra l’1,64% nel 1857-1858 e l’1,86% nel 1865. In generale, Marino Berengo, Gli ebrei veneti nelle inchieste austriache della Restaurazione, «Michael», 1, 1972, pp. 9-37; Id., Gli ebrei dell’Italia asburgica nell’età della Restaurazione, «Italia», 6, 1987, nrr. 1-2, pp. 62-103; Id., Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, in Italia Judaica, III, Roma 1989, pp. 9-30. Per la casa Jacob Levi e figli, Venezia, Fondazione Ugo e Olga Levi, Fondo Levi, Maestro Monti, 1857-1858.
58. A.S.V., Camera di commercio, b. 155 IV/6, maggio 1844; Presidio di Governo, 1840-1844, I 19/132, b. 1054, rapporto della direzione di polizia, 30 gennaio 1844; Presidenza della Luogotenenza veneta, 1849-1851, V/16, b. 61, relazione di Guido Avesani, 6 ottobre 1851.
59. Adolfo Bernardello, L’Albergo Reale Danieli: proprietà e gestione (1824-1873), «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze morali, lettere ed arti, 152, 1993-1994, pp. 351-370.
60. A. De Bocchi, Guida commerciale (ediz. 1847; 1848; 1853), enumera 51 esercizi e 113 alloggi privati; V. Mangiarotti, Guida commerciale, enumera 25 alberghi principali. A.S.V., Camera di commercio, bb. 268 V/6, 14 giugno 1855; 372 V/5, 3 marzo 1864. Rari i dati sul personale degli alberghi: nel maggio del 1848, ma è un evento eccezionale, per 116 coperti il Danieli impiega 32 camerieri; sempre nel 1848 l’Hotel Europa, aperto nel 1818 dal francese Rinaldo Marseille, dispone di 18 dipendenti, per metà camerieri (ivi, Governo Provvisorio, 1848-1849, b. 17, 22 maggio 1848; Polizia del sestiere di S. Marco, b. 5, 17 gennaio 1848).
61. «Gazzetta Uffiziale di Venezia», 15 luglio 1856.
62. A.S.V., Camera di commercio, bb. 94 III/1, anno 1834; 100 III/1, anno 1835; 105 III/1, anno 1836; 277 V/5, 31 maggio 1856; «Gazzetta Uffiziale di Venezia», 11 maggio-20 maggio-4 giugno 1855; 8 maggio-31 maggio-8 giugno-15 luglio 1856. L’Hotel Regina d’Inghilterra di 690 mq è venduto per 180.000 lire austriache. Francesco Da Camino, Venezia e i suoi bagni, Venezia 1858, enumera dieci stabilimenti con le loro tariffe (pp. 27-29); Alvise Zorzi, Venezia austriaca 1798-1866, Roma-Bari 1985, pp. 65 e 109-110.
63. Per il trasporto dei viaggiatori, Adolfo Bernardello, La ferrovia e i traghetti. Gondolieri, barcaioli e remiganti nella Venezia di metà Ottocento, «Venetica», 3, 1985, pp. 93-99, ora in Id., Veneti sotto l’Austria, pp. 43-52 e parzialmente modificato in Id., La prima ferrovia, pp. 374-382. Su Fisola v. Riccardo Vianello, Sacca Fisola. Origini, storia e toponomastica, Venezia 1987, pp. 43-47; Andrea Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi. La società veneziana nell’Ottocento asburgico, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 189-191 (pp. 169-194).
64. La donna della «trabacca» è Margherita Canzich Valdevit; A.S.V., Camera di commercio, b. 429 V/5, 14 settembre 1869; Memoria intorno alle condizioni geologiche e fisico-mediche della stazione balneare marittima di Lido, Venezia 1857, ripresa poi con Il grande Stabilimento balneario sulla spiaggia dell’Adriatico presso Venezia a S. Maria Elisabetta del Lido del sig. Giovanni Fisola. Cenni fisico-medici e condizioni geologiche locali, Venezia 1868; A. Bernardello, L’Albergo Reale, pp. 367-368.