INFINITO
(lat. infinitum, gr. ἄπειρον; fr. infini; sp. infinito; ted. Unendliches; ingl. infinite).
L'infinito nella storia della filosofia.
Questo concetto compare in Occidente per la prima volta con Anassimandro, che chiama τὸ ἄπειρον il principio metafisico, intendendo con ciò esprimere la sua duplice infinità, perché il principio non è limitato da nessun termine di spazio né di tempo, e perché esso, come ἀρχή, non possiede nessuna determinazione finita, non potendo esaurirsi in nessun oggetto particolare, ma dovendo fungere da matrice di tutti. Non è vero dunque che il pensiero greco rifugga per natura dall'infinito, che esso avrebbe equiparato all'imperfetto. Non solo alcuni presocratici (Anassimene, Senofane, Melisso) seguono Anassimandro nell'affermare l'infinito del principio supremo; ma anche Democrito, che pure ammette come ἀρχή un principio finito, l'atomo, conferisce all'infinito una certa realtà, sia perché pone come infinito il numero degli atomi, sia perché afferma l'esistenza del vuoto infinito, dove questi si muovono. Inoltre, Democrito stesso e dopo di lui il suo discepolo diretto Metrodoro di Chio ed Epicuro affermano l'esistenza di mondi infiniti in uno spazio infinito. Sennonché nello sviluppo del pensiero greco è stato decisivo il motivo idealistico rappresentato da Platone, e da Aristotele. Già per il primo l'infinito è l'indeterminato, ossia la materia bruta, caotica, che l'idea non ha ancora penetrato. Aristotele va più in là: per lui l'infinito non è reale né pensabile: tutto ciò che esiste, è perfetto, cioè finito; d'altra parte l'infinito è per definizione ciò a cui il pensiero non deve mai arrestarsi, cioè l'impensabile. Si aggiunga che l'infinito, se è reale, è sostanza; ma questa, per definizione, è indivisibile, e quindi non più infinita; poi, se è reale, ed esiste in atto, qualunque parte sua dovrebbe essere infinita, mentre è assurdo che un infinito sia molti infiniti. Ché, se diciamo che non ha parti, allora esso torna a essere indivisibile, ma tale non può essere l'infinito, che è necessariamente un quanto. Se ne conclude che l'infinito (spazio, tempo, numero) non è un'esistenza concreta, ma una potenza che rimane sempre tale (Met., XI, 10). Aristotele, che mira soprattutto a combattere gli argomenti con cui Zenone, con estremo ma impeccabile rigore logico, aveva ricavato dalla nozione razionale dello spazio e del tempo, l'infinita divisibilità collegandola ad alcuni noti paradossi sull'impossibilità del movimento, non s'accorge che il concetto di una potenza che non s'attua mai è contraddittorio; che il finito stesso presuppone l'infinito, essendo i due contrarî concetti correlativi e implicandosi reciprocamente; che la sua critica può valere contro l'infinito relativo e numerico, o indefinito, non contro l'infinito in senso assoluto, dal momento che anche per lui v'ha un infinito, cioè Dio, che è eterno. Nella speculazione posteriore il secondo infinito tende a distinguersi sempre più chiaramente dal primo, ossia si spiritualizza, trapassando dalla quantità alla qualità, dall'oggetto al soggetto, dal fatto all'atto. Perciò un importante passo fu compiuto quando il pensiero cristiano affermò che l'infinità compete come attributo essenziale alla divinità, essendo Dio perfezione, e non potendo esser perfetto se non l'infinito. Capovolgendo in certa guisa il ragionamento aristotelico, dall'essenza stessa dell'infinito S. Anselmo d'Aosta (Proslogium, II) desume la sua esistenza: il concetto dell'infinito è quello di un ente che ha tra le sue perfezioni necessariamente l'esistenza. Ora, di fronte alla spiegazione cristiana dell'infinità di Dio, risorge ancora il problema dei rapporti tra infinito e finito, e più precisamente tra il carattere infinito della divinità e la natura limitata e imperfetta della mente umana, a cui pertanto il primo dovrebbe rimanere impenetrabile. A questo quesito la filosofia cristiana risponde con la cosiddetta via analogiae: così S. Tommaso afferma che non possiamo avere cognizione adeguata dell'infinita essenza di Dio, che trascende ogni forma intellettuale umana; bensì possiamo formarcene un'idea certa e positiva ragionando sulle perfezioni delle creature le quali convengono a Dio quanto a quello che significano positivamente, ma non quanto al modo essenzialmente limitato in cui si realizzano quaggiù. Esse dunque si affermano della creatura e di Dio, ma non univocamente, bensì analogicamente (v. Summa Theologica, I, q. 13, articoli 3, 5, 12). Questa teoria correggeva il processo della teologia negativa della scuola alessandrina (Filone, poi Plotino e i neoplatonici), la quale considerando tutte le cose finite come assolutamente inadeguate a esprimere il principio supremo, in antitesi alla corrente maestra del pensiero greco, aveva attribuito a Dio il carattere dell'infinità, intesa come indeterminatezza qualitativa (ἄποιος): Dio è infinito perché esso è l'unità unissima da cui procede la sterminata molteplicità delle forme finite, nessuna delle quali può adeguarlo. Dio è dunque trascendente e inconoscibile; ma in un certo senso egli è pure l'infinità positiva di quella finitezza negativa, propria d'ogni prodotto naturale emanato dal principio supremo. Allorché dunque nell'età moderna si riprese il problema dell'infinito, e si