Ingegneria genetica
La locuzione ingegneria genetica indica l'insieme delle tecnologie che permettono le manipolazioni in vitro di molecole del DNA, in modo da provocare un cambiamento diretto e predeterminato nel genotipo di un organismo. Per descrivere questo insieme di tecnologie sono utilizzati anche altri termini, come clonaggio genico (o clonazione), DNA ricombinante, manipolazioni genetiche. Con 'nuova genetica' si indicano invece i problemi etici, sociali e filosofici scaturiti dalla genetica moderna, destinati ad aumentare con la progressiva complessità delle tecnologie di ingegneria genetica. L'uso di piante e animali transgenici, la terapia genica, lo studio del genoma umano, derivanti dall'applicazione dell'ingegneria genetica, a causa delle loro ampie implicazioni di carattere etico, non riguardano più solo gli ambienti scientifici ma l'intera umanità.
Alla base dell'ingegneria genetica vi è la possibilità di isolare e amplificare un singolo gene o una sequenza specifica di DNA dal genoma totale. Tale procedimento, detto clonazione, applicato al DNA, consiste nel produrre una quantità notevole di cloni delle sue molecole, virtualmente senza limiti (si definisce clone un numero elevato di cellule o di molecole del tutto identiche a una cellula o a una molecola di origine ancestrale). A fondamento della clonazione del DNA vi sono quattro elementi essenziali: 1) un metodo per rompere e riunire molecole di DNA derivanti da cellule diverse; 2) un opportuno vettore (o molecola trasportatrice) capace di replicare sé stesso e il frammento di DNA a esso legato; 3) un metodo per introdurre questa molecola di DNA ibrido, o chimera, in una cellula batterica; 4) un metodo per selezionare da una larga popolazione di cellule un clone della cellula recipiente che ha acquisito la sequenza chimerica. Attualmente si è raggiunta la capacità di frammentare e riunire molecole di DNA grazie alla scoperta, avvenuta tra gli anni 1967 e 1970, di due classi di enzimi, le DNA ligasi e le endonucleasi di restrizione batteriche, che hanno permesso lo sviluppo dell'ingegneria genetica. L'enzima DNA ligasi, individuato nel 1967, può saldare molecole di DNA, un prerequisito per la costruzione di molecole ricombinanti. Il primo degli enzimi di restrizione fu scoperto nel 1970. Gli enzimi di questo tipo possono essere considerati come delle forbici molecolari: ciascuna di queste molecole taglia il DNA in un sito specifico, definito da una sequenza di quattro o più nucleotidi. Tali sostanze sono prodotte da molti batteri che le utilizzano per difendersi dai virus, in quanto inattivano, frammentandolo, il DNA virale. Sono state attualmente purificate più di 100 endonucleasi di restrizione da varie specie di batteri, la maggior parte delle quali riconosce sequenze nucleotidiche diverse e viene quindi impiegata per frammentare il DNA isolato da una cellula o campione biologico, in siti altamente specifici. Le endonucleasi di restrizione e le DNA ligasi sono usate insieme per costruire in vitro molecole di DNA ricombinante, in cui il gene o i frammenti di DNA desiderati sono inseriti in un vettore generalmente batterico o virale, il quale ha la funzione di trasferire le sequenze estranee nella cellula ospite dove possono essere replicate in vivo. Per funzionare come vettore, una molecola deve essere capace di penetrare nella cellula ospite e, una volta penetrata, di replicare liberamente e di passare nelle cellule figlie durante il processo di riproduzione cellulare. La cellula ospite normalmente utilizzata è Escherichia coli, un batterio capace di moltiplicarsi velocemente, in modo che un frammento raro di DNA dell'organismo in osservazione possa essere isolato e prodotto in quantità tali da permetterne ulteriori analisi. In natura esistono molecole di DNA (tra le quali i plasmidi) che possiedono caratteristiche tali da renderle adatte a questo impiego. Il plasmide è una piccola molecola di DNA circolare, che si trova in Escherichia coli e in altri batteri, separata e autonoma dal DNA cromosomico, capace di replicarsi e di passare nella cellula figlia insieme al cromosoma. Il plasmide porta inoltre uno o più geni che conferiscono la resistenza a un antibiotico e che permettono di selezionare le cellule ospiti, le quali hanno incorporato il DNA ricombinante. Una delle più semplici strategie di clonazione consiste nel