ritenne che esso era insolubile con la concezione dualistica recisamente riaffermata dalla Scolastica sulle orme di Platone e di Aristotele, ci s'ispirò nuovamente al panteismo neoplatonico (Cusano, Bruno, Spinoza). Per Bruno l'infinito è il principio divino, che, incarnandosi nella natura, la rende anch'essa infinita: onde questo universo è eterno e illimitato, constando d'innumerevoli mondi moventisi in uno spazio infinito. L'universo dunque è Dio stesso, ma esplicato e disperso, come Dio è l'universo implicato e involuto: quello è piuttosto indefinito e interminato che infinito, mentre questo è la sostanza unica che non consente più parti, è l'assoluta unità trascendente, che accoglie indifferentemente nel suo seno tutti i contrarî. Dunque, l'infinito è coincidentia oppositorum (De la causa, dial. v). L'originalità di Bruno sta nell'aver dimostrato, in vivace reazione all'aristotelismo, l'impossibilità di assegnare un termine alla natura; e la necessità della connessione tra finito e infinito. Dio difatti non si svela se non producendo, ossia secondo il Bruno, incarnandosi nel finito; d'altra parte, per la stessa legge della coincidentia oppositorum, il minimo deve coincidere col massimo, il finito con l'infinito, l'uomo con Dio. È questo il tema sviluppato dalla filosofia moderna. Per Cartesio l'idea dell'infinito non soltanto è chiara e distinta, e, come tale, assolutamente vera, ma è anche la prima idea che il nostro pensiero intuisce. Difatti, anche quando pensa sé stesso (cogito ergo sum = autocoscienza, che è la fonte d'ogni certezza), il pensiero umano implica l'infinito, come l'imperfetto presuppone il perfetto; e quello quindi assume l'aspetto d'un'idea innata, o, in linguaggio moderno, d'una immanenza necessaria dell'infinito nel finito. Questa idea è per Cartesio assolutamente positiva, poiché non è nata dall'esperienza, né per negazione del finito, né come idea oscura o confusa, come avviene di tutte le idee materialmente false (luce-tenebra, caldo-freddo). L'infinito è anteriore, idealmente, a ogni finito, e ne costituisce la pensabilità. Ma poiché l'uomo non può avere acquistato l'idea per via empirica, né può esserne l'autore, essendo egli finito, come si spiega la presenza in lui dell'infinito? Gli è che l'infinito è Dio, e Dio stesso ha impresso nella mente umana, quasi a suggello della sua opera creatrice, la idea dell'infinito (Médit., III). Ora, poiché si trattava di chiarire il rapporto tra la mente umana e questa idea, il problema assumeva un carattere gnoseologico sempre più accentuato. Collocatasi su questo terreno, la scuola empiristica nega recisamente prima la conoscibilità, poi l'esistenza dell'infinito. Per il Locke (Essay, II, 17) l'infinito è un'idea oscura e confusa, d'origine empirica. Essa nasce dalla sensazione accoppiata alla riflessione, ossia dalla considerazione di una determinata quantità, che la mente, per via di successive addizioni, estende a suo piacere. Essa denota dunque la progressione, supposta senza fine, della mente, e nient'altro. Se invece si vuole che essa corrisponda alla visione totale di quelle idee successive di spazio o di numero, che una ripetizione senza fine non potrà mai esaurire, si afferma una patente assurdità. Ché se noi non dubitiamo di asserire che Dio è infinito, questo noi facciamo in ordine ai suoi attributi, che sono propriamente inesauribili e incomprensibili. Il Hume, sviluppando in maniera radicale il motivo lockiano, afferma che la capacità della mente umana non è infinita; per conseguenza tutto ciò che pensiamo, deve comporsi d'un numero finito di parti. Spazio e tempo esistono in conformità di quest'idea, come è comprovato dal fatto che la loro infinita divisibilità è contraddittoria, e che le loro parti non possono essere pensate se non sono riempite da qualcosa di concreto ed esistente. L'idea dell'infinito dunque non ha un'esistenza separata e indipendente, ma esprime solo l'ordine con cui esistono gli oggetti (Treatise, I, sez. 1v). Anche per Leibniz l'infinità dello spazio e del tempo è "un rapport, un ordre, non seulement entre les existants, mais encore entre les possibles"; sennonché questo è l'infinito astratto, che non è sostanza, e che propriamente dovrebbe chiamarsi indefinito, come già voleva Cartesio. Difatti nel mondo non esiste un tutto infinito: l'universo stesso non può essere affermato come un tutto. Il vero è che l'idea dell'infinito, come quella dell'essere, deriva dal nostro spirito, perché né i sensi né l'induzione potrebbero mai darci questa nozione; onde è lecito affermare che "l'idée de l'absolu est antérieure dans la nature des choses à celle des bornes qu'on ajoute". Ma se queste idee esprimono verità universali e necessarie, cioè eterne, gli è che allora esse trovano il loro fondamento in Dio, fonte unica e degli esseri e delle idee. Così, spazio e tempo, riferiti in Dio, cioè considerati come suoi attributi, diventano sostanza, ma perdono la divisibilità, perché non comportano più parti (Nouveaux essais, II, 17). Dalla sintesi dell'empirismo e del razionalismo Kant ricava un concetto originale, che sta tuttora a base della concezione idealistica dell'infinito. Queste due correnti avevano finito col proclamare che l'infinito non è una realtà sostanziale, bensì un ordine; Kant accetta questa combinazione, ma aggiunge che l'idea non è d'origine né empirica né razionale, bensì trascendentale. Ciò significa che l'infinità non si può considerare come propria degli oggetti in sé, ma soltanto come propria del nostro modo di rappresentarci gli oggetti conoscibili. Ossia: data la nostra attività sintetica a priori, o attività trascendentale, tutti gli oggetti trovano posto in un ordine temporale e spaziale, a cui non si può assegnare limite: ma erroneo sarebbe il voler affermare che, non potendo noi rappresentarci nessun oggetto come fenomeno fuori dello spazio e del tempo, questi ultimi sono costitutivi della realtà in sé delle cose. Allorché si adotta questo punto di vista, si dà origine a una duplice coppia di antinomie ("antinomie matematiche della ragion pura"), per cui con pari necessità si è costretti ad affermare: 1. (tesi) che il mondo ha un principio secondo il tempo e lo spazio; 2. (antitesi) che il mondo è infinito secondo il tempo e lo spazio; 1. (tesi) che tutto nel mondo è composto di elementi semplici; 2. (antitesi) che nel mondo non v'ha nulla di semplice, ma tutto è composto. Da cui si inferisce che nulla ci autorizza ad affermare che il mondo sia finito piuttosto che infinito. E invero nessuna delle due ipotesi può essere verificata dall'esperienza, perché né d'uno spazio infinito o d'un passato infinito, né della limitazione del mondo da parte d'uno spazio vuoto o d'un passato vuoto è possibile esperienza alcuna. La conclusione è che il principio dell'infinità non ci è imposto dagli oggetti, ma da una massima della ragione, che aspira a esser soddisfatta in modo assoluto; e che esso vale ad armonizzare le nostre conoscenze intellettive secondo principî, conferendo all'esperienza una forma di unità senza la quale il nostro conoscere rimarrebbe frammentario. Questo dell'infinito è dunque un principio puramente regolativo dell'esperienza, e non un principio costitutivo delle cose (Prolegom., paragrafi 51, 52, 56). Mentre la dottrina kantiana veniva svolta in senso scettico e agnostico dai rappresentanti più recenti dell'empirismo e del positivismo inglese (Hamilton, Mansel, Spencer), un più fecondo sviluppo essa riceveva per opera dell'idealismo tedesco. Questo, accettando come insolubile l'antinomia kantiana dal punto di vista dell'intelletto, la transvaluta elevandola a legge della realtà spirituale, che è la realtà assoluta. Così per Fichte l'opposizione tra finito e infinito è la legge onde si attua lo sforzo morale che è lo stesso Io, giacché questo, per agire, deve porsi degli oggetti, ossia porre a sé stesso un limite che esso supera infinitamente; e Schelling considera l'autolimitazione dell'Io come la condizione per la realizzazione dell'autocoscienza, mentre l'Io in questa sua finitezza diventa infinitamente. Hegel infine osserva, contro i negatori dell'infinito, che l'affermazione del finito contiene la prova della presenza effettiva dell'infinito perché del limite si può avere notizia solo in quanto c'è, di qua nella coscienza, l'illimitato; dimostra poi che nemmeno il dualismo il quale pone l'antitesi finito-infinito come insuperabile, è soddisfacente, perché esso colloca l'infinito accanto al suo contrario, come uno dei due, e con ciò lo rende particolare rispetto al finito: così si giunge a un infinito che è solo un finito, e a un finito che per contro diventa un assoluto, cioè infinito. Codesta è la falsa infinità propria dell'intelletto, consistente nella negazione del finito, che però nasce sempre di nuovo, e per conseguenza non viene superato. La vera infinità spetta all'Idea, che è l'unità dell'ideale e del reale, dell'anima e del corpo, del soggetto e dell'oggetto, del finito e dell'infinito. Ma si badi che quest'unità non è identità astratta, persistente in riposo, bensi processo, eterno divenire, in quanto ritorno negativo di sé in sé. Perciò l'Idea è dialettica e soggettività; epperò in essa l'infinito non è semplicemente giustapposto e neutralizzato dal finito, bensì soverchia sul finito stesso, come il pensiero soverchia sull'essere, la soggettivita sull'oggettività (Enciclopedia, trad. it., paragrafi 60, 94, 213, 214, 215). Nella speculazione contemporanea il concetto più alto in proposito è stato conquistato dal Gentile col suo idealismo attuale. Egli, enucleando i risultati positivi della corrente idealistica a partire da Cartesio, dimostra come l'infinito sia irraggiungibile qualora venga collocato sullo stesso piano del finito, nel quale necessariamente trapassa. L'infinito va tolto al mondo degli oggetti, della natura, sia pure questa concepita come natura razionale e ideale, e attribuito al mondo dello spirito. Ma non, da capo, in quanto questo si concepisca come spirito pensato, bensì come spirito pensante o atto puro. Quindi l'infinità è la stessa sostanza dello spirito che, nulla presupponendo, si crea con atto unico ed eterno, creando così a sé stesso un mondo che è infinito pur esso: 1. perché risolve in sé l'attività dello spirito che lo produce e con cui s'immedesima compiutamente: 2. perché questo mondo, staccato che sia dall'atto dell'Io, si disperde in una molteplicita di elementi, che, astrattamente, possono dirsi infiniti (Teoria gen. dello spirito come atto puro).
L'infinito nella storia della fisica e della matematica.