tagliare tanto il DNA da clonare quanto il plasmide con uno stesso enzima di restrizione che lasci delle estremità asimmetriche. Tali estremità vengono anche dette estremità coesive, perché ciascuna di esse può formare basi complementari con qualunque coppia di frammenti di DNA avente le stesse estremità coesive. Impiegando il medesimo enzima di restrizione, sia i frammenti del DNA sia quelli del plasmide avranno delle code a singola elica che permetteranno loro di appaiarsi, almeno in parte, una volta mescolati e messi a reagire insieme. Successivamente, l'enzima ligasi salderà la soluzione di continuità tra vettore e frammento di DNA, e alla fine di questa operazione si avrà una popolazione di molecole ricombinanti, ciascuna contenente un differente frammento di DNA, che sarà utilizzata per trasformare cellule batteriche. Per aumentare il numero di batteri trasformati si usano spesso trattamenti con sali di calcio, al fine di rendere la loro membrana più permeabile. È possibile poi selezionare i batteri che contengono il DNA estraneo, mettendo un opportuno antibiotico (per es. tetraciclina) nel mezzo di coltura, così che solamente i batteri ricombinanti potranno crescere in presenza di antibiotico. L'efficienza di trasformazione è bassa e questo assicura l'entrata di un solo plasmide in ciascuna cellula batterica, che darà luogo a colonie clonali contenenti tutte lo stesso tipo di plasmide, in modo tale che non possano prodursi colonie miste e che ciascuna cellula possa dare origine a un clone se fatta crescere in terreno solido (agar). Tale meccanismo è inoltre facilitato dal fatto che le cellule batteriche sono caratterizzate da un ciclo riproduttivo molto veloce (1X109 batteri possono crescere in 1 ml di mezzo di coltura nel corso della notte, ciascuno con il gene desiderato). Il DNA clonato può essere isolato attraverso passaggi successivi, consistenti nella rottura (lisi) delle cellule batteriche e nella separazione del DNA mediante centrifugazione. L'identificazione e l'isolamento del gene specifico richiedono metodi basati essenzialmente sull'uso di sonde molecolari rese radioattive o fluorescenti, costituite da una sequenza di nucleotidi complementari a una parte del frammento di DNA che si vuole isolare. In condizioni opportune la sonda si legherà soltanto al frammento clonato complementare, che potrà così essere analizzato nella sua struttura.
Come si è detto in precedenza, se si isola e si digerisce con una particolare endonucleasi di restrizione il DNA isolato da un certo organismo, organo, tessuto o tipo cellulare, si ottiene un discreto numero di frammenti, che possono essere inseriti in un vettore tagliato con la stessa endonucleasi e quindi clonati. Con tale tecnica è possibile, dunque, creare delle librerie genomiche o genoteche. Per clonare piccoli frammenti di DNA (fino a 4000 nucleotidi) si usano in genere dei vettori plasmidici, ma se si vogliono clonare frammenti più lunghi (fino a 40.000 nucleotidi) è preferibile utilizzare altri tipi di vettori, come il batteriofago lambda (virus capace di infettare un batterio) oppure i cosmidi (ibridi che contengono sequenze sia di plasmide sia del fago lambda, combinando in tal modo i vantaggi dei due tipi di vettori). Più recentemente sono stati adoperati anche vettori ottenuti da lieviti. Attualmente esistono librerie genomiche di moltissime specie, tra cui l'uomo; queste ultime sono state utilizzate come fonte per lo studio del genoma umano. Le cDNAteche sono invece collezioni di cloni di cDNA (DNA complementari sintetizzati mediante l'uso dell'enzima trascrittasi inversa a partire da una popolazione eterogenea di mRNA o RNA messaggeri) inseriti in un opportuno vettore, generalmente plasmidico. Le librerie di cDNA hanno per molti aspetti dei vantaggi rispetto alle genomiche, in quanto contengono sequenze geniche specifiche del tipo di cellula o tessuto o relative a un certo stadio di sviluppo, da cui è stato estratto l'mRNA. In questo modo si possono isolare i geni specifici di un certo tipo di cellule e di un certo stadio di sviluppo solo sulla base della loro espressione. Oltre a produrre copie di geni per una dettagliata analisi molecolare, la tecnologia del DNA ricombinante ha permesso anche la costruzione di cDNAteche di espressione. In questo caso il cDNA è inserito in un vettore di espressione, un vettore derivato da un