L'infinito per i naturalisti ionici. - L'idea dell'infinito compare nella filosofia greca fino dai più antichi Milesî (circa 600 a. C.). Anassimandro ammetteva l'esistenza d'infiniti mondi che nascono e muoiono periodicamente, a eguali intervalli, nello spazio infinito. Con l'aggettivo sostantivato "l'infinito" (τὸ ἄπειρον) Anassimandro designava anche la sostanza cosmica primitiva che, secondo i postulati della scuola ionica, assumeva come natura e origine delle cose: verosimilmente - per chi cerchi qui il senso fisico del concetto - egli intendeva così significare che tale sostanza è non solo quantitativamente infinita e perciò inesauribile, bensì anche illimitatamente diffusibile nello spazio, così da identificarsi con esso. La medesima esigenza è soddisfatta da Anassimene, che assume come natura delle cose l'"aria infinita" (τὸ ἄπειρονἀήρ).
Divisibilità della materia: pitagorici ed eleati. - Verso la fine del sec. VI un altro aspetto dell'infinito si rivela nella scuola italica, dei pitagorici e degli eleati, con la questione della divisibilità infinita della materia e della continuità dello spazio. Pare che i primi pitagorici facessero la materia composta di particelle elementari o monadi, a cui da una parte si riconosceva l'attributo di punti, dall'altra si concedeva pure una qualche estensione; e questa teoria aveva non soltanto un significato fisico, sì anche geometrico: la linea veniva concepita come una serie o gruppo ordinato di punti; gli enti geometrici erano ancora pensati in modo empirico, sebbene lo sviluppo delle dimostrazioni tendesse a fare della geometria una scienza razionale. Benché errata, questa concezione monadica dei pitagorici recava alla geometria stessa una veduta feconda, conducendo senz'altro alla misura delle linee, con tutte le conseguenze che ne dipendono. Soltanto la scoperta degl'incommensurabili, fatta nella stessa scuola, doveva mettere in luce l'errore del presupposto, e perciò dar luogo a una crisi delle dottrine pitagoriche.
La revisione dei principî è opera della scuola d'Elea, da Parmenide a Zenone: la materia è continua e compatta, illimitatamente divisibile; la superficie non è un velo di piccolo spessore, bensì una pura divisione fra spazî contigui; il solido, la superficie, la linea non sono composti di punti; il punto geometrico non ha estensione. Queste idee sono sviluppate da Zenone in una serie d'argomenti, che assumono spesso la forma di riduzioni all'assurdo della tesi pitagorica, e appaiono come sofismi a chi non tenga presente questo loro significato. Tali sono, per esempio, gli argomenti sul moto: 1. un punto non può percorrere, col moto, una linea AB, perché dovrebbe prima percorrere la linea AC metà di AB, poi la metà di CB, e così via; 2. Achille piè veloce non può raggiungere nella corsa la tartaruga solo che le dia un certo vantaggio AT, perché a tale scopo dovrebbe il punto mobile più celere venire a coincidere col più lento; ma quando A è andato in T (percorrendo l'intervallo AT, per es., di 1000 m.), T sarà andato in T′, percorrendo un certo intervallo TT′, per es., di 10 m.; e quandò poi T vada in T′, T′ si troverà in un nuovo punto Tn (i m. più in là), e così via, all'infinito.
Questi argomenti sarebbero probativi qualora il punto, e perciò anche ogni segmento per quanto piccolo, avesse un minimo d'estensione: si affaccia qui, in forma negativa, il postulato d'Eudosso-Archimede (v. continuità).
Infinito matematico. - La critica eleatica vuole avere un duplice significato: fisico e matematico. Dal punto di vista matematico i ragionamenti di Zenone pongono il problema della somma d'una progressione geometrica infinita
che si ha ragione di ritenere sia stato risolto proprio allora, sia da Zenone stesso, sia da qualche pitagorico suo avversario.
Sebbene si affaccino insieme le prime antinomie sull'infinito, che Zenone sviluppa sottilmente, pur fra contraddizioni inestricabili, nasce il convincimento che si possa discorrere dell'infinito come di qualche cosa e trarne qualche conseguenza significativa: sono gl'inizî dell'analisi infinitesimale. Se ne raccolgono, poco dopo, i primi frutti con la scoperta del volume della piramide fatta da Democrito d'Abdera. Non si può decidere con sicurezza se questi scomponesse il tetraedro, di base B e altezza h, in una somma d'infiniti prismi formanti la progressione
(come viene suggerito dalla prop. XII, 4 dell'Euclide), ovvero se lo decomponesse in una serie di prismi infinitesimi, riconoscendo così l'eguaglianza delle piramidi d'egual base e altezza.
Comunque, un passo di Plutarco (De comm. notitiis adv. Stoicos, XXXIX, 3) c'informa che Democrito s'imbatteva esplicitamente nella difficoltà di pensare un solido come somma d'infiniti strati infinitesimi, in quella guisa che occorre nel calcolo integrale.
Ma certo altre contraddizioni e abusi del concetto d' infinito venivano in luce per quei matematici che ne tentavano l'analisi verso il 400 a. C., finché non riuscì a Eudosso di Cnido di sistemare la cosa, per quanto concerne la determinazione d'aree e volumi e i rapporti di grandezze incommensurabili. Il suo metodo d'esaustione (v. integrale, calcolo), che è rimasto tipico fino ai nuovi sviluppi delle matematiche moderne, permette in realtà di eliminare l'infinito, con una riduzione all'assurdo (v. assurdo): invece di concludere che due grandezze sono eguali perché somma d'un numero infinito di parti eguali, si dimostra che non possono essere diseguali perché la loro differenza (che è qualcosa di fisso) dovrebbe potersi ridurre minore di qualsiasi grandezza assegnabile, piccola a piacer nostro.
Dopo Eudosso, Archimede fa dell'infinito matematico un uso più libero, introducendo sostanzialmente tutti i concetti dell'analisi infinitesimale: serie infinite, integrale, ecc. (v. infinitesimale, analisi); ma a questi concetti il sommo matematico siracusano conferisce soltanto un valore euristico, che è spiegato nel Metodo. La vera dimostrazione dei teoremi è ricondotta da lui ai procedimenti d'Eudosso.
L'infinito nella fisica. - Mentre il pensiero matematico greco riesciva in tal guisa a dominare l'infinito, dando al concetto un valore puramente negativo e circoscrivendone e sistemandone l'uso nei problemi elementari delle aree, dei volumi e dei rapporti, anche il significato fisico o cosmico dell'infinito continuava a essere oggetto delle speculazioni dei filosofi.
Parmenide d'Elea aveva rifiutato d'ammettere l'infinità della materia o del mondo: questo è perfetto e perciò deve essere limitato; "se gli mancasse il limite, tutto gli mancherebbe". Qui si fa valere un motivo caratteristico del razionalismo: l'impossibilità di circoscrivere l'infinito in un concetto, perché il concetto stesso implica necessariamente qualcosa di compiuto. Ma il motivo opposto si incontra in un discepolo della stessa scuola d'Elea, Melisso di Samo: il mondo che - secondo Parmenide - comprende tutto ciò che esiste (l'esistente s'identifica con la materia) deve essere infinito, altrimenti il pieno sarebbe limitato dal vuoto che, essendo il nulla o il non-esistente, è affatto inconcepibile.
Questa tesi di Melisso (che più tardi incontrerà la disapprovazione d'Aristotele) domina tuttavia il pensiero di Anassagora di Clazomene (sec. V a. C.), il cui sistema cosmico è fondato sul presupposto d'un moto iniziale di rotazione che, impresso dal Noûs in un punto della materia, si va estendendo indefinitamente, portando un ingrandimento progressivo e illimitato del mondo. Anche in altro aspetto l'infinito compare come nozione essenziale nel sistema anassagoreo. La materia sensibile risulta dal miscuglio di infinite qualità diverse, che in diverse proporzioni si trovano commiste in ogni porzione per quanto piccola, perché "l'infinitamente piccolo esiste" (in Diels, Vorsokratiker, fr. 1).
La divisibilità illimitata della materia fu invece negata dagli atomisti. Leucippo e Democrito - ammettendo il vuoto accanto al pieno e distinguendo fra divisibilità matematica e fisica - ammisero l'esistenza di elementi ultimi della materia, gli atomi, i quali, per la circostanza di essere compatti e impenetrabili, senza vuoti, riescono indivisibiles propter soliditatem. Ma gli atomi che si muovono nello spazio sono infiniti e, per effetto di cause simili, con i loro reciproci urti e moti vorticosi, dànno origine a infiniti mondi, i quali con alterna vicenda nascono, crescono e muoiono. (Cfr. Dem. A, 40 (2), in Diels, Vorsokratiker).
La tradizione della scuola atomistica ha conservato poi sempre questi postulati, caratteristici della dottrina. Nel poema De rerum natura di Lucrezio si trova esplicitamente dimostrato che: 1. lo spazio è infinito (I, 1008 segg.); 2. la materia è pure infinita e dà luogo al nascere e al perire d'infiniti mondi (II, 1040-76). La prima dimostrazione riproduce, in forma poco variata, un argomento attribuito ad Archita di Taranto: se lo spazio fosse finito o limitato, ed io mi portassi al limite di esso, chi mi vieterebbe d'alzare un dito al di là? Lucrezio parla invece di scoccare una freccia.
Ma di fronte alla veduta infinitista di questi filosofi una veduta opposta si fa valere nei pitagorici, in Platone e Aristotele. "L'opinione di colui che stima esservi infiniti mondi - è detto nel Timeo, 55 d - sembra appartenere ad uno che non ha finito d'imparare".
Il problema dell'infinito è stato discusso da Aristotele in una maniera che rivela anzitutto l'influenza della critica matematica di Eudosso. Egli distingue, con nomi appositamente da lui introdotti, l'infinito attuale (ἐνεργεία) e l'infinito potenziale (δυνάμρι). Una infinità attuale, cioè un Tutto costituito d'infinite cose date, non può essere pensato e perciò si deve dichiarare inesistente; invece si può pensare una serie di numeri crescenti oltre ogni limite, ovvero una serie di parti sempre più piccole ottenibili con la divisione d'una grandezza, ecc.; queste serie non sono mai date come un'infinità compiuta, ma sempre incompiute e prolungabili, perciò infinite in potenza.
L'applicazione di questi concetti alla fisica conduce Aristotele ad ammettere (in contrapposto a Democrito) che la materia (da lui pensata senza vuoti) sia illimitatamente divisibile, e invece che sia in quantità finita: unico e finito il mondo che la contiene ma non peribile, eterno. L'eternità nel tempo sembra ad Aristotele non includere un infinito attuale (anzi da essa proprio attinge l'idea dell'infinito potenziale), e ciò all'opposto dell'estensione infinita: perché se fosse dato un universo infinitamente esteso, sembra che la nostra mente dovrebbe anche poterlo pensare, in un istante, come totalità compiuta in sé stessa.
L'infinito nella filosofia ellenistica. - È singolare vedere come i diversi motivi, razionalistici ed empiristici, del finitismo e dell'infinitismo s'intrecciano nella filosofia ellenistica, dopo Aristotele. Gli epicurei, come si è detto, prendono da Democrito la tesi dell'infinità della materia e del mondo, ma viceversa vogliono giustificare il postulato degli atomi non più con l'impenetrabilità e quindi indivisibilità della materia compatta, bensì con l'esistenza d'un minimo sensibile. Gli stoici accettano, in genere, le vedute finitiste di Aristotele: quantità di materia limitata, mondo finito. Infinito è, per essi, soltanto lo spazio vuoto che circonda il nostro mondo, e invero si può concedere l'attributo dell'illimitatezza a qualcosa che propriamente non esiste. Ma il mondo stesso non è eterno: anzi, soggetto a morte per combustione, periodicamente rinasce.