plasmide o da un batteriofago, con sequenze regolatrici le quali fanno sì che il cDNA possa produrre nella cellula ospite la proteina da esso codificata. In questo modo i batteri vengono utilizzati per la sintesi e la purificazione di proteine a partire da geni clonati. Quest'ultimo procedimento rappresenta uno degli aspetti più importanti dell'ingegneria genetica, con potenziale applicazione in medicina, in quanto il batterio ingegnerizzato può essere utilizzato per produrre proteine terapeutiche. L'insulina, l'ormone della crescita, l'interferone, le β-endorfine, il fattore VIII della coagulazione, sono alcune delle proteine sintetizzate nel batterio Escherichia coli. Le proteine sintetizzate attraverso il DNA ricombinante vengono chiamate proteine ricombinanti per distinguerle da quelle che si riscontrano direttamente in natura. Recentemente si utilizzano come ospiti anche cellule eucariotiche per esprimere geni esogeni: microrganismi come funghi e lieviti comportano meno problemi nel far esprimere geni animali e far produrre le proteine da essi codificate. Le interleuchine, le proteine quali l'antigene di superficie del virus responsabile per l'epatite B, gli interferoni e l'attivatore del plasminogeno sono stati sintetizzati in questo modo. Il fattore VIII, la proteina sierica deficiente in individui affetti da emofilia, è stato prodotto da cellule ingegnerizzate di criceto. Centinaia di enzimi, ormoni, proteine virali, fattori plasmatici, proteine cellulari di origine batterica o eucariotica sono a tutt'oggi disponibili in commercio a scopo di ricerca (v. biotecnologie). Soltanto alcuni di questi sono impiegati come farmaci e vaccini anche nell'uomo e negli animali, in quanto in tali casi devono essere ottimizzati due aspetti fondamentali: la biologia del sistema e il prodotto ottenuto.
L'ingegneria genetica, che da una parte ha permesso un'analisi dei geni in termini di struttura e funzione e dall'altra la produzione di proteine ricombinanti, ha avuto ricadute enormi anche in altri campi, come quello delle biotecnologie, con la produzione di piante e animali transgenici, cioè piante o animali in cui è stato introdotto un gene da un'altra specie, il transgene. La produzione di organismi transgenici comporta un'alterazione del patrimonio genico di un individuo, con tutti i problemi sociali, etici e filosofici connessi con la produzione di nuove forme di vita. Inoltre, difficoltà di ordine tecnico e scientifico derivano dalla complessità del genoma e dalle modalità di sviluppo di piante e di animali, processi non del tutto compresi al momento attuale. Nonostante ciò, metodi per la produzione di piante e animali transgenici, basati su trasferimento genico, sono ormai ben consolidati. Da moltissimi anni gli agricoltori manipolano geneticamente le piante attraverso incroci selettivi, possibili però soltanto tra piante strettamente correlate, cioè sessualmente compatibili. L'ingegneria genetica permette invece di produrre piante trasformate senza alcun limite, se non quello di introdurre il DNA esogeno nel genoma della pianta, in modo che sia espresso in quantità appropriate e nel tipo cellulare richiesto. Questo richiede, oltre a un efficiente metodo di trasferimento genico, un'approfondita conoscenza della genetica molecolare del sistema che si sta modificando. I metodi di trasferimento genico possono essere di vario tipo. I metodi fisici consistono in un trasferimento diretto, attraverso microiniezione di DNA, sia nei protoplasti (cellule a cui è stata rimossa la parete cellulare per renderle più permeabili) sia nei tessuti della linea germinale, o attraverso bombardamento di DNA rivestito da particelle di tungsteno. Tra i metodi biologici, invece, vi è l'uso di un derivato del plasmide Ti di Agrobacterium tumefaciens, batterio patogeno presente nel suolo, che induce tumore nelle piante attraverso il plasmide Ti. Parte delle sequenze geniche del plasmide Ti, non essenziali per la trasformazione, viene sostituita con il nuovo gene che si vuole inserire nella pianta e con un gene marcatore per un antibiotico, allo scopo di poter selezionare i plasmidi ricombinanti. Questi ultimi verranno poi messi a contatto con i tessuti della pianta che si vuole rigenerare, in modo che questa possa crescere con il nuovo gene. Con tali metodi sono state ottenute piante resistenti a erbicidi, virus, insetti.
Numerosi progressi sono stati ottenuti in piante 'ingegnerizzate' rispetto alla tolleranza a freddo e siccità o alla capacità di riprodursi in terreni contaminati da acque salate o marine. Inattivando in parte due geni responsabili della maturazione dei pomodori è stato possibile regolarne la maturazione e prolungarne la conservazione. Si sono poi ottenuti vegetali, frutta e piante, in cui è stato ingegnerizzato il processo della biosintesi del pigmento, al fine di modificarne il colore e renderli più gradevoli per il consumatore. Anche in questo campo, naturalmente, c'è molta preoccupazione per il possibile effetto ecologico, dovuto al rilascio di organismi geneticamente modificati nell'ambiente. Non si può escludere che nel tempo una sia pur piccolissima alterazione nell'equilibrio di un ecosistema, causata da una pianta più vigorosa o resistente a una certa malattia, possa provocare un effetto devastante. Tuttavia, se è vero che in tutto il mondo dal 1986 a fine secolo sono stati prodotti in grande quantità piante, batteri, virus e animali geneticamente modificati, tale produzione è avvenuta in ambienti molto circoscritti, e solo una piccolissima parte di questi sono stati rilasciati in ambienti naturali, senza però arrecare alcun danno all'ecosistema. Già dagli esordi dell'ingegneria genetica gli scienziati si erano resi conto che la sperimentazione della clonazione, con la produzione di nuove combinazioni geniche, avrebbe potuto dar luogo a eventuali rischi biologici. Proprio per questo motivo, nel 1975, fu tenuta una conferenza ad Asilomar, in California, alla quale furono invitati scienziati da tutte le parti del mondo e anche esperti nel campo dell'etica e della giurisprudenza. Alla fine della conferenza, che venne aperta anche alla stampa, furono stilate le linee guida per evitare potenziali rischi ambientali. In pratica è stata indicata una serie di precauzioni, sia biologiche sia fisiche, per evitare il disperdersi di qualsiasi organismo pericoloso nell'ambiente. La produzione di animali transgenici rappresenta uno degli aspetti ancora più complessi dell'ingegneria genetica, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche etico, in quanto vede coinvolti non organismi quali batteri o funghi o piante, ma animali. A questo proposito, nel 1992, sono state stabilite nuove regole per il rilascio di organismi geneticamente ingegnerizzati nell'ambiente e il problema è continuamente dibattuto sia a livello scientifico sia dai media e dal pubblico in generale.
Come per le piante, la creazione di animali transgenici è basata sulla capacità di poter introdurre materiale genetico nuovo nella linea germinale. Le tecniche di trasferimento più utilizzate sono principalmente tre: 1) integrazione di vettori retrovirali (vettori ottenuti da virus con RNA come materiale genetico) con il gene esogeno in embrioni in stadi precoci dell'embriogenesi; 2) microiniezione del DNA in uova fecondate di mammifero (essenzialmente topi), successivamente trasferite nell'utero di topine recipienti pseudogravide, dove avviene l'impianto e, quindi, lo sviluppo dell'embrione; 3) incorporazione di cellule staminali embrionali in embrioni allo stadio primitivo di sviluppo. I topi nati da questi tipi di esperimenti non solo esprimono il prodotto del gene introdotto, ma sono in grado di trasmettere il nuovo gene alla loro discendenza. Agli inizi degli anni Ottanta del 20° secolo, l'introduzione del gene dell'ormone della crescita nel pronucleo di uova fecondate di topo ha portato allo sviluppo di topi di taglia due volte maggiore rispetto a quelli normali. Analogo esperimento nei maiali ha dato luogo ad animali più grandi, con livelli minori di grasso subcutaneo, ma con cuore di dimensioni maggiori ed elevata incidenza di dermatiti, malattie renali, ulcere allo stomaco. Prima di poter applicare come prassi di routine questa tecnologia nella zootecnica è evidente che dovranno essere svolti studi più approfonditi sull'argomento, ma ciò nonostante la tecnologia degli animali transgenici ha permesso di chiarire molti aspetti dell'embriogenesi e della struttura ed espressione genica in cellule animali. L'uso di interi organismi per la produzione di proteine ricombinanti è un altro aspetto da considerare. Mediante l'uso di un promotore (sequenza regolatrice) di un gene specifico per le proteine del latte è stato possibile far secernere nel latte di pecore transgeniche il fattore IX umano, uno dei fattori responsabili della coagulazione del sangue. Con lo stesso promotore è stato possibile ottenere un'altra proteina umana, l'attivatore tessutale del plasminogeno (t-PA, Tissue plasminogen activator) in topi transgenici, aprendo quindi la possibilità di utilizzare gli animali transgenici e non solo i batteri o i lieviti per la produzione di proteine ricombinanti.