Infine gli scettici, volgendo a un empirismo sempre più netto, sono condotti a negare radicalmente ogni infinito, come appare chiaramente nella polemica antimatematica di Sesto Empirico: per esempio la linea è concepita come serie o gruppo ordinato di punti, e quindi si trova un assurdo nel postulato che fra due punti possano sempre inserirsi altri punti intermedî.
Rinascimento. - Il Rinascimento porta una svolta decisiva nella considerazione dell'infinito. Un nuovo senso poetico e mistico della natura tende a nobilitare la materia: anche in questo, come in tutta l'opera di Dio, deve specchiarsi il divino. Con siffatta intuizione si richiamano gli antichi motivi pitagorici e democritei. Il sistema Copernicano apre la prospettiva d'un universo infinito. Le concezioni atomistiche e la grandiosa veduta della continuità della natura che vi si collega, dànno la spinta a quelle ricerche matematiche che metton capo alla costruzione dell'analisi infinitesimale.
Tenteremo di render conto partitamente dei problemi sull'infinito che s'incontrano in questi ordini di speculazioni.
Analisi infinitesimale. - L'idea fondamentale che costituisce il principio dell'analisi infinitesimale è la decomposizione delle figure geometriche, delle funzioni o delle leggi fisiche in elementi infinitamente piccoli; per es., una superficie si può concepire come somma d'infinite strisce rettilinee infinitamente sottili, una curva come poligonale con infiniti lati infinitamente piccoli, il movimento accelerato della caduta d'un grave come una successione di moti uniformi ciascuno della durata d'un istante, compiuti con velocità proporzionali ai tempi. Un'oscura intuizione in questo senso si può già ravvisare nella concezione monadica dei pitagorici, innanzi accennata; ma si è pur detto come il concetto del punto-esteso (elemento infinitesimo delle figure solide) si sia chiarito contradditorio al lume della critica eleatica. Eudosso di Cnido era poi riuscito a costruire - nei limiti delle esigenze del tempo - la teoria generale delle aree, dei volumi e dei rapporti, eliminando ogni ricorso all'infinito. Tuttavia Archimede, che spinse più avanti quest'ordine di problemi, aveva dovuto riconoscere il valore euristico dell'ipotesi infinitesimale per scoprire risultati che si potevano poi dimostrare col metodo d'esaustione d'Eudosso. Il Medioevo non ha mai dimenticato del tutto queste considerazioni: se ne trova traccia nel mondo arabo, per es., nelle ricerche di Savasorda (v. abrāhām ben hiyyā) e poi negli scolastici, fra cui citeremo Th. Bradwardine (v.). Anzi, col perdersi del senso critico più raffinato, è ovvio che anche le teorie elaborate da Eudosso o da Archimede dovessero ridiscendere, per così dire, alle intuizioni ingenue che ne costituiscono il motivo ispiratore.
Queste intuizioni dovevano trovare un'applicazione nella soluzione dei nuovi problemi che si pongono ai matematici del Rinascimento. E Kepler ne saggia il valore nella ricerca dell'area d'un settore di ellisse e dei volumi delle botti (1615). Ma soprattutto, nella scuola di Galileo, Bonaventura Cavalieri dà loro forma nel principio fecondo della Geometria degli indivisibili (1635); qui la superficie piana è concepita come insieme di tutte le linee sezioni con un fascio di rette parallele, e analogamente il solido come insieme di tutte le superficie sezioni con un fascio di piani paralleli: figure piane o solide le cui sezioni (linee o superficie) sieno eguali debbono avere rispettivamente la stessa area e lo stesso volume.
Che cosa sono questi elementi indivisibili di Cavalieri, linee o superficie generatrici di figure con più dimensioni? Sono veri infinitesimi per riguardo alla figura generata o all'opposto si debbono prendere come rigorosamente nulli, secondo Zenone d'Elea?
Tutto sembra indicare che Cavalieri fosse ben conscio che tale dilemma toglie ogni esistenza possibile ai suoi elementi, perciò che questi rappresentano soltanto una comoda finzione. Ma proprio dall'ardire del suo linguaggio il nuovo metodo traeva il più grande valore euristico. Poco dopo B. Pascal, nelle Lettres de A. Dettonville (1658) spiegava chiaramente: "Tout ce qui est démontré par les véritables règles des indivisibles se démontrera aussi à la rigueur et à la manière des anciens. Et c'est pourquoi je ne ferai aucune difficulté, dans la suite, d'user de ce language...". L'idea di Cavalieri e le idee analoghe dei molti che hanno concorso alla creazione della moderna analisi infinitesimale si trovano incorporate nel sistema di questa analisi, costruito da I. Newton (Principia, 1687) e da G.W. Leibniz (in Acta Eruditorum di Lipsia, 1684). Il quale ultimo col calcolo dei differenziali, fa un posto nel suo sistema all'infinitesimo. Lo intende egli come infinitesimo attuale?