Altra importante ricaduta dell'ingegneria genetica è quella riguardante il campo medico, grazie alle nuove possibilità offerte da diagnosi molecolare, screening genico, mappatura genica, applicazioni nel campo della medicina forense, trattamento di alcune malattie nell'uomo attraverso la terapia genica. Oltre ad aver ottenuto, come si è accennato in precedenza, proteine terapeutiche, per es. interferone, insulina, fattore VIII e proteine di tipo batterico, virale e di parassiti, da utilizzare come vaccini, ne sono stati sviluppati altri in cui il gene per l'antigene in questione è incorporato in un vettore virale del tipo dei Vacciniavirus; ciò consente di evitare tutti i possibili problemi che sono connessi con l'utilizzazione di ceppi virali integri, sia pur attenuati. Infatti, i vaccini prodotti in questo modo sono del tutto innocui, poiché solamente un piccolo frammento del DNA del virus associato alla malattia è introdotto attraverso ricombinazione genica nei Vacciniavirus. Ma è nel campo della diagnosi delle malattie genetiche che si sono avuti i risultati più apprezzabili e rivoluzionari. Le cause di malattie ereditarie dovute al difetto di un singolo gene sono ormai studiate più facilmente attraverso la localizzazione (mappatura) e l'identificazione del gene, piuttosto che tramite l'identificazione della proteina alterata (in molti casi ancora sconosciuta) che esso produce nello stato morboso. Un importante sviluppo nella mappatura dei geni è stato ottenuto con l'uso dei polimorfismi di restrizione presenti nel DNA umano, non solo all'interno dei geni, ma anche in sequenze apparentemente non funzionali. Questi polimorfismi possono essere messi in evidenza in vari modi, per es. mediante l'assenza o l'introduzione di un sito di restrizione (un sito in cui un particolare enzima produce un taglio), che porta a una variabilità nella lunghezza dei frammenti originati da un particolare enzima nei differenti individui. Un determinato enzima di restrizione produce in genere frammenti che sono uguali in tutti gli individui, pur tuttavia persone diverse possono presentare occasionalmente delle diseguaglianze nella lunghezza di frammenti specifici. Ciò è dovuto al fatto che nella molecola del DNA può verificarsi la mutazione di una singola base, che produce un cambiamento o la rimozione di un sito di restrizione. Queste variazioni, note appunto come polimorfismi nella lunghezza di frammenti di restrizione (RFLP, Restriction fragment length polymorphism), sono ereditarie e costituiscono dei marcatori genici che possono essere utilizzati per identificare geni mutati a cui sono legate, attraverso una sonda molecolare che ibridizza con la regione interessata (metodo di Southern). Questo approccio ha permesso di mappare dei geni sui vari cromosomi, come i geni responsabili della fibrosi cistica (cromosoma 7), dell'anemia falciforme (cromosoma 11), del morbo di Alzheimer (cromosoma 21), dell'acondroplasia (cromosoma 4). Oltre all'analisi dell'RFLP, se si conosce il difetto genico della malattia è possibile sintetizzare in vitro piccole sequenze di DNA (oligonucleotidi) da usare come sonde per evidenziare mutazioni geniche. Una conoscenza di tutto il complesso dei geni umani aumenterebbe enormemente la possibilità sia di una diagnosi, e quindi del possibile trattamento delle malattie, sia della comprensione dei processi biologici. Con questo scopo è nato, nella metà degli anni Ottanta, il Progetto genoma umano, un ricerca a scala internazionale, diretta dal premio Nobel R. Dulbecco, che prevede di localizzare e quindi sequenziare tutti i geni compresi nelle 23 coppie di cromosomi del genoma umano. Questi obiettivi dovrebbero essere raggiunti nell'anno 2005. Le informazioni generate da questo progetto saranno di grandissima utilità in molti campi della scienza e della medicina, anche se vi sono timori che vengano utilizzate per quella che si potrebbe chiamare discriminazione genetica. Prima di tutto è necessario valutare chi debba avere accesso all'informazione che deriva dal progetto: da una parte, infatti, deve essere protetto il diritto alla riservatezza della vita privata di ciascuno, dall'altra l'informazione deve essere liberamente disponibile per chi ne ha bisogno. A questo proposito l'organizzazione internazionale HUGO (Human genome organization) sta prendendo iniziative per discutere gli aspetti sociali, morali, legali ed etici che sorgono dal progetto. Un impatto decisamente positivo della manipolazione genetica si è avuto nel campo della medicina legale e dei saggi sulla paternità. Attraverso lo studio delle regioni del genoma che contengono siti polimorfici, noti come regioni ipervariabili, è possibile costruire dei fingerprints (impronte digitali) genetici. Dall'analisi di questi si riesce così a identificare, mediante campioni di sangue, liquido seminale o bulbi capilliferi, individui sospetti. In casi di paternità incerta il fingerprint può fornire un'assoluta certezza sulle relazioni familiari, in quanto le bande generate digerendo il DNA con enzimi di restrizione sono ereditate per ciascun individuo dal padre o dalla madre.
La conoscenza del difetto genetico alla base di una malattia consente da una parte, come si è detto prima, una precoce diagnosi molecolare e dall'altra offre nuove possibilità di curare il paziente. Il gene difettoso o mancante può in teoria essere sostituito con una sua copia funzionale espressa in maniera corretta e in questo modo la malattia può essere curata. Alternativamente, l'introduzione di un gene può fornire alla cellula bersaglio una nuova funzione terapeutica, inducendo una cura oppure un miglioramento della sintomatologia. Terapia genica è la locuzione usata per descrivere la correzione di una malattia attraverso la manipolazione genetica. La terapia genica somatica riguarda l'inserzione di un gene, cioè di un frammento di DNA, allo scopo di eliminare o ridurre difetti molecolari a livello delle cellule somatiche con effetti limitati all'individuo (per es. tumori). La terapia genica germinale, invece, mira a correggere difetti genici in cellule della linea germinale con effetto sulla discendenza. Tale tecnica, però, è oggi improponibile da un punto di vista etico, giuridico e scientifico, perché va a ledere un principio etico fondamentale, quello dell'intangibilità del patrimonio genetico di un soggetto. Dal punto di vista scientifico, inoltre, mancano allo stato attuale le basi concettuali e tecniche per prevedere gli effetti di una terapia genica germinale sullo sviluppo dell'individuo e della sua discendenza. Al contrario della terapia genica germinale, la terapia genica somatica ha raccolto negli anni passati un largo consenso non solo presso la comunità scientifica medica, ma anche presso quella pubblica e, recentemente, è diventata una realtà terapeutica. Il successo in campo clinico dipende dallo sviluppo di nuove tecnologie di trasferimento genico e dalla stretta interazione tra svariate discipline nel campo dell'indagine scientifica. Le metodologie utilizzate per effettuare la terapia genica somatica prevedono due tipi di interventi: 1) ex vivo, in cui le cellule proliferanti del paziente affetto vengono espiantate e successivamente reimpiantate dopo avervi introdotto il gene normale; 2) in vivo, in cui il materiale genico è trasferito, attraverso un vettore, direttamente alle cellule oppure ai tessuti del paziente. La scelta dell'uno o dell'altro metodo è dettata dalla valutazione complessiva di elementi quali l'obiettivo terapeutico da raggiungere, l'applicazione clinica, i requisiti di sicurezza, efficienza ed economicità e, infine, la metodologia usata per il trasferimento genico. Sono attualmente disponibili diversi metodi di trasferimento genico che fanno uso di agenti meccanici, fisici o biologici; alcuni conducono all'inserzione permanente del gene esogeno nelle cellule bersaglio, mentre altri sono disegnati per esprimere un prodotto terapeutico con vita media e durata d'azione ben definiti. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di stabilire un'espressione 'sito-specifica' e regolata del prodotto terapeutico. Attualmente, per effettuare il trasferimento genico, vengono principalmente impiegati sia vettori virali, resi difettivi o attenuati (Retrovirus, Adenovirus, adeno-associati, Herpesvirus), sia vettori non virali, essenzialmente liposomi, DNA complessati a ligandi (ormoni oppure fattori di crescita) recettoriali, DNA plasmidico 'nudo'. Ognuno di questi approcci presenta vantaggi specifici rispetto ad altri e l'utilizzo dell'uno o dell'altro dipende dall'effetto terapeutico che si vuole raggiungere e dalla valutazione del rischio/beneficio, sia a livello del singolo paziente sia del personale specializzato, della popolazione e dell'ambiente in generale.
Come nel caso degli animali e delle piante transgeniche, il ricorso alla terapia genica genera problemi di natura scientifica, etica e socioeconomica; per tale motivo sono stati formulati alcuni criteri generali al fine di sviluppare un protocollo di terapia genica somatica che comprenda numerosi aspetti: tra questi, l'identificazione della patogenesi molecolare della malattia, del gene codificante per la proteina terapeutica, della cellula bersaglio, oltre allo sviluppo di un sistema con cui trasferire il gene nel nucleo della cellula bersaglio e farlo esprimere in maniera efficiente e, infine, la caratterizzazione della funzione e dell'effetto farmacologico terapeutico in modelli animali. Inoltre sono necessarie la dimostrazione dell'efficacia terapeutica e della sicurezza nei trials clinici, l'approvazione dei comitati competenti, il consenso clinico, nonché quello dei pazienti e dei loro familiari. Per l'approvazione dei protocolli sarà considerato il reale beneficio derivante dal ricorso alla terapia genica solo in virtù di un'attenta e onesta valutazione di tre requisiti fondamentali: efficienza, sicurezza, economicità. Fino a oggi, seguendo questi criteri, sono stati approvati più di cento protocolli di terapia genica somatica, cui vanno aggiunti numerosi altri in via di definizione. Un risultato estremamente positivo, se si pensa che il primo protocollo, riguardante una rara malattia che procura immunodeficienza, è stato approvato e applicato nel 1990. Molti dei protocolli sono applicati al cancro e riguardano tumori considerati incurabili, in cui la sopravvivenza del paziente è valutata nell'ordine di settimane o mesi. Allo stato attuale, il principale fattore limitante nell'applicazione della terapia genica a qualsiasi tipo di malattia umana dipende esclusivamente dalla mancanza di un efficiente metodo di trasferimento genico in situ e dallo sviluppo di strategie che permettano di trasferire i geni a un numero di cellule sufficientemente grande da indurre la regressione completa del tumore o il ristabilirsi della salute 'genetica'. Una volta che questi ostacoli saranno rimossi, la terapia genica potrà diventare un trattamento standard sia nella pratica oncologica sia in quella clinica.
e. boncinelli, a. simeone, Ingegneria genetica, Napoli, Idelson, 1991.
DNA cloning, ed. B.D. Hames, D. Glover, Oxford, IRL Press, 1995.
j.r.s. fincham, j.r. ravetz, Genetically engineered organisms. Benefits and risks, Milton Keynes, Open University Press, 1991.
Gene therapeutics. Methods and applications of direct gene transfer, ed. J.A. Wolff, Boston, Birkhäuser, 1994.
d.s.t. nicholl, An introduction to genetic engineering, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994.
s.b. primrose, Molecular biotechnology, Oxford, Blackwell, 19912.