La cosa è controversa, ma sembra che questo concetto come quello dell'infinito attuale sia veramente accolto dal filosofo, se pure egli si renda conto che tale ipotesi non è necessaria per fondare il calcolo infinitesimale, bastando all'uopo la considerazione di quantità variabili che divengono piccole o grandi quanto si vuole (infinitesimo e infinito potenziale): "Je suis tellement pour l'infini actuel qu'au lieu d'admettre que la nature l'abhorre, come l'on dit vulgairement, je tiens qu'elle l'affecte partout, pour mieux marquer la perfection de son Créateur. Ainsi je crois qu'il n'y a aucune partie de la matière qui ne soit, je ne dis pas divisibile, mais actuellement divisée, et par conséquent, la moindre parcelle doit être considérée comme un monde d'une infinité de créatures differentes" (Lettre à Foucher, in Phil. Schriften, I, p. 416, Berlino 1875).
L'infinito attuale. - Negli sviluppi posteriori del calcolo infinitesimale la critica è riuscita ad emanciparsi sempre più nettamente da ogni idea d'infinito o d'infinitesimo attuale, raggiungendo un perfetto rigore logico con A. Cauchy, e poi con C. Weierstrass, U. Dini, ecc. (v. infinitesimale, analisi). È lecito dedurne che i concetti stessi dell'infinito o dell'infinitesimo attuale sono logicamente assurdi? Tale era l'opinione di Cauchy; ma le ulteriori speculazioni del secolo XIX l'hanno superata. P. Du Bois-Reymond incontra gl'infiniti e gl'infinitesimi attuali come ordini d'infinito o d'infinitesimo nella teoria della crescenza delle funzioni: così, per es., log x, ed ex, per x → ∞, crescono in modo rispettivamente inferiore e superiore a qualsiasi potenza xn. G. Cantor, spingendo avanti le vedute filosofiche di B. Bolzano, giunge a costruire una teoria logicamente soddisfacente dei numeri infiniti, sia cardinali (potenze d'insiemi), sia ordinali (trasfiniti): v. insieme. Qui appare tutta una serie di infiniti crescenti senza limite; soltanto la concezione d'un infinito, per così dire, assoluto - insieme di tutti gli insiemi o ultimo trasfinito ordinale - urta in antinomie, che affaticano ancora i logici matematici (v. logica matematica).
Tuttavia i numeri infiniti - sia cardinali sia ordinali - di Cantor, pur costituendo enti logicamente possibili, sono lungi dal soddisfare alle proprietà formali che l'aritmetica riconosce per i numeri finiti Perciò Cantor stesso ritenne l'impossibilità di costruire un sistema di numeri non-archimedei, cioè un sistema di numeri soddisfacenti alle proprietà formali dell'aritmetica, entro a cui esistano numeri incomparabili, l'uno dei quali sia maggiore o minore d'un multiplo qualsiasi dell'altro: un sistema siffatto dicesi non-archimedeo perché risponde a una classe di grandezze per cui non vale il postulato d'Eudosso-Archimede e la continuità nel senso di Dedekind (v. continuità). Ma G. Veronese è arrivato alla conclusione opposta, giustificando la possibilità logica d'una geometria e d'una aritmetica non-archimedee: il più semplice esempio di grandezze geometriche non-archimedee è offerto dagli angoli curvilinei, ove si riconosce come angolo infinitesimo rispetto ad ogni angolo rettilineo, eppure non nullo, l'angolo di contingenza fra due linee tangenti, della cui natura si era già a lungo disputato fin dal Rinascimento (v. angolo). Dopo Veronese, T. Levi-Civita con i cosiddetti monosenî, e poi D. Hilbert, assumendo come numeri le frazioni algebriche, considerate per valori alti della variabile, hanno realizzato formalmente nella maniera più semplice i numeri non-archimedei.
Infinità del cosmo. - Abbiamo veduto le speculazioni dei matematici metter capo a risultati positivi che superano le vedute degli antichi. Vediamo ora il punto di vista fisico o cosmologico.
Gli astronomi, che con la rivoluzione copernicana hanno veduto allargarsi smisuratamente l'orizzonte stellare e cadere i cieli di cristallo dei peripatetici, non hanno esitato a concepire l'universo infinito; forse anzi qui è da cercare uno dei motivi più profondi delle difficoltà sollevate dal sistema copernicano, e dalle concezioni filosofiche (come quella di G. Bruno) che vi si riattaccano, perché un'infinità materiale pareva contraddire al senso assoluto dell'infinità spirituale di Dio. Comunque, l'idea dell'infinità dei mondi fu accolta negli ambienti scientifici e anche popolarizzata, alla fine del sec. XVII, per es., negli Entretiens sur la pluralité des mondes di Fontenelle.
Durante il sec. XIX l'idea che esistano infiniti corpi celesti sembra accettata da coloro che osano speculare al di là dei limiti della scienza sperimentale; il motivo fondamentale è pur sempre quello che s'incontra presso gli antichi, per es. in Lucrezio: non si vede ragione perché una materia finita debba concentrarsi in un angolo finito dello spazio infinito.
Tuttavia non appare che l'ipotesi venga saggiata al lume di principî universali, assunti per estrapolazione delle leggi fisiche conosciute.
Sul terreno di siffatte estrapolazioni portò, nella seconda metà del secolo, il secondo principio della termodinamica (degradazione dell'energia); e W. Thomson (lord Kelvin) sviluppò le conseguenze paradossali di tale principio, assunto come valido nell'infinito del tempo. Più tardi S. Arrhenius - nel suo libro affascinante ma un po' avventuroso sul Divenire dei mondi (1904) - introduceva espressamente l'ipotesi dell'infinità dell'universo materiale per infirmare il valore universale della degradazione dell'energia, che si ridurrebbe a un fatto portato dalle leggi della probabilità nell'ambiente limitato delle nostre osservazioni.
Ma una volta aperta la via a quest'ordine di speculazioni, si affacciavano naturalmente altri problemi: è possibile ammettere l'esistenza d'infiniti corpi luminosi senza che i cieli siano pervasi di una luce infinita? e, qualora si ammetta anche l'esistenza d'infinite masse oscure, quali conseguenze sono per risultarne in ordine alla teoria della gravitazione newtoniana? L'astronomo H. Seeliger sembra aver affrontato per primo tali problemi, rilevando che, nell'ipotesi d'infiniti corpi con distribuzione di materia relativamente uniforme, l'attrazione newtoniana che si eserciterebbe dall'insieme sopra un punto materiale riuscirebbe indeterminata (Astr. Nachrichten, 1905). S. Arrhenius (Die Unendlichkeit der Welt, in Scientia, 1909) cerca di mostrare che codesta attrazione risultante potrebbe determinarsi per compenso delle attrazioni lontane in sensi opposti. Ma E. Almansi (in Memorie Lincei, 1913), esaminando la questione con rigore, dimostra che - almeno nelle ipotesi più generali - l'attrazione resultante d'infinite masse risulta indeterminata; però la differenza delle attrazioni esercitate su punti vicini può ritenersi determinata, e ciò basta perché l'ipotesi sia giudicata compatibile coi fatti conosciuti, perché in effetto solo codeste differenze compaiono nelle nostre misure. Per conseguenza l'estensione all'universo dei principî della dinamica di Newton non contraddice l'ipotesi d'una infinità di stelle, con distribuzione relativamente uniforme.
Ma, come è noto, la dinamica newtoniana è stata superata, d'altra parte, con la teoria di A. Einstein (v. relatività). La concezione d'uno spazio concreto riemanniano, in cui le masse corrispondono a una curvatura, suscita la domanda se lo spazio - così inteso - possa essere finito, quantunque limitato. Einstein stesso, nel 1917, assumendo l'ipotesi d'una distribuzione relativamente uniforme della materia, fu tratto a concepire uno spazio di tal natura, e precisamente del tipo cilindrico. W. De Sitter, poco appresso, ideò lo spazio sferico. Però, approfondendo la ricerca, ci si è accorti che le equazioni della relatività, leganti il raggio di curvatura dello spazio con la densità media della materia e con altri caratteri fisici, dànno soluzioni instabili. Essendo inverosimile che i coefficienti abbiano esattamente quei valori costanti cui risponderebbero tali soluzioni, nasce naturalmente l'idea di soluzioni di carattere evolutivo: la curvatura dello spazio finito va decrescendo col tempo, e si avrebbe così un'interpretazione del fenomeno per cui le nebulose extragalattiche appariscono allontanarsi da noi, le righe spettrali essendo spostate fortemente verso il rosso (v. doppler: Principio di); si tratta in realtà di velocità radiali apparenti di 20 mila km. al 1″, quasi mille volte più grandi di quelle che posseggono le stelle galattiche. Invero il rallentamento delle vibrazioni luminose, che in tal guisa viene messo in evidenza, riesce all'ingrosso proporzionale alla distanza: mentre nella precedente teoria del De Sitter si prevederebbe proporzionale al quadrato di questa.
L'interpretazione anzidetta, e la relativa ipotesi d'uno spazio materiale finito a curvatura variabile (universo espansivo), si è affacciata con Friedmann (1923-24) ed è stata sviluppata dall'abate Lemaître (Bruxelles 1927) e poi dal De Sitter, da A.S. Eddington e da Einstein.
Bibl.: Opere generali: J. Cohn, Geschichte der Unendlichkeit, Lipsia 1896; C. Cohen, Das Princip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte, Berlino 1883; G. Vivanti, Il concetto d'infinitesimo. Saggio storico, Mantova 1894. Per la storia dell'infinito nell'antichità cfr. F. Enriques e G. de Santillana, Storia del pensiero scientifico, I, Milano 1932, pp. 54, 79, 107-11, 123, 198, 253, 358, 373, 555, 625, 638; E. Rufini, Il metodo di Archimede e le origini dell'analisi infinitesimale nell'antichità, Bologna 1926.
Per la storia dell'infinito in connessione con lo sviluppo del calcolo infinitesimale nell'epoca moderna si vedano la storia generale delle matematiche di M. Cantor e quelle di G. H. Zeuthen e di G. Loria per i secoli XVI e XVII. Inoltre: L. Carnot, Réflexion sur la métaphysique du calcul infinitésimal, 1797, nuova ed., Parigi 1921; A. Comte, Cours de philosophie positive, I, Parigi 1890; A. Cauchy, Leçon sur le calcul infinitésimal, Parigi 1829. Per gli sviluppi successivi e in particolare sull'infinito attuale, cfr. B. Bolzano, Paradoxien des Unendliches, op. post., Lipsia 1851; P. Du Bois-Reymond, Die allgemeine Functionentheorie (classica definizione delle posizioni opposte degl'idealisti o realisti e degli empiristi o nominalisti), Tubinga 1882; L. Couturat, De l'Infini mathématique, Parigi 1896; O. Zariski, Note storico-critiche alla traduzione di R. Dedekind, Essenza e significato dei numeri, Continuità e numeri irrazionali, Bologna 1926.
Per le recenti vedute sul problema cosmologico: Gratton, Il problema cosmologico della teoria della relatività, in Coelum, dic. 1931; W. De Sitter, The expanding Universe, in Scientia, 1931, p. 1 segg.; L. Silberstein, The size of the Universe, Oxford 